giovedì 12 gennaio 2017

PASQUALE BALESTRIERE SU "IL MIO EXODUS" DI U. CERIO



Umberto Cerio,
collaboratore di Lèucade

IL MIO EXODUS
di
 Umbero Cerio
Pasquale Balestriere,
collaboratore di Lèucade

Per intendere correttamente l’Èxodus di Umberto Cerio mi pare opportuna una breve premessa di ordine lessico-semantico. In greco il termine ξοδος (èxodos) è composto da ξ (ex, fuori e anche da) e δς (hodòs, cammino, strada). Esodo significa dunque uscita, passaggio, ma anche viaggio,via di scampo, migrazione ( di popoli), fine, conclusione, morte. I Romani, che per certi versi saccheggiarono, con intelligenza però, il mondo culturale greco, e quindi anche la lingua, avevano già, per indicare la stessa cosa, il deverbale exitus ( ex-itus,  da exire). Perciò Exodus   appare nella lingua tardo latina, in forma di prestito leggermente modificato, solo per indicare l’omonimo libro della Bibbia, nel quale è narrata l’uscita  -esodo, appunto-,   per la verità piuttosto simile a una fuga, del popolo ebraico dall’Egitto, dove era stato tenuto in condizione di schiavitù o almeno di sottomissione. Vedremo tra poco perché Cerio titoli  latinamente il suo poemetto.
Intanto va subito detto che in questi versi il poeta descrive, e vive,  con sofferta partecipazione, innanzitutto alcuni exodi storici; li convoca e li schiera in bell’ordine per una rassegna che intride il cuore di amara consapevolezza; exodi che - non dimentichiamolo!- sono sempre distacchi dolorosi se non strappi laceranti: di popoli - Greci, Troiani, Ebrei,  Afgani – oppure di  singoli – Cassandra, Maometto-. Ecco pochi esempi per dire come l’exodus sia “circolo eterno di fughe / seminatore di morte/ (...) coro di lunghe torture /  che risuona nelle valli di morte /  (...)  fuga di asini lenti / e  nere masserizie (...) indovino di terrore (...)  fuga interiore alla luce (...) viaggio infinito”.  Anche in questi lacerti, estrapolati dal poemetto, si può  leggere il percorso poetico di Cerio che dalla coscienza di exodi storici e collettivi approda alla dimensione di un exodus interiore ed individuale -il suo-, che tutti li riassume e contiene e che è interpretato come viaggio nella vita - reale e metaforico, fisico e interiore -, esperienza bellissima e terribile, avventura inimitabile e, dunque,  irripetibile. Ma, per altri versi,  anche come distacco, come rinunzia a tutto ciò che è percepito ingiusto, sbagliato, disonesto, turpe. Nel fuoco etico che lo induce  alla denuncia e alla condanna decisa del male che imperversa nel mondo, Cerio sembra quasi vestire i panni del vate, dell’antico profeta: “Non cresceranno mai fiori / sulla terra  (...) Non cresceranno mai alberi sacri / su pietre...”. Il tono è acceso e severo, la percezione del reale quasi apocalittica, certamente sconsolata, a fronte di un’umanità priva di punti di riferimento perché dimentica delle proprie radici, e ormai completamente allo sbando.
Dunque Exodus come viaggio, con pochi successi e molte sconfitte; come ricerca del proprio destino di essere umano; come allontanamento o via di scampo dalla violenza e dalla corruzione; come realizzazione dell’ansia odissiaca innata nell’uomo che lo sollecita a sempre nuove scoperte e realizzazioni; come rinnovamento continuo di se stesso e come tensione a ideali da perseguire; ma anche con la carica allusiva che richiama l’uscita dalla scena del coro negli antichi drammi greci e con il sotteso riferimento alla conclusione, alla fine, alla morte. Come si vede,  questo poemetto, per buona parte solenne e austero ma soffusamente lirico nelle strofe finali, tocca o sviluppa  tutto l’ampio ventaglio di significati del termine exodus proposti in premessa.
C’è, per finire,  una domanda che aspetta risposta. Perché il titolo in latino? A parte il fatto che la Bibbia è giunta al mondo religioso occidentale soprattutto nella sua versione latina ( chi non ne ricorda almeno l’iizio? In principio creavit Deus caelum et terram. Terra autem erat inanis et vacua ...), mi vien da considerare  che  Cerio,  attraverso questa scelta, istituisca uno stretto legame tra il suo poemetto e il secondo libro del Pentatèuco, dove si parla distesamente del primo esodo della storia, quello del popolo ebraico (che precede di poco quello dei  Troiani dalla loro città in fiamme); e che quindi a quel “liber-monumentum” in particolare egli intenda riferire, per qualche riflesso e su un piano traslato,  la sua esperienza “esodante” o, se si vuole,  il suo exodus di soggetto poetante, il viaggio e  il libro della sua vita, in cui confluiscono,  per accorata condivisione, tanti altri libri e viaggi, storia e storie.   
Un poemetto, questo, in cui si versa dovizioso e corrusco il mondo affettivo del poeta molisano. Con note fervide di spiccata umanità.

