Pasquale Balestriere, collaboratore di Lèucade |
Prima parte
Seconda parte
III PARTE
La “filosofia” oraziana, la religione
e il motivo simposiaco-conviviale
La poesia oraziana è densa di
elementi satirici, parenetici, mitici, "erotici" (nell'accezione di
cui s’è detto nelle prime due parti), lirici, gnomici. Nella gnome e nella
parènesi è individuabile, più che altrove, la peculiarità del pensiero del
Venosino: in esso affiorano, facilmente riconoscibili, tracce di filosofia
stoica ed epicurea.
Eppure il poeta sembra ridersi[1] della dottrina stoica;
non così in una satira divertente ma amara[2] nella quale il servo
Davo, uomo non incolto relativamente alla sua condizione, furbescamente usando
della libertà concessagli dai Saturnali, impartisce ad Orazio un’arguta ma
puntuale lezione di filosofia stoica, facendolo montare su tutte le furie. È
opportuno però precisare che il poeta non si ride dello stoicismo ma piuttosto
delle conclusioni paradossali o aberrazioni a cui giungono i seguaci di questa
scuola di pensiero.
Che tuttavia Orazio, almeno da
giovane, al dettato della filosofia stoica -con la sua
etica ferma, severa, ultimativa, anche se libertaria e volta ad affermare la
necessità della virtù e a privilegiare la dignità dell’uomo- preferisca
quello epicureo è fuor di dubbio; ma neppure l'epicureismo egli assume
integralmente a norma di vita, se manifesta profonda paura della pallida
mors[3]. Né vale a fargli
considerare la morte come liberatrice dai mali che ci tormentano la
rasserenante puntualizzazione di Epicuro sulla vanità di temerla, contenuta
nella lettera a Menecèo (Συνέθιζε δὲ ἐν τῷ νομίζειν μηδὲν πρὸς ἡμᾶς εἶναι τὸν θάνατον; e poi: Ὅταν μὲν ἡμεῖς ὦμεν ὁ θάνατος οὐ πάρεστιν, ὅταν δὲ ὁ θάνατος παρῇ, τοθ’ἡμεῖς οὐκ ἐσμέν. οὔτε οὖν πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς τετελευτηκότας.[4]) e
riportata da Lucrezio (nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum[5]). Anzi l’idea della morte è per lui
angosciante, sicché per liberare l’animo dalla paura chiama
in soccorso filosofia e religione, buonsenso e cultura, poesia e natura. Con
qualche vantaggio, ossia guadagnando momenti di serenità.
Nel pensiero oraziano, dunque,
confluiscono elementi della filosofia stoica, che si manifestano poeticamente
soprattutto nelle odi civili, e norme della dottrina epicurea, riscontrabili
nei componimenti che interessano la sfera privata dell'individuo; il tutto è
armonizzato e contenuto da un bonario e sorridente scetticismo, derivante,
forse, dal contrasto che le due tesi filosofiche generano in lui; ed è condito
con una buona dose di senso pratico.
È un tipo di filosofia, quello di Orazio,
tutto particolare; e del resto nella prima epistola del primo libro egli
confessa che a nessuna scuola intende legarsi; e più precisamente che non è
disposto a giurare sulle teorie di alcun maestro (nullius addictus iurare in
verba magistri[6]); si può anzi affermare che le dottrine
filosofiche, opportunamente ritoccate e fuse in un sincretismo pratico tutto
romano, sembrano divenire, tra le mani del Venosino, strumento e premessa per
una condizione ideale di vita, sgombra da ansie, paure e dolori; e tale
"modus vivendi ", tale armonia interiore il poeta non possiede, quasi
per una sorta di dono divino, ma si sforza di attingere giorno per giorno e
conservare il più a lungo possibile; per questo sentenzia Sperne
voluptates: nocet empta dolore voluptas[7] «Fuggi i piaceri: fa male una soddisfazione procurata
a prezzo di dolore» che, se vogliamo, è un altro caposaldo della dottrina
stoica.
Orazio, dunque, educato alla dura ma concreta scuola della vita, realisticamente coglie dalle varie teorie filosofiche gli elementi che a lui interessano, mantenendosi lontano da ogni paradosso e astrazione; esiti, questi, a cui invece giungevano i vari sistemi filosofici attraverso processi speculativi rigorosamente logici o troppo intellettualizzati.
