IL
POEMA DI EMANUELE ALOISI
Naviga sempre il mare il nostro eroe
le vele dispiegando alle tempeste
nella pretesa d’invocare il fato,
i numi di un Olimpo sulla luna
ad osservare indifferenti sorti,
un uomo che combatte solitario…
Un
incipit che da subito ci mette in rotta verso porti e fari di un lungo corso:
mare, eroe, vele, tempeste, fato, Olimpo, numi, un uomo solitario.
Sono
questi i riferimenti che mettono in gioco un allungo didascalico-allegorico di
sapore dantesco: un essere che in solitario naviga verso mondi a noi vicini ma
partendo da sponde di memoria antica, incarnato nella metaforicità di un Cristo
redentore che sembra non sempre volgere lo sguardo su certe tragiche e
imprevedibili peripezie del divenire umano.
Un
poema di misura classica con tutti gli ingredienti di una modernità turbata,
affannata, in corsa verso mete di difficile ancoraggio. Un odissaico travaglio
tra mari e coste, tra isole e orizzonti, tra civiltà e personaggi, che ne
determinano sostanza e dilemmi.
L’eterno viaggiatore: un
titolo appetitoso, invogliante; un titolo polivalente, plurimo se riferito alla
vicenda umana; al tema del viaggio, del nostos, nostoi, che coinvolge tutti noi
in quanto umani, esseri che su questo scrimolo dell’universo siamo ridotti a
vivere, con l’animo intriso di dubbi e incertezze, una storia che ci unisce e
ci compatta o perlomeno ci dovrebbe
unire per vincere ostacoli che la navigazione ci presenta in un mare purtroppo
disseminato di scogli e di trabucchi. D’altronde appartiene proprio all’uomo la
spinta alla scoperta, all’avventura e qui sarebbe scontato tirare in ballo il
nostro Dante (Fatti non foste…);
è nella sua natura non accontentarsi
degli spazi ristretti in cui vive; ambire a travalicare quelle siepi che
delimitano il suo andare; la sua voglia di azzurro. E’ così che il Nostro in un
poema di dodici stanze affronta quella navigazione che metaforizza l’iter
storico dei nostri affanni: Enea orfano mesto, Ulisse, Nausica, zattera dell’odissea, crociate ad ostentare
l’Ostie, luccichii di armature, simulacri abbandonati al vento, le miserie di
un eroe qualunque, un pubblico che accetta patimenti ignaro di fratelli e
figli, Olocausti, viaggio amaro, carestie nefaste, eroi innocenti, figli di un
Dio minore, viaggio redentore dell’Egitto…, tante vicende vicine e lontane che
ci martorizzano e ci inquietano per le loro esiziali incursioni. Una sintesi
spietata e desolante di un viaggiatore ignudo fra tempeste e venti siberiani; àmbiti
di crudeltà, e ribellioni di una natura
che tutto affonda e tutto annienta. E’ sufficiente porre la mente alle disgrazie ultime avvenute negli
Abruzzi per caricare il dosso del navigatore di un peso insopportabile:
Amatrice e dintorni: neve, fango, crolli, terremoto, morti… E come non può
coinvolgerci una memoria tanto trucida come quella degli interventi nazisti
contro gli Ebrei? e come non può quella altrettanto disumana degli infoibati? Proprio
in questi giorni ricorre la memoria di quelle due stragi: quella dei campi di
sterminio nazista e quella dei dalmati istriani.