Pasquale Balestriere




IL MIO EXODUS

Exodus di antichi Greci cacciati
da gente violenta del Nord
nella terra di Pandione e di Egeo;
exodus dei Troiani superstiti
dalla distruzione spietata di Ilio
( compiuta damolte stirpi dei Greci)
che il pianto di Omero immortala;
exodus circolo eterno di fughe,
seminatore di morte, invocata
giustizia di uomini e donne,
conforto di vittime-padri
sicari per vendette implacabili,
per furore di sventure perenni
sei ancor oggi nel cuore del tempo.

Exodus della presaga Cassandra
che scova come un segugio
di Agamennone nell’infida reggia
tragiche tracce di antichi delitti
e trepida Scamandro invoca
-acqua lustrale della sua terra-
mentre in Argo sulla polvere muore
nella casa ove s’è insediato un coro
intonato e straziante, che canta la morte,*
e dove di sangue s’è ubriacato il coro
delle Erinni,* nate dal sangue di Urano
da Cronos castrato, offesi spiriti
di Giustizia per l’ara rovesciata
e di Vendetta che chiama altro sangue,
sei ancor oggi un canto straziante.

Exodus  di Ebrei schiavi d’Egitto
che liberi si fanno nella terra
promessa attraversando il deserto
di sabbia e di sole brucianti
e il deserto della loro ragione:
eressero allora l’idolo d’oro
che li inchioda alla terra violata
persecutori ora di popoli
che giurano Giustizia e Vendetta;
exodus di Maometto a Medina,
che con la sua higra un popolo sperso
tra le onde delle dune di sabbia
plasmò nel palmo del deserto
al respiro di pazienti cammelli,
siete il coro di lunghe torture
che risuona nelle valli di morte
al lamento perpetuo delle madri.

Exodus afgano prima di guerre
di vendette, fuga di asini lenti
e nere masserizie, simboli d’atavica
miseria di oscuri Musulmani
ai margini del mondo
che non hanno sognato paradisi
e delizie promesse,
sei indovino di terrore
nelle ossa tremanti di fatica
e dolore della morte violenta.
Nell’oriente lontano e misterioso
in migliaia di anni
intere stirpi di eroi quotidiani
hanno forgiato arte
e cieli tersi su cime di monti
ove i morti saranno sepolti
tra macerie di frantumi e speranze
e macerie di giorni e di notti.

Non cresceranno mai fiori
sulla terra dove madri bendate
avranno sepolto figli massacrati
e figli sepolto padri traditi,
dove padri e figli attendono insieme
il silenzio perenne delle stelle,
l’eterno freddo della morte.

Non cresceranno mai alberi sacri
su pietre dove imputridito sangue
di ignari eroi senza nome
si disperde nero e aggrumato
ai rari morsi di uccelli rapaci
e corpi insepolti offerti alle fiere
nei templi del silenzio
dove l’amore è forse da tempo
solo infinita immagine vuota
negli occhi perduti tra cielo e rocce.