Questa digressione concernente la "filosofia" oraziana ha valore di premessa necessaria alla retta interpretazione del motivo simposiaco-conviviale, caro al poeta almeno quanto quello erotico; si è già detto prima come questi due temi ( e momenti) siano intimamente collegati e quasi fusi a fare argine ai momenti di tristezza, quando non d’angoscia, da cui Orazio era spesso afflitto. Se il lettore provveduto allerta, sia pure di poco, il suo senso esegetico, non tarda a scoprire, appena sotto la corteccia di tale tipo di componimenti, i sentimenti che agitano dolorosamente l’animo del poeta: quello della fuga del tempo, e quindi della brevità della vita, ma anche quello dell' indomita mors. Il pensiero ritorna alla già citata ode 2, 14, bella e giustamente famosa, che scandisce una composta disperazione: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni, nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti /...,dove quel triste labuntur (v. 2) vuole indicare lo scivolar via, quasi di soppiatto e come in fuga (fugaces, v. 1), della vita.
A siffatta situazione negativa il poeta reagisce con il carpe diem[8], il vina liques[9], il nunc est bibendum[10]. E così il simposio-convito, che deve garantirgli momenti di obliosa serenità, si trasforma in rito: in un'atmosfera raccolta -Orazio non ama la confusione né la calca- si liberà agli dèi, dopo essersi coronati di mirto e di edera; compagna del poeta sarà Lidia, o forse Leuconoe, o magari Glìcera; non mancherà la citarista, meglio se Tindaride; e neppure, a completare l'atmosfera quasi sacrificale, il rituale incenso e le medicali, sacre verbene (tura e verbenae[11]).
Il simposio che si fa rito, assumendo aspetti sacrificali ed una precisa liturgia, indurrebbe a pensare ad un Orazio legato fermamente alle divinità tradizionali. Non è proprio così, nonostante sembri sostenere il contrario l'ode 1, 34, in cui il poeta, spaventato da un fulmine a ciel sereno, professa di voler ritornare alle antiche credenze, cioè alla religione tradizionale, abbandonata per la dottrina epicurea (che qui, al v. 2, definisce ossimoricamente insaniens sapientia, cioè «folle sapienza» ), la quale, vale la pena di ricordarlo, sosteneva che gli dèi vivessero sereni negli intermundia, per nulla curandosi degli uomini e delle loro vicende.
Pare invece più probabile che la sua
fosse piuttosto una sorta di religione naturale: namque
deos didici securum agere aevom / nec, siquid miri faciat natura, deos id /
tristis ex alto caeli demittere tecto[12] «e
infatti so bene che gli dèi vivono una loro vita tranquilla; e che, se la
natura produce qualcosa di meraviglioso, non sono certamente gli dèi adirati a
mandarcelo dall'eccelsa volta del cielo». Di conseguenza
Giove, Mercurio, Venere, Apollo ecc. sono invocati dal poeta per quello che
rappresentano: Giove vuol significare l'ordine dell'universo, la potenza, la
regalità; Mercurio, la facondia, l'astuzia e l'inventiva; Venere, la bellezza,
l'amore, la fertilità; Apollo, il sole vivificatore, la musica e la poesia.
L'invocazione di queste divinità, inoltre, risponde a un’esigenza
conformistico-tradizionale del poeta, in quanto in esse hanno creduto suo
padre e i maiores che
hanno dato a Roma grandezza e potenza. E poi lo stesso Augusto, nel suo
programma di restaurazione dell’impero, aveva previsto anche il ritorno alla
religione tradizionale, nella speranza che rivivessero i costumi di un tempo e
Roma potesse godere della tranquillità necessaria dopo tante vicende belliche
spesso amare e luttuose.
Ecco, Orazio crede nella potenza e nell'immortalità di Roma, oltre che nel fascino e nell'immortalità della poesia[13]: è questa la sua vera religione ed egli si sente Musarum sacerdos[14], sacerdote della poesia e del convito-rito sacrificale; sacerdotessa, preferibilmente di Venere, sarà la sua compagna e "strumenti" del sacrificio un agnello o un verro oppure un capretto o magari un vitello; mai, comunque, mancherà il vino. Cecubo, Massico, Caleno, gelosamente conservati e debitamente invecchiati, saranno tratti fuori «dalle cantine avite» (cellis avitis[15]) e religiosamente centellinati. Così il vino, elemento principe del convito, potrà dare l'ebrietas, che, se da un lato rompe gli argini del modus, dall'altro, come s’è già scritto, spes iubet esse ratas ... / sollicitis animis onus eximit[16] «l’ebbrezza ... permette che si realizzino le speranze ... sgrava l'animo dalle preoccupazioni».
