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DI MARE E DI VITA, LO SPLEEN E LA POESIA
Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
Leggevo
– qualche giorno fa – di uno studio statistico secondo il quale i bambini di
oggi giocano all’aria aperta non più di trenta minuti al giorno.
Si
dirà: cos’ha a che fare questo con l’introduzione ad una raccolta di poesie?
Moltissimo, non fosse altro che nel comporre versi si gioca al gioco più serio
del mondo. Scrivere è come arrampicarsi a piedi nudi sugli alberi, come correre
dietro alle farfalle o cercare di acchiappare una piccola lucertola. Non serve
a niente – sembra – eppure senza quelle esperienze, senza le
ginocchia sbucciate o il sapore delle ciliegie in bocca non si diventa grandi
e, soprattutto, si matura artificialmente.
Costruire
castelli sulla battigia (la pardiniana bàttima), vederli franare all’arrivo
dell’onda e riempire di nuovo il secchiello di sabbia è propedeutico, è
fondamentale.
Il mare e la vita – s’intitola il nuovo
lavoro del poeta pisano – non soltanto perché così si vuole sottolineare
l’inscindibilità di un binomio primordiale; nondimeno si tratta di una scelta
che tende a valorizzare il tópos per eccellenza di una tematica intera.
Non
alterandone minimamente il senso, potremmo tranquillamente dire: “Il mare è la
vita”; oppure, scambiando i termini:
“La vita è il mare”. Nulla muterebbe: tanto
visceralmente il Nostro è legato e attratto dalla distesa di acqua salata che la stessa si
trasforma nel suo stesso sangue e viceversa.
E il
mare è il protagonista indiscusso della prima delle tre sezioni in cui è
strutturata l’opera: prendendo in prestito l’intestazione di una delle liriche
qui contenute, è senz’altro lecito affermare che, davvero, quella descritta e
considerata in queste pagine è la sua stagione.
“È una sola la stagione del mare” – canta Pardini – ed ha ragione: non sono
quattro, ce n’è una che le compendia tutte, e non è l’estate (come si sarebbe
portati a credere), no, è l’inverno; quando il rapporto si fa più intimo, più
confidenziale: “…d’inverno / lo vivi ancor di più il suo profumo, / lo senti
più vicino il suo colloquio: / ti parla quando è solo.”.
È
allora – libera da violenze – che “la sua parola incide l’animo”; è quando
“sulla spiaggia…perfino i gabbiani / si confondono col vento” e il cielo bigio
“(cade) nel mare” che “l’infuso di marina e tamerici” è tanto barbaro da spiazzare il cuore e
sgranchire i ricordi.
Sono
versi intensissimi, che danno la misura di come il dettato risponda unicamente
all’esigenza ispiratrice: l’anadiplosi, la sinestesia, ogni altra figura
retorica si mettono al servizio della creatività e ne scaturisce una
cantabilità amabile ed amara proprio come barbarico è “l’immenso piano tagliato
dall’onde”.
La
seconda parte è composta da undici stanze di un poemetto interamente dedicato a
Delia: la ninfa, la musa, la donna in carne ed ossa e di rami e foglie.
Difficile stabilire una linea di confine; e, poi, a cosa servirebbe? Questi,
sono undici modi per dire che amare è molto più che un’azione, è una
consapevolezza di vita.
Il
poeta corteggia la sua musa ed ella gli si concede in quanto riconosce nel suo
approccio l’autenticità di una richiesta umile, alla pari. Le foglie cadute
nella pineta sono sempre lì, come le vesti di Delia ancora impigliate tra i
cespugli del bosco. Tanto viva, tanto concreta la ninfa da accomiatarsene
vedendola involarsi (eterea ma reale) lungo “sentieri di rame”.
Un
menestrello, che racconta storie infinite d’amore: è questo il Pardini della
seconda sezione.
E si
arriva alle liriche conclusive (ultima fase del libro), nelle quali viene
raggiunta l’aspirazione più alta della ricerca poetica in questione:
“Parliamone – si esordisce ne L’azzardo
dei confini – Non ti pensare / che le cose più belle vengano fuori / da
quei giardini in fiore. / I profumi più intensi / di solito respiri / sulle
pianure incolte; / rimaste abbandonate. / È là che si sprigiona la coscienza di
esistere…”.
È là
che “svanisce lo sfronto” ed anche a noi spetta “una fetta di mistero”, e ci
sembra – ma accade davvero – che il cielo diventi più umano.
Il
mistero suscita sempre inquietudine nell’uomo ma l’altra faccia della medaglia
è goderne, gioirne, farne vita; l’anello
mancante, “quel tanto che basta / a essere tutt’uno”, forse è nascosto
proprio sul retro: a volte è sufficiente girarla sul lato giusto, a volte –
senza saperlo – abbiamo sotto gli occhi il verso della bellezza ma, in ogni
caso, stringendola nel pugno, quella medaglia, ci si sente al sicuro, si è
consci di vivere “un grande avvenimento”.
E
chi, più di un bambino, avverte la completezza, l’unicità del proprio essere?
Nella poesia eponima della terza ed ultima parte tutto questo – abbracciando
l’opera – è superbamente esplicitato: “La nostra gioventù / giocava con gli
avanzi della guerra – scrive Pardini –, “Non conobbe le corse della pace”.