Quindi l’autore con un linguismo melodico e di euritmica sonorità affronta
tale viaggio, cosciente della precarietà del tempo, e delle debolezze
dell’umana gente: un ossimorico tragitto, se si vuole, fra l’armonia di un
canto affidato ad una narrazione di endecasillabi sciolti, e la tristezza che
certi accidents, spesso brutali e incomprensibili, scatenano nella nostra
entità di esseri umani. D’altronde l’uomo ha bisogno di dare una
giustificazione a ciò che accade; rientra nella sua essenza scoprire, trovare,
ricercare, e non accontentarsi del semplice fatto di un accadimento, in quanto
tale; ne deve venire a capo; deve arrivare al nocciolo delle cose, scoprirne le
cause; sente il bisogno di dare delle soluzioni ai perché di difficile
risposta; a quelli che vanno oltre il nostro sguardo bieco e miope. Da ciò
l’inquietudine di fronte all’impossibile che ci muove verso i misteri; che si
fa molla di scoperte e di azzardi: saudade, malinconia, spleen, weltschmertz;
sentimenti che scaturiscono dalla coscienza della nostra insufficienza ma anche
dallo spirito d’avventura che è nella nostra natura non sempre vòlta,
purtroppo, al bene, all’amore, alla comprensione, alle esigenze dell’ambiente,
all’etica, o ancora peggio, al rispetto
del diverso, anche perché viviamo in una società dove l’interesse e l’egoismo
la fanno da padroni; questa è la vita, e non certo cosa nuova, nel lungo
tragitto del divenire terreno. Da ciò le più grandi tragedie dell’umanità:
dallo sterminio dei cristiani per mano dei romani, alla diaspora, dalle stragi
in Africa per il colonialismo, a quelle nei paesi dell’est per il comunismo, da quelle degli imperi a scapito
di democrazie, a quelle di ogni oppressore verso gli umili. Tante vicende di
difficile comprensione per una mente calcolata a misure temporali. Viene facile
pensare alla dimenticanza di un ente superiore, ad una sua distrazione di
fronte a tragedie tanto tormentate e crudeli come quelle di un insieme di
naviganti che si fa persona, individuo, soggetto, fattore di bene e di male che
lo scrittore sa tracciare con un apporto etimo, vario e articolato; con una
scelta verbale di grande efficacia visiva e risolutiva, dacché sa, il Nostro,
che per coprire tanto spazio, tanta energia emotiva il linguaggio deve farsi
ora asciutto, ora ampio, ora narrativo con l’aiuto di ripetuti enjambements e
ora conclusivo. E sono gli annessi sinestetico-allusivi, o ipebolici, o di
varia natura simbolico-retorica, a dare consistenza poetica al canto; a farsi
oggetto di una creatività fresca e
robusta. Di questo è capace il poeta: concretizzare tanto sentire, tanta
storia, in ambito verbale non è certamente facile ma Aloisi riesce a farlo con
esperita forza di valenza umana:
… Semmai negli occhi di un eroe, un mondo
che
ancora ha un’anima un respiro, pieghe
di tumultuose leggerezze, scogli
nelle carezze dei sudari, e mani
pronte ad accogliere le croci, madide
lasciate indifferenti alla deriva
di polveri di venti e di consensi,
nel grembo della storia a ritornare.
Nazario Pardini
L’eterno viaggiatore
I
Naviga
sempre il mare il nostro eroe
le
vele dispiegando alle tempeste
nella
pretesa d’invocare il fato,
i numi
di un Olimpo sulla luna
ad
osservare indifferenti sorti,
un
uomo che combatte solitario.
E non
approda alle lavinie prode
lo
sconfortato Enea, orfano mesto
di
protettori e di penati Dei,
di
santi da portare sulla schiena
senza
che i lividi della miseria
li abbia
scalfiti sulla pelle, un dì.
Continua
eterno a naufragare, profugo
nell’acque
di un ameno calendario
dove
la bussola del tempo è persa,
disorientata
la lancetta al nord,
dove
il magnete di una croce tace
o
madido nel legno è inascoltato.
Forse
la zattera dell’odissea
ha
perso i chiodi nell’abisso, spettri
alla
ricerca delle membra, carne
per
ancorarla ad animati tronchi,
all’orizzonte
di un’azzurra sponda
dove
non tremano pietrose zolle
mentre
di donna ondeggia la sinuosa
veste,
la voce di un affranto amore
ad
emanare l’odorosa ambrosia,
l’ombra
pietosa di un materno sguardo.