Comunque i momenti di
ebbrezza in Orazio sono assai rari; e in ogni modo egli consiglia moderazione: Ac
ne quis modici transiliat munera Liberi[17] «che nessuno superi la giusta misura dei doni di
Libero», cioè di Bacco. Insomma si deve bere quel tanto necessario per
addolcire gli affanni della vita. Pure, nei banchetti che festeggiano il
ritorno di qualche amico[18], il poeta abbandona
il suo abituale senso della misura per darsi al vino e alle danze, invitando
gli altri a fare altrettanto.
Orazio, come s’è già detto, non
ama la calca; e pertanto ai simposi troppo affollati preferisce conviti più
intimi, magari lui e Fillide, da soli[19]: lui e il suo ultimo amore. E neppure lo
attirano eccessivamente i pranzi raffinati: a lui bastano vivande semplici,
possibilmente prodotte dal suo orto, e del vile
Sabinum[20] (
anche quello della sua villa sabina?).
Il convito e l'amore, quindi, si collocano nell'esperienza lirica oraziana come momenti capaci di proiettare l'uomo in una dimensione semidivina, consentendogli di dimenticare, sia pure per breve tempo, la sua pesante e dolorosa umanità.
Il convito e l'amore, quindi, si collocano nell'esperienza lirica oraziana come momenti capaci di proiettare l'uomo in una dimensione semidivina, consentendogli di dimenticare, sia pure per breve tempo, la sua pesante e dolorosa umanità.
Conclusione
Di Quinto Orazio Flacco ho detto tutto ciò
che mi pareva giusto e adeguato a tratteggiarne un profilo quanto più possibile
onesto e reale. Non voglio né mi interessa scrivere altro. La sua humanitas, davvero
molto speciale, lo ha consegnato alla memoria dei posteri
intatto e vivo nei suoi sentimenti, immortale, anche per
la sua fede nella poesia eternatrice:
Vixere fortes ante Agamemnona
multi; sed omnes inlacrimabiles
urgentur ignotique longa
nocte, carent quia vate sacro[21].
Furono in vita prima di
Agamennone tanti eroi; ma, tutti
illacrimati e ignoti, eterna li opprime la notte
privi del sacro canto del poeta[22].
Pasquale Balestriere
[4] Epic., epl. ad Menoeceum, 124, 125:”Abìtuati dunque a pensare che la morte
per noi è niente”, nel senso che non ha importanza, perché “ quando noi siamo -
cioè viviamo- la morte non c’è, quando c’è la morte,
allora noi non siamo più. Dunque essa non rappresenta proprio nulla né per i vivi né per i morti.”
[5] Lucr., De rerum natura, 3, 830: “Nulla è dunque per noi la morte e non ci
riguarda affatto”. Questo concetto è ripreso e ribadito frequentemente da
Lucrezio, sempre nel terzo libro (845, 850, 852, 926, 972).
Ringrazio affettuosamente Nazario Pardini per l'ospitalità e, poiché -come il padrone di casa mi ha detto- il blog ha fatto storie ad accettare il pezzo (forse anche per la presenza di caratteri greci), deformandone i versi finali (endecasillabi) che traducono l'ultima citazione, ho pensato di riproporli:
RispondiEliminaFurono in vita prima di Agamennone
già tanti eroi; ma, tutti illacrimati
e ignoti, eterna li opprime la notte
privi del sacro canto del poeta .
Uno degli speroni più solidi e massicci della leucadiana scogliera; s'insinua in un mare memore di antiche voci. Una vera lectio magistralis, una pietanza saporita di enopoesia di sempreverde epicità, che non conosce tempo. Leggete attentamente questo testo sfiorato da etimi gentili, lirici, saggi, e umanamente immensi. Arricchirete non poco il vostro, anche se già nutrito, bagaglio culturale. M'inchino.
