Ester
Cecere: Non vedo, non sento… Wip Edizioni.
Bari. 2017. Pg. 84. € 10,00
Insolita
pioggia
Mutò colore il cielo all’improvviso,
misterioso improvviso
temporale,
vermiglio come al tramonto
divenendo.
Sottili pungenti e rosa
d’una pioggerellina le prime
gocce.
Subito violento
un acquazzone rosso sangue.
E purpurea l’acqua dilagava,
ogni cosa ricoprendo,
laghi e fiumi invadendo,
(…)
Ester Cecere travasa la sua anima nel mondo, nelle
piccole cose, le più umili, nelle grandi questioni, e le immagini, intinte del
suo pathos, si fanno serbatoio a cui attingere sostanza per la poesia. Uno scorrere di lampi cromatici, di avventure
paniche, di metamorfosi osmotiche, di metempsicotiche venature di efficace trasposizione. Sì, è la
natura che l’accompagna per fare da ancella alla sua rivelazione. Ed essa non è
mai frutto di una semplice relazione bucolico-georgica; nella Poetessa assume
un significato altro, e alto. Nobilitata dalla sua sensibilità si fa
estremamente umana, ogni ambito non è altro che un pezzo di vita, un brandello
d’animo; un momento ora sereno, ora pungente, ora addolorato, ora risentito,
ora duro, e altrettanto duro nella visualizzazione poetica… Il fatto sta che
Ester non può sopportare le cose fasulle: l’incoscienza, la malafede,
l’ingiustizia… è qui che il suo animo si ribella per esperienza patita sulla
propria pelle, sulla propria storia. Ho sempre affermato che per scrivere di un
autore/trice è estremamente necessario conoscerne la personalità; l’intimità di
cui trattare: ascoltarla, parlarle, percepire le sue idee, i suoi fondamentali,
il grado di sensibilità, gli affetti, i tormenti, le gioie, le inquietudini, le
memorie; altrimenti si rischia di cadere nel solito tecnicismo avulso, freddo,
asettico, disumano, criticamente lezioso. La lettura dei versi ci scorre
addosso con tutte le proposte vicissitudinali: cenci maleodoranti, passi infastiditi
e frettolosi, lacrime del mondo, Natali di drappi viola, spettrali atmosfere,
vite di bambole e sdegno di pistole, senzatetto in terra straniera, sonni di
morte, rimpianti di risa cristalline… E
se un sentimento di pacata tristezza, di umano dissenso verso una società da rendere più umanamente umile e giusta, si
insinua nel sottofondo come leitmotiv, è dovuto alla netta e solida ispirazione
che fa l’opera compatta, intensa di
ricchezza contenutistica. L’inquietudine della Nostra non è altro che quella di
tutti noi, anche se personalissima, dacché il suo messaggio è franco ed
oggettivo. Arriva con pungente acredine; con mordace e forte comunicazione; in
questo sta la sua grandezza: nel saper vivere e pensare con un animo e una
mente disposti ad incontrare la gente, il loro esserc-ci, i loro disagi; a capire
l’umano esistere con una trepidazione tale da coinvolgere empaticamente
l’altro. Ella allarga le braccia; allarga il suo orizzonte, le sue antenne
sensitive per attrarre nel suo retaggio ogni questione umana, attuale,
contingente; ogni problema sociale, ogni intimo travaglio per ritrovarvi parte
di sé: triste il Presepe, gay, Alla bimba usata come kamicaze in Nigeria, Ai
bimbi deceduti in Siria a causa del gas, A un bimbo siriano, A un bimbo siriano
che dormiva tra i tumuli dei genitori, A Hashem Shabaani pacifista impiccato,
Ai popoli privi di libertà, Al piccolo migrante nato e morto durante la
traversata, Ad Aylan, di tre anni, trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, Ai
migranti deceduti nella stiva di un barcone, Bruxelles, principessa, lavavetri,
Dio Allah, il ritorno di Erode, bambini senza scarpe, reticolati, la bambola… Non esiste problema più o meno scottante che non
venga affrontato. Non esiste stortura umana che la Poetessa non faccia sua, per
soffrirne col cuore del mondo.
Poi
tutto sembra quietarsi: nelle ultime composizioni l’attenzione della Cecere è
rivolta alla donna; alla sensibilità spesso nascosta di un essere soggetto a incomprensioni, a malinconie:
Quando i tuoi occhi sono
nuvole grigie di malinconia
dal vento disperse,
sorridigli…
(Sorridigli),
tutto
si fa più intimo:
(…)
Esplodi
come alba che le tenebre
disperde…
Concludere
con la lirica in cui Ella immagina di lanciare una bottiglia in mare con
ipotetiche speranze di un messaggio, significa sintonizzarsi ancora di più con
la sua espansione emotiva; col suo generoso ancoraggio:
(…)
Un delfino ci giochi
in un mare ormai ostile.
Un migrante naufrago
lo stringa a sé forte.
Giunga su povere coste
a pulsare per misere genti.
Lo raccolga curioso
un bimbo infelice…
D’altronde sono le parole a tracciare il grado
di sensibilità della Poetessa; il loro sofferto e vissuto tòpos incastrato in
versi di grande significanza incisiva che corrono con alternanze varie per oggettivare
gli abbrivi emotivi, oscillanti come melisma; come note di un pentagramma che
si articolano a seconda della melodia o del rock:
Il cuore
in una bottiglia ho rinchiuso
tra spumeggianti marosi.
Una risacca cattiva
i piedi insidiava.
Schiaffeggiava freddo il
maestrale
il viso dalla pioggia rigato.
Che incontri acque tranquille.
Che baciato dal sole galleggi.
(…) (Il
cuore in una bottiglia).
Acque
tranquille, baci di sole, schiaffeggi di maestrale: questo è il suo dizionario
poetico; il suo modo di dire: una simbologia zeppa di sinestetiche intrusioni
per soddisfare i suoi empiti epigrammatici.
Nazario
Pardini
Arcobaleno
infranto
D’improvviso,
infranto
s’è l’arcobaleno.
Arco
leggiadro
che
della tempesta
le
paure fuga.
Multicolori
acuminati frammenti
Crudeli
bucano
il
cielo terso
che
ora piange sulla terra
lacrime
stinte di frammisti colori
come
clown sconfitto
Ester Cecere: dal testo
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