II
Riempitosi
il travaglio di sudore,
il
calice di un frutto tramandato
nel
pane generoso di una mensa,
nel
vino dissetante di una brocca,
continuano
gli zoccoli al galoppo
nelle
foreste della sete, stolti
nelle
crociate ad ostentare l’Ostie,
l’oblio
di sangue e fazzoletti sporchi
d’occhi
socchiusi e di lavate mani.
E
siedono lucenti sulle selle
le
porpore gremite di silenzi,
di
sacramenti, fumeggianti incensi
nelle
coscienze d’ombra, ormai dimentiche
di
luce, e di una tavola rotonda
dove
le briciole della pietà,
della
giustizia e della fede gemono,
cadute
a terra o in una selva oscura
ad
umettare una smarrita via.
III
Ardito
viaggia il peregrino eroe
alla
scoperta di se stesso, un saio
che
gliene mostra errori, il fumo nero
di
orrori nauseabondi, e di relitti
mentre
riaffiorano su superfici
di
giri e lidi spumeggianti, passi
senza
i granelli dell’astuzia appresso,
né
della forza di gendarmi e d’onde,
solo
di scrigni rivelanti il senso,
la
redenzione di un tragitto breve
nelle
parole sussurrate allora,
di cui
la bussola riecheggia l’eco,
il
fiero luccichio dell’armature
nelle
battaglie di città infedeli,
facendo
sorgere una terra santa
dove
il sepolcro non contiene spoglie,
(corrispondenza di amorosi sensi)
e di
una patria non rimane vigna,
o
contadini concimare i solchi
e
mietere parole di conforto,
abbandonando
simulacri al vento,
nelle
sterpaglie di torrenti e guati.
IV
Amaro
il viaggio dell’eterno eroe,
ahi quanto scorre questo viaggio amaro
che il
ciottolato del percorso muta,
nel
letto di un ruscello itinerante,
il
muschio delle pietre del fondale
nei
cocci di un riflesso scivoloso
di un vetro dall’oscura riflessione
o
nella nebbia di accecate vite
per
non guardare la coscienza in faccia
(dietro
i sipari di svariate maschere)
ma
negli sbagli di chi siede a fianco,
di un
pubblico che accetta patimenti
e
avvezzo non si accorge di un fratello
di un
uomo vivere il suo tempo, un figlio
la
storia ripercorrere di un padre:
nelle
tempeste dello stesso mare,
nelle
speranze dello stesso cielo,
nelle
miserie di un eroe qualunque.
V
Anonimo
l’eroe, che ha sulla pelle
un
numero cifrato, e sulla fronte
spine,
di una corona senza l’aurea
luce,
né le preghiere ai piedi, simili
che
non decifrano la stessa carne
ma che
continuano a mangiarla ignari,
facendo
scioglierla, siccome neve
evaporando
odori, e di memorie
giorni,
la vanità di un’impossibile
ragione,
e la certezza di ricordi
nei
fotogrammi di momenti assurdi
nelle
radici di innocenti fiori
recisi
tra le mani di bambini
sui
campi di progenie inaridite
nei freddi grembi, e dentro gli occhi vuoti
di chi
è rimasto, morto, a sopravvivere;
di
uomini, di eroi qualunque, donne
di
aver la colpa nelle vene, il sangue
(appartenente
ad uno stesso padre)
la
dignità di andare incontro a morte,
di
risparmiarla a qualcun altro, forse
per
non scordare il nome, un Olocausto
il
corpo di una vittima immolata
il
Verbo di qualcosa che rimanga.
VI
Amaro
il viaggio dell’eterno eroe
quando
la bussola sconvolge il senso,
la
sofferenza di un tramonto all’alba,
quando
del suono di campane in festa
funesta
torna ridondante l’eco
nel
triste annuncio della nebbia fitta
resurrezione
di cancelli aperti,
fischi
di treni sui binari in mare
emettere
vapori di vagoni,
sudori
di calvari tra le spume,
sugli
alberi di ulivo e delle barche.