RispondiEliminaProof. Angelo Bozzi
Ho letto ripetutamente queste pagine ricche di una tale vis creativa da lasciare d'incanto. Mi aspetto sempre qualcosa di magico da questo poeta, e mai mi tradisce. Il suo canto è di un neorealismo talmente moderno e attuale da confermare il detto: "La bella poesia non ha tempo".
RispondiEliminaRoberto
Davvero interessante questa disamina della filosofia oraziana svolta da Pasquale Balestriere, ponendo giustamente in evidenza, in questa terza parte del suo trattato, gli orizzonti naturalistici, umanistici ed etici del sentire religioso del grande poeta latino. E qui sento di dover spezzare una lancia in favore del suo carpe diem, da non intendersi come ricerca del piacere egoistico e sfrenato (così viene spesso frainteso), bensì come capacità di godere dell'esistenza in ogni suo aspetto, positivo o negativo che sia. Sta qui l'ideale della "misura" e del "giusto mezzo", di quella autàrkeia (autosufficienza) e di quella bonaria umanità che contraddistingue il poeta epicureo, come contraddistingue la figura del "saggio" nello stoicismo e in tutte le filosofie di ascendenza socratica, prima del loro appiattimento nell'equivalenza del "daimon" con la non sempre limpida ragione. E' uno studio molto edificante quello che Balestriere propone.
RispondiEliminaFranco Campegiani
una lettura , o rilettura, questa del Balestriere che conduce per mano , passo , passo , luminosamente,il lettore che desidera conoscere e comprendere alcune poesie dell'immortale Orazio. E lo studio che egli conduce è veramente ricco di sorprese , di puntualizzazioni , di argomentazioni, che attraversano con attenzione le direttrici del tema umano e filosofico posto in gioco. L'essenza verticale dell'indagine del poeta si articola verso la dinamica delle differenziazioni per poter essere continuo rinvio e ritorno alla illusione del quotidiano , che ci coinvolge.Il segreto sfugge alla definizione e diventa rivelazione quando il pensiero sprofonda nella contemplazione. Il momento filosofico - religioso si adagia ad un movimento disvelante che il verso consente alla luminosità.
RispondiEliminaCaro Pasquale, lo sai che i miei studi a carattere prettamente scientifico, non mi consentono di addentrarmi, senza paura di cadute rovinose, nei meandri del tuo approfondito saggio su Orazio – poeta che io saccheggio spesso e volentieri nei suoi modi di dire usati ancora oggi -. Un complimento, invece, te lo faccio – e qui mi sento completamente ferrata – per la splendida traduzione dei versi che concludono il tuo appassionato lavoro. Basterebbe solo quella per una nota di plauso. Carla Baroni
RispondiEliminaNell'immenso mare di parole in cui tanti scrittori annaspano cercando affannosamente di acchiappare quelle giuste, Pasquale Balestriere, uomo di acuta intelligenza e ricco di autentica passionalità che si evidenzia in tutti i suoi scritti letterari, va oltre le onde e spicca il volo portando con sé le proprie acquisizioni culturali, ponendole in primo piano. E finalmente, dopo tanta perseveranza ed altrettanta determinazione nel reggere la non facile impresa di rivisitare quel cielo spesso dimenticato per il caos di una vita che spinge solo avanti, ecco che ci sorprende nientemeno che con "l'antica filosofia di Quinto Orazio Flacco", un piatto così bene elaborato che il nostro palato sa sempre apprezzare e gustare a sazietà.
RispondiEliminaCosì, Pasquale Balestriere ancora una volta ha fatto "centro", proponendoci questo suo capolavoro con un impegno decisamente interessante, degno del più grande encomio.
Maria Ebe
Il caro Pasquale mi sorprende sempre con la sua cultura vasta e profonda. Complimenti.
RispondiEliminaPasquale Balestriere Acc.Velardiniellano h.c.