Exodus, mio exodus terribile,
che mi dai insaziata libertà
e speranza di vivere e amare,
scardini porte di acciaio serrate,
sfondi soffitti e pareti di pietra,
voli negli spazi aperti del mondo
oltre le mura del dolore.

Exodus, oh! mio exodus
atteso una vita,
sei fuga interiore alla luce
da un oscuro ignoto,
crollo aereo che esplode nel buio
e infrange barriere del cuore.
Mio exodus, viaggio infinito
dell’uomo sapiente e blasfemo
che torna alla terra dove nacque
-dopo oscure minacce di morte-
che sa i giorni dell’ansia bruciante
e le notti di angoscia o di attesa,
nei dubbi atroci della memoria
sei cammino ritrovato e perduto.

Exodus, mio exodus senza fine,
errare senza sapere più dove,
viaggio che comincia alla luce
del fuoco greco e di tede augurali,
fino alle torce, alle lanterne a gas,
alle gelide  lampade del neon
e al raggio tagliente del laser,
mio exodus ancora senza fine,
oh! exodus senza mai una fine,
senza vanità di gioie e speranze,
ebbrezza di avventure mai vissute,
sei la storia della vita dell’uomo,
nel male più duraturo del bene,
che ora ha smarrito nella spelonca
dei giorni la ragione segreta
di questo suo lunghissimo andare.

*Eschilo, Agamennone, traduzione di P.P. Pasolini.









10 commenti:

  1. Il tempo indefinito di un viaggio che lascia intravedere una fine come se - a dover finire - non e' l'uomo ma l'affanno di un'intera generazione. Exodus ha una meta letterari, ci trasporta "la parola" e si carica di simboli ed affiora con i suoi toni-giochi di parole-laudi intonate e sorprendenti.

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  2. Nella figura del circolo l’Exodus porta con sé l’eterno dello stesso viaggio, l’immortalità nel pianto di Omero, il senso della luce, seppur nella diversità della sorgente e del suo tempo “ dal fuoco greco alle torce, alle lanterne a gas, alle gelide lampade del neon, e al raggio tagliente del laser”. È il cammino, spazio-temporale, di popoli, di antiche stirpi e di eroi; è il cammino di un uomo, del “suo exodus” e della sua conclusione. Un “seminatore di morte”, ma anche di “invocata giustizia” e di “conforto di vittime”.
    Non a caso l’opera inizia con un riferimento preciso: “nella terra di Pandione e di Egeo”, lì dove lo scudo e la spada, l’appartenenza dei calzari, permisero il riconoscimento di un figlio, Teseo, la sua salvezza dal veleno di Medea. Il tempo dell’ “eterno circolo” ne ha tramutato il senso di libertà nel “deserto della ragione”. E non è mancato “il lamento perpetuo delle madri”, i “sepolcri tra macerie di frantumi e speranze, macerie di giorni e di notti”.
    L’exodus, il “suo exodus”, è il viaggio di un Ulisse verso una terra dove gli occhi di una donna, di un amore, hanno l’infinità di un’immagine vuota, sono perduti “tra cielo e rocce”. L’exodus non è più consolatorio, ma “terribile…donatore…di insaziate libertà”, di pietre sfondate, dove non crescono “fiori…e alberi sacri”, ma “sangue aggrumato, imputridito….di ignari eroi..di figli massacrati e di traditi padri” che ormai non hanno scudi, spade, e non calzano gli stessi calzari. Complimenti al poeta. Emanuele Aloisi

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  3. mi scuso nei confronti di una superba recensione, e del suo grande autore, Pasquale Balestriere, per aver distrattamente omesso di aver dato etimo e valore alla stessa opera del poeta. Complimenti a entrambi. Emanuele Aloisi