È un
uomo nuovo a navigare i mari
che
non ha il nome di un Ulisse, ahimè
la
voce di un Omero, il viaggiatore
vento,
la scia di sangue nel destino
di un
pesce gigantesco che sprofonda
in
basso, e dal profondo delle fauci,
assaporato
di un cordone il nodo,
ascende
al cielo tra le braccia aperte
di un
padre lieto di abbracciare il figlio
e
togliergli l’arpione dal suo collo.
VII
E giace sulla sabbia la carcassa
(nel
ventre sigillato di un cavallo)
della
speranza navigata al largo
di
eroe che ambiva ad arrivare intero
senza
trovarsi frantumato, numero
riemergere
nell’acqua delle dune,
tra
palme soleggiate di miraggi
e nel
silenzio di una luna in cielo,
quando
l’arsura disperata in gola,
la
solitaria sensazione umana
squarcia
le tenebre della sua voce.
Anonimo
il valore del bottino
rimane
memore dei suoi compagni
di
un’isola, di un vecchio pescatore
che
ancora credono alla pesca, a un uomo
dando
alle maglie di una rete il senso
l’identità
di un nome, ed il rispetto
ad una
storia uguale, a un sofferente
vinto,
che dà valore a un vincitore
quando
si nutre di parole, pane
(spezzandolo
in memoria di una cena)
e non
del pesce che gli puzza accanto
nell’amarezza
delle spine, dentro.
VIII
Amaro
il viaggio dell’odierno eroe
quando
ristagna, sempre uguale, l’acqua
che si
alimenta di un digiuno nero,
del
grano del raccolto del dolore!
Mentre
respirano da vasi ed urne
respiri
e muffe di cantine vuote,
insipida
la carne sui banchetti
tra i
denti di cannibali affamati,
riaffiorano
voraci tra le spighe
(vestiti
di famelici progetti)
i
roditori della vita altrui,
dispensatori
di dolori e fame,
di
carestie nefaste, a contadini
eroi
costretti a digiunare ancora,
infliggersi
il fetore delle spine
immortalando
sugli altari gli anni
dimentichi
nei secoli dei secoli.
Non sempre al fresco della
mente gli uomini
conservano
le ceneri del tempo,
estinte
nel calore delle fiamme,
nel
ghiaccio dell’inverno dei sepolcri,
nelle
stagioni a naufragare amare
e
pungersi di spine tra le siepi
per
adornare all’orizzonte i raggi
dei
fil di ferro di tramonti rossi.
IX
Dall’alto
nevica, vicino, il cielo
la
manna bianca della provvidenza,
scendendo
lieve senza far rumore
e
tinteggiando di ogni cima valli,
lasciando
agli occhi panorami, scialli
mostrare
i segni delle ragnatele,
spettri
di figli e di pennelli andati
alla
ricerca delle ignote tele,
dove
dipingere profili e croci
pastori
e volti di presepi cari,
fecondi
muschi di fontane, odori
di
bucaneve germogliati altrove.
Discesa
in piena, sotto i ponti, l’acqua
continua
ancora a trattenere il fango,
scalfite
ai nodi dalle tarme leste
radici
meste di strappati rami,
cesti
di grappoli farina e latte
svuotati
sui canneti delle sponde
tra
fronde spoglie di piangenti salici,
cariati
roditori rincarnati
che
rodono mutevoli cortecce
sui
fragili sentieri dei riflessi.
Ahi
quanti fiocchi sono scesi invano,
quanti
ne scendono sui vetri opachi!
Clessidre
piene di granelli, mani
che
tracciano gli aloni alle finestre
figli
di uomini senza padrone,
di un
Dio minore, o forse umani eroi.