RispondiEliminaLo spunto Oraziano,offerto dal grande semiologo pasquale balestriere neo Accademico Velardiniellano honoris causa,pone una querelle unanime dove tutte le scuole cosi dovrebbero far avvicinar gli studenti e perchè no,anche i docenti all'istruzione che sia creatività soperimentale,come questo stuidio che ci offre la garanzia sulla metodica delle fonti e la sicurezza sulla ricerca delle nuove c hiavi di lettura di farci analizzare un Orazio ex novo,un Venosino sulla scorta di tutto quanto si è potuto dire nella sua letteratura sconfinata,che da millenni ci porta ad amare sempre più il ns.tessuto classico e di Lucreziana memoria di passio naturae.Orazio non è qui valutato nel suo cuirsus viatae studiorumque ac honorum,ma sotto una nuova prospettiva che cui necessita una nuova luce sulle non poche ombre che la critica ci pone nel coprso degli studi di questa enciclopedia Oraziana resa viva tra studi sulla vita-opere-pensiero e la cultura del suo tempo e nel corso dei millenni,per dirla con Salvatore Zolfino.Infatti vi è proprio una vis Velardiniellana,dagli Epodi,nel 13°in special modo se riflettiamo sul Rapiamus occasionem de die:che possiamo ravvicinarlo alle Odi della maturità dell'Autore,quasi sèpettrale d'un aere freddo,dov'è caloroso nell'interno conviviale d'una magione e sembra che il clima tra la vision padronale e quell'esteriore invernale è quasi d'istessa fattura,che offre ombra misteriosa sulla prossimità da venire.Qui,come in Velardiniello che amava la"Napule rò tiempo ca fù e quann'era viva Vava e cà Berta filava",ricordandoci l'immortale canzone di Rino Gaetano,così il ns.Orazio invita il pater familiAS A GODERSI DEL PRESENTE,in tono gioviale e quasi edonistico,tra i fumi di un buon vino e la gaiezza amicale nel simposio.Forte è l'exemplum nella parte finale,dove la predizione ad Achille del centauro Chirone d'una vita breve sotto le mura troiane,connotando una variabile sul ciclo del mito,gli profetizza,quando sta lontan dai patrii lidi,a rincuiorarsi da quel clima d'ansia sotto i beneauguranti effluvi dellì'alcol e del canto alla vita beata,come se Velardiniello di rimbalzo condanna la crisi socioistuituzionale del'500"per na mareva e bardasce e basapede,addò a carne costa n'uocchio a la chianca e a reggia cammara de la Summaria va a reliento e sulo pò pupulino,per non dire ca nun se puote gire fin a lo muolo ca se ncappa dint'a nu stuol'e mariuoli",cioè sembra strano ma ancor oggi vige la debolezza amministrativa sul potere"per sesso sfrenato da alcol e droga,inflazione per costo della vita alto,malagiustizia da lumaca e sol per popolo minuto e basso profilo,come ancor per violenza a tutto spiano criminale e deviata".Qui deve sentirsi quell'afflato Epicureo del carpe diem,che enfatizza il motivo Oraziano,reso ancor più vivo dal bisogno innato di vivere il presente e non occuparci della preoccupazione filosofica di guardar al passato od ancor più al futuro.Quindi ecco la vision delle immagini che occupano il focus Oraziano della sferzante tempesta di fronte al fuoco che da sollievo all'ebbrezza del buonvino incensante i profumi e sapori conviviali,con la forte vibrazione della variante del mito,come del canto di chiusura che è valido mezzo alleviante l'angoscia esistenziale,metricamente esposte in strofa archilochea quinta.Il tutto non dimentica la lira detta da Mercurio nativo del monte arcadico Cillene,Cyllenea,cui la inventò,come ancor il più noto tra i Centauri,Chirone,figlio di Crono,cui ebbe l'incarico da Péleo di educar l'Achilleo figlio,ed ancor infine di ondeggiar sui due fiumi della piana troiana:Scamandro e Simoenta.
Il mio ringraziamento più sincero e riconoscente a tutti coloro che hanno inteso lasciare una testimonianza del loro passaggio attraverso le tre note oraziane ospitate in tempi diversi su questo blog. Grazie innanzitutto a Nazario Pardini, sempre affettuoso, disponibile, ospitale; grazie a tutti gli altri, che sono, per la prima parte, Maria Luisa, E. Partigiani, Giachino, Miriam Binda, Chiara De Francesco, Tiziana (della Galleria Mariani), Nazario Pardini, Umberto vicaretti, Fulvio, Maria Ebe Argenti,Umberto Cerio; per la seconda parte, Giorgio Linguaglossa,Ivan Pozzoni, il compianto Nevio Nigro, Sandro Angelucci, Umberto Cerio, Luciano Nota, Franco Campegiani, Ivano Mugnaini, Umberto Vicaretti, Maria Ebe Argenti, Giannicola Ceccarossi; per la terza parte, Angelo Bozzi, Roberto, Franco Campegiani, Antonio Spagnuolo, Carla Baroni, Maria Ebe Argenti, Giorgio Linguaglossa, Aldo Zolfino (che ringrazio per la nomina ad accademico h.c.