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  4. Ho letto e riletto l'Èxodus di Umberto Cerio che mi ha enormemente emozionato nell'attraversare le varie fasi di popoli, differenti tra loro, ma uniti dalla stessa orribile sorte. I versi sono pietre infuocate. La rabbia e la malinconia li accompagnano e il poeta non disdegna parole forti che avvolgono tragedie e dolori indescrivibili. Quante morti! Quante madri e padri in attesa di rivedere i figli e quanti figli di riabbracciare i propri cari. Questo è un cammino lastricato di dolore e l'autore lo ha “sentito” fortemente tramite la sua spiccata sensibilità e la sua innata capacità di poeta. Si è favorevolmente colpiti dall'incalzante MIO EXODUS che ha dato corpo e grande sostanza a tutta l'opera. Si avverte il dolore del poeta e l'impotenza di fare e ricevere da questo mondo così disumanizzato. Molto significativi questi versi:
    “Exodus, mio exodus terribile,
    che mi dai insaziata libertà
    e speranza di vivere e amare,”

    “voli negli spazi aperti del mondo
    oltre le mura del dolore.”
    ES IST WAHR!
    Complimenti al poeta.
    Giannicola Ceccarossi

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  5. Leggere il poemetto di Umberto Cerio è come sfogliare un libro di storia. Ma è attraverso un atto di empatia che cogliamo il fil rouge che lega la composita prima parte, ricca di particolari storici e geografici, ambientali e paesaggistici, alla seconda, filosoficamente più interessante, a mio parere.
    Exodus come fuga in massa di popoli, come fuga dal reale per sottrarsi al suo deludente ritmo di evenienze effimere e mutevoli, tragiche e fatali.
    Nuclei fondamentali sono il dolore della separazione, la lacerazione dell’abbandono, il senso di sperdimento e infine la perdita dell’identità.
    Eppure non per tutti l’esodo rappresenta ciò. Per gli Ebrei l’exodus fu ritorno alla terra promessa, per Enea fu il compimento di una profezia, non già un viaggio rinunciatario, ma un desiderio impellente di riscattare l’esistenza abbrutita dalla sconfitta per un’altra di elezione.
    E ancora, exodus come stimolo alla conoscenza, come consapevole ricerca lungo le strade del mistero con l’illusione o la presunzione di penetrarlo in questa terra.
    E infine l’uomo che lascia la sua terra, esplosa nei suoi valori, nelle sue formule e nelle forme interiori, vittima di soprusi e violenza, non più culla ma letto di morte per migliaia di esseri umani, molti appena affacciati alla soglia della vita. E per mano di altri esseri umani. Sicché l’esodo non è ritorno, non è viaggio, ma fuga di popoli interi che migrano, che lasciano la loro storia, la propria tradizione per trasformarsi in personaggi senza storia. E vanno alla ricerca di un’identità in un’epoca come la nostra senza più identità, ma soprattutto senza pietas.
    Il naufragio di barconi stracolmi di esseri umani in fuga che troppo spesso avviene sulla rotta verso il Mediterraneo non è solo un simbolo, è l’ironia che serpeggia nel destino.
    Nella seconda parte intravedo analogo e diverso tentativo di esodo, di fuga, di viaggio tra i mari del tempo per quell’appartenenza perduta. Per ritrovare se stessi nel dolore, nella preghiera, nel dialogo profondo nei fondali dell’animo, laddove non esiste finzione, dove regna il mistero, dove occorre tanta pazienza. E che in definitiva è segno d’Amore, è un atto d’Amore.
    L’Amore, che realizzando il sentimento dell’umanità, crea negli uomini una condizione di perenne insoddisfazione, di assidua brama, in definitiva di costante ansietà. Una specie di sgomento che si chiama malinconia.
    Malinconia che diventa l’emblema dell’uomo vero, che è speculare all’entusiasmo. Che esprime una sete di conoscenza inestinguibile, mai appagata, dando luogo spesso a sentimenti di delusione, perfino di stanchezza. Ma è proprio questa condizione che accende il desiderio.
    Un'inquietudine che non ci fa distinguere facilmente il vero,anzi quanto più ci mettiamo sulle sue tracce tanto più la fuga dal reale diventa una necessaria condizione. Solo in tal modo è possibile distinguere il vero dal falso e giungere alla consapevolezza che tutto ciò che appare, la vita stessa, è il sogno di un’ombra come recita Euripide in Plotino. Di qui l’arduo compito di cercare e credere in “realtà” altre, metafisiche, oltre il tangibile.
    ut non iuniura Euripides hanc vitam umbrae somnium appellaverit” (Plotino Teologia platonica libro XIV, cap. VIII)
    Dunque tali fughe interiori, anzi ex interiore, non sono altro che ricerca , una sorta di arte maieutica sulla via della conoscenza e della compiutezza del destino dell’uomo.
    In conclusione è questo il pathos del poema. L’andare come mezzo di conoscenza di sé e del mondo, come ricerca delle condizioni esistenziali dove si possa contemplare il mistero della vita, mentre lo si vive. Per far ciò occorre però superare l’inquietudine, non solo quella interiore, ma quella del viaggio in cui l’uomo si trova ad affrontare il tempo. O del viaggio nel quale, attraverso la memoria, l’uomo cerca la sua storia.
    E questo è il pathos che pervade l’intera lirica, dall'andamento a volte prosastico per la sovrabbondanza descrittiva, e per la mancanza di un labor limae efficace, che togliendo verbosità , doni un po’ piu di armonia e musicalità.
    Adriana Pedicini