X
Nel
mentre grondano frontali foto
nelle
cornici in bianco e nero, sangue
dei
contadini degli aratri e i solchi,
respirano
le tempere sui quadri
i fumi
di miniere e di lucerne,
di
vecchie ciminiere abbandonate.
I
vomeri s’intingono negli oli
per
rovesciare tra le zolle asciutte
(con
vanghe ritemprate di colori
e
calli ammorbiditi dai sudori)
fantasmi
d’erba verdeggiante
per
rimembrare e masticare cibi,
sapori
di lupini ritrovati
nei
pezzi di una barca alla malora,
rigurgiti
malefici e concimi
di
stomaci opulenti e radioattivi.
Ritorna
al pascolo la vaccarella
magra stecchita, assieme
alla fanciulla
a bere
rame alle grondaie, fame
di
mine e vittime, di eroi qualunque
caduti
corpi o nelle crepe, semi
di
girasoli e interminati giri,
graffiti
laceranti di caverne,
scolpiti
nelle lacrime dei resti
che
ancora aspettano restauri, spatole
a
togliere le pietre dai sepolcri,
le
bende dai brandelli delle case.
Discende
lenta opalescente manna
sul
grido della gente silenziosa,
senza
padrone o provvidenza aliena,
nel
gesto generoso delle mani
che
mostrano sinfoniche le piume
di un
nido le lenzuola senza canto.
XI
Ahi quanti canti in questo
viaggio amaro
nel
mal di mare e di risacche eterne,
sui
dondoli dell’onde logoranti,
tra i
ciondoli di corde e di ricordi,
di
polveri cangianti sui granelli
delle
battigie leggendarie, meste
di
arpeggiatori e di sirene grida,
pianti
echeggianti di conchiglie, vite
infrante
da tempeste interminabili
sul
muro degli scogli dell’oblio!
E
mentre s’odono le pietre urlare
e dalle
nuvole cadere l’alghe,
le
perle variopinte di coralli,
continuano
le cinta a riapparire,
le
braccia delle ancelle a scomparire
ed
assordare, tra le chiome, orecchie
fuggevoli
agli inviti di Nausicaa,
al
grido forestiero di infelici.
Il
fuoco si cementa tra i mattoni
siccome
intonaco contro le insidie,
per
chiudere i cancelli dei rumori
dei
viaggiatori mendicanti, poveri
eroi
fantasmi di pirati, mostri
di
aver la colpa di una bocca, sogni
finiti
nelle fauci dei risvegli;
di
aver la colpa e sulla fronte un occhio
diversi
i grani di rosari, chiodi
lubrificati
dalle mani ai piedi,
nei
fili raddrizzati dalla pioggia,
tra
pali di ignoranza e pregiudizi.
Ah...potessero
le alghe germogliare
il
dono di parole e di coralli
il
viaggio redentore dall’Egitto
di un
popolo le perle di radici!
XII
Trapassa
il viaggio dell’eterno eroe
sciogliendosi
nel fuoco dell’inverno,
(siccome
neve di un ricordo al sole)
nei
giorni tristi in riva al mare, lacrime
che
bagnano memorie sulla terra
davanti
a lapidi crollate, cuori
giardini
di cipressi sulle pietre
nei
cardini degli occhi dei cancelli.
Non
vogliono le orme delle scarpe
le
impronte delle mani rimanere
sui
lividi di veli e di prigioni,
nei
campi sconfinati di stermini
o
negli abissi naufragare amari.
Semmai negli occhi di un eroe,
un mondo
che ancora ha un’anima un
respiro, pieghe
di
tumultuose leggerezze, scogli
nelle
carezze dei sudari, e mani
pronte
ad accogliere le croci, madide
lasciate
indifferenti alla deriva
di
polveri di venti e di consensi,
nel
grembo della storia a ritornare.
Non ho parole per esprimere l'onore, non solamente di essere su Leucade, ma di esserci, e accompagnato da una simile recensione. Grazie prof. Pardini. Emanuele Aloisi
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