RispondiEliminaGrato a tutti.
Pasquale Balestriere
Qualche riflessione sul saggio oraziano di Pasquale Balestriere
RispondiEliminaIn questo saggio Pasquale Balestriere, partendo da una solida conoscenza della lingua latina e dell’opera oraziana, ci presenta un Orazio vivo e attuale, opportunamente scrostato da certi pregiudizi scolastici che lo bollano come un autore d’altri tempi, freddo e noioso. I giudizi negativi sono dovuti in gran parte a un cattivo e insulso insegnamento del latino e del greco in tanti licei, basato solo sugli aspetti grammaticali, tecnici, aridi di una lingua morta, e non sulla dimensione sentimentale, umana, ideologica, poetica, universale della sua poesia.
E, per demolire la falsa «immagine di un Orazio elegantissimo ma superficiale, freddo, lucido», il Balestriere insiste (oltre che su alcuni momenti difficili della sua vita, prima di diventare un poeta famoso, amato e protetto finanche da Mecenate e Augusto) su certi temi frequenti nelle rime del Venosino, che ne mostrano chiaramente la profonda umanità e problematicità, come la precarietà della condizione umana, la fugacità del tempo, l’incertezza e l’angoscia del futuro, l’incalzare precoce della vecchiaia, la molestia delle malattie, il sentimento inquieto della morte, la solitudine ricercata ma dolorosa nelle fasi depressive, etc.
Un altro tema, poco sottolineato dai critici, è la sofferta mancanza di una famiglia sua (una moglie, dei figli), su cui riversare e radicare i sentimenti, dando un senso non effimero alla vita. Nell’ode I, 13, dopo aver sfogato la gelosia per Lidia che ora ama, riamata, un altro, alla fine conclude con un sospiro: «Felici tre volte e più / coloro che un legame indissolubile tiene congiunti / e l’amore non scioglie, turbato / da cattive querimonie, prima dell’ultimo giorno» (vv. 17-20). E quando canta la fedeltà d’amore (bene mutuis / fidum pectus amoribus) che unisce Licimnia e Mecenate (Carm. II, 12, 15 s.) e la cara moglie (tenerae coniugis) lasciata sola in casa dal venator immemor (Carm. I, 1, 26) o quando, alla fine di un battibecco, si fa dire da Lidia rappacificata ‘tecum vivere amem, tecum obeam libens’ (Carm. III, 9, 24), non è mosso forse da una sua intima aspirazione mai realizzata?
Per questo, pensando alle tante donne presenti soprattutto nelle Odi (molte delle quali, secondo me, non sono reali ma inventate), concordo col Balestriere nel ritenere che Orazio non canti una donna (la sua donna), ma la donna in generale, la femminilità, la grazia e la piacevolezza femminile.
È corretto pure non considerare Orazio un epicureo tout court, perché nella sua Weltanschauung ci sono epicureismo, stoicismo e altre teorie filosofiche, da cui certo prende soltanto «gli elementi che a lui interessano», armonizzandoli con «un bonario e sorridente scetticismo».
Orazio, quindi, è uno scrittore universale, che ancora oggi stupisce ed emoziona per l’essenzialità e icasticità del linguaggio, la straordinaria sapienza e varietà metrica, la mossa e ricca umanità, la sottile ironia, la leggera aura di malinconia che scorre in tanti componimenti. Per capirlo veramente, lo studioso deve essere un po’ poeta. E l’ischitano Pasquale Balestriere è un validissimo poeta.
Michele Battaglino
Ringrazio di cuore il prof. Michele Battaglino per essere intervenuto nel dibattito con la competenza e l'acribia propria di chi è "familiare" e conterraneo del grande poeta latino; e per la qualità dei contributi forniti alla discussione.
RispondiEliminaGrazie
Pasquale Balestriere