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    1. Non mi sento di essere completamente d’accordo sul seguente passaggio: “Per gli Ebrei l’exodus fu ritorno alla terra promessa, per Enea fu il compimento di una profezia, non già un viaggio rinunciatario, ma un desiderio impellente di riscattare l’esistenza abbrutita dalla sconfitta per un’altra di elezione”.
      Ritengo infatti che per gli Ebrei l’exodus (prima concordato tra il faraone e Mosè e poi trasformatosi in fuga) fu sì un ritorno alla Terra promessa (se pure di “ritorno” si può parlare, visto che gli Ebrei mai avevano posseduto prima quella terra), lieto al momento della partenza, ma, nel suo corso, pieno di difficoltà, di malumori, di sofferenze, di criticità, di ribellioni sedate duramente con migliaia di morti voluti da Dio, da Mosè o da Giosuè, di guerre con altri popoli, di rischi d’ogni genere al punto che molti fuggiaschi rimpiansero l’Egitto e la vita che vi conducevano. E non dimentichiamo che il popolo eletto girovagò nel deserto per 40 anni: ora io non so a quanti nostri anni corrispondano i 40 della Bibbia, ma certamente non si trattò un periodo breve. Se poi ci aggiungiamo che, per condanna divina, tutti gli ebrei che avevano più di venti anni al tempo in cui furono minacciati di lapidazione i giusti Giosuè e Caleb non sarebbero entrati nella Terra promessa, ci si accorgerà che l’esodo ebraico, il passaggio attraverso il deserto con relativo approdo al luogo sognato non fu affatto operazione piacevole. Insomma un viaggio molto avventuroso, irto di spine. Comunque doloroso.
      Quanto ad Enea, il suo esodo e quello degli altri troiani fu inizialmente un esodo forzato, necessario, una fuga per salvarsi dalla morte, che si trasformò in attuazione di profezia, al tempo dell’ «anticam exquirite matrem», cioè quando Enea, fuggito anche dalla Tracia (episodio di Polidoro) dove l’aveva illuso l’idea di fondare una città e non sapendo ormai che pesci pigliare, sbarca a Delo e per sua fortuna ascolta l’oracolo che lo invita a cercare “l’antica madre”. Solo da questo momento Enea cerca la nuova/antica patria, che non è Creta, come pensava Anchise, ma l’Italia da cui era partito il loro antenato Dardano.
      Pasquale Balestriere

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    2. Che dire di questo poemetto di Umberto Cerio dopo la presentazione autorevole, appassionata, puntuale dell'amico Pasquale Balestriere? A parte che non condivido che nella scelta di un vocabolo un autore debba rifarsi all'etimologia dello stesso ma piuttosto che il preferirlo sia frutto inconsapevole, istintuale, derivato sì, dal substrato culturale che nutre il suo linguaggio, qui tuttavia, nella recensione, la consequenzialità logica nella disamina dei vari elementi non fa una piega.
      Ritengo, però, che per apprezzare appieno l'intensità emotiva dell'opera di Cerio, questa vada riletta almeno una volta. Una prima rapida scorsa con il richiamo insistito a quegli esodi così eterogenei nella loro frammentarietà tra il leggendario e il reale non dà contezza della vera essenza del poemetto. È il viaggio dell'uomo – o forse in genere dell'essere pensante - che qui si ripercorre le cui tappe sono sempre caratterizzate dal sangue. Uomo nella sua globalità - senza distinzione di religione o di etnia e per questa ragione gli episodi fanno riferimento a Greci, Ebrei, Musulmani – il cui cammino è stato sempre lastricato da dolori, sconfitte, dipartite. Le scoperte non lo appagano, il sogno di libertà è sempre legato a quel filo di speranza di un cambiamento che non potrà avvenire perché l'exodus non avrà mai fine. È la maledizione Dio nel libro della Genesi che si fa sentire: ”Maledetto il suolo… con dolore né trarrai cibo” perché è proprio da Adamo ed Eva, di cui niente si sa prima della loro cacciata dal Paradiso Terrestre, che comincia il difficile itinerario della Storia. Che poi Cerio lo abbia fatto iniziare da Urano è un altro segno della sua abilità nel non volere, cioè, dare una connotazione religiosa al suo lavoro così che in questo viaggio o exodus dai primordi a oggi tutti universalmente possiamo riconoscerci. Forse il titolo del poemetto, se non si vuole considerare l'autore come unico rappresentante dell'umanità, avrebbe potuto essere benissimo “Il nostro exodus”. Carla Baroni

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  6. La storia dell'uomo è storia di un "lunghissimo viaggio" "nel male più duraturo del bene", ma è anche paradossalmente una corsa nel buio riscaldati da una luce interiore: "Exodus, mio Exodus terribile / che mi dai insaziata libertà / e speranza di vivere e di amare". Così scrive Umberto Cerio in questo poemetto di profondissima sapienza metafisica e umana, dipingendo la condizione dell'esule come la condizione tipica di Adamo, da un lato in fuga dalla pienezza dell'essere e dall'altro in cerca di essa. Un viaggio che nello stesso tempo, da sempre, è "cammino ritrovato e perduto". Una navigazione che è e resta fondamentalmente una prova, un rischio, una (dis)avventura dove la fede vacilla e lo smarrimento quasi sempre la fa da padrone. Puntuale e limpida, la lettura di Balestriere pone in luce queste valenze interiori della suggestiva narrazione, cogliendo, attraverso le memorie mitologiche e storiche delle tante diaspore che da sempre affliggono il genere umano (fino, aggiungerei, alle vicende dolorosissime dei giorni attuali), l'essenza spirituale della tragica esistenza umana, "come realizzazione dell'ansia odissiaca innata nell'uomo...; come rinnovamento continuo di se stesso, ma anche con la carica allusiva che richiama l'uscita dalla scena del coro nei drammi greci e con il sotteso riferimento alla conclusione, alla fine, alla morte". Complimenti al critico e al poeta.
    Franco Campegiani

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  7. Ringrazio Nazario Pardini per l'invito a scrivere; Umberto Cerio per avermene dato l'occasione con il suo umanissimo "Exodus"; Emanuele Aloisi, Carla Baroni e Franco Campegiani per le parole di stima; tutti per essere intervenuti ad arricchire la discussione.
    Pasquale Balestriere

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  8. Un grazie particolare a Nazario Pardini per la sua sensibile e significativa ospitalità; a Pasquale Balestriere per la sua splendida recensione a IL MIO EXODUS che nulla ha tralasciato e lasciato nella sua penna per esprimere le sue essenziali e sapide note all'intero poemetto. Grazie anche a Miriam Binda, Emanuele Aloisi, Giannicola Ceccarossi, Adriana Pedicini, Carla Barone, Franco Campegiani, perché ognuno ha dato un contributo significativo arricchendo il senso del testo proposto alla lettura, che si ritiene attenta, interessata e coinvolgente. Di nuovo un grazie cordiale.

    Umberto Cerio

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