Oggi,
non tutti, ma molti bambini sono essi stessi minati, ordigni bellici cui si
insegna ad esplodere invece che a giocare. Eppure – come ieri – tutto avviene
mentre il Sole continua a inondare di luce le pianure incolte e abbandonate.
Sandro Angelucci
DAL TESTO
Mi giunge alle narici
Mi giunge alle narici il saporito
brulichio di fascine arse alle vigne.
Bianchi i fumacchi si levano in cielo
e al vento si sparpagliano
per dirti che l’autunno se ne va
donandosi ai rigori della quiete.
Ascolta! L’accompagnano gli schiocchi
di forbici da pota risonanti
come tinniti di chiesa. Ricordi?
In questo piano c’era la tua vigna.
Buca dei tassi il nome che le demmo.
Fuggivano dai pampini
grappoli d’oro e il moro Sangiovese:
gareggiavano
al sole che esondava. Ti ricordi?
Mi porgevi i tuoi grappoli vogliosa
di sguardi giovanili. Mi era caro
levarti dalle mani i biondi chicchi,
carezzarti le chiome con la scusa
di toglierti pagliuzze. Anima mia!
Potessimo tornare
in quella vigna d’oro!
Ma so che il tempo ha spento coi tramonti
l’afrore di vendemmia. Resta solo
un sole che declina sopra il piano,
un rosso generoso di vulcani,
un trillo di un ramingo solitario,
e il ricordo
di una mano di perla fra i vitigni
che gareggiava con i chicchi d’oro.
Il mio ritorno
Si accendono le luci nelle case
e per le vie del borgo. Sarà notte!
Per ora il giorno mangia virtuale
la luce dei lampioni. È il mio ritorno.
Presto l’oscuro mangerà il cammino
e il verde dei miei colli e le memorie.
E spero solo che la luna in cielo
porti a spasso del sole, col suo volto
perlaceo e le sue chiome, dei frammenti
di luce. Tanto spero di vedere:
se privo di ricordi, alle colline
nell’ora del ritorno il mio partire.
Non ho letto l'ultima Opera di Nazario Pardini, ma quest'introduzione e le due liriche del Poeta sono bastate a farmi venire la pelle d'oca. Il mare... il mio infinito sentiero per immaginare... è ll protagonista della Silloge e oltre all'amore immenso che da sempre mi unisce a quest'elemento, ascolto echi degni di tanto Autore. Echi di Baudelaire: "Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è il tuo specchio/ nello svolgersi infinito delle sue onde / contempli la libertà dell'infinito". Echi nerudiani, del suo oceano, di Isla Negra, la casa voluta per respirare l'immensità del mare e per sentirsi in perenne viaggio, tra gli oggetti che rappresentano 'sirene di prua messe a giacere negli angoli, pezzi di rete e altri attrezzi per la pesca'. Ma Sandro Angelucci con la capacità critica che lo contraddistingue, riesce a darci un'idea completa del Poemetto di Nazario. Illustra la seconda parte, composta di stanze dedicate a Delia, la Musa, l'ispiratrice, la donna che lascia cadere sillabe di luce sul suo sentiero, che è magnifica ed eterea, che è simbolo di terra e di avida bocca spalancata al vento:
RispondiEliminaMi porgevi i tuoi grappoli vogliosa
di sguardi giovanili. Mi era caro
levarti dalle mani i biondi chicchi,
carezzarti le chiome con la scusa
di toglierti pagliuzze. Anima mia!"
La terza parte del Poemetto, come dice Angelucci, è ritorno all'infanzia, saudade dei giorni in cui era facile sentirsi felici. Soavi i versi citati dal critico: “La nostra gioventù / giocava con gli avanzi della guerra.Non conobbe le corse della pace”. Il mistero non esiste. Un lirismo di scavo e recupero. Il rimpianto dell'innocenza, del 'poco', è sintomatico di un Poeta che darebbe tutta la saggezza acquisita per rivivere la magia di quell'era passata.
Mi sono emozionata. Molto. E porgo i complimenti grati all'Autore e a Sandro, che mi hanno permesso di vivere, in parte, tanta grandezza.
Maria Rizzi
Carissima Maria,
RispondiEliminatu mi frastorni, mi inquieti, e mi esalti, con questa tua esegesi di anima e passione. Un vero saggio breve che, ce ne fosse ancora bisogno, mette in luce la tua immensa sensibilità mista ad una cultura letterario di rara valenza.
Ti ringrazio, carissima amica,
Nazario
Bella la similitudine tra il gioco poetico dell'anziano scrittore e il gioco del bambino all'aria aperta, arrampicato a piedi nudi sugli alberi, o sulla "battima" a costruire castelli con il secchiello in mano. Le due stagioni, quella della maturità e quella dell'infanzia, appaiate tra di loro e fuse l'una nell'altra, come la notte e il giorno, il tramonto e l'aurora. L'inverno, dice Angelucci, è la stagione preferita da Pardini: stagione che compendia tutte le altre; stagione in cui, del mare (stupenda metafora della vita)"lo vivi ancor di più il suo profumo, / lo senti più vicino il suo colloquio: / ti parla quando è solo". L'inverno è, per analogia, la fine della vita. In esso "presto l'oscuro mangerà il cammino / e il verde dei colli e le memorie". I ricordi verranno cancellati, ma è paradossalmente l'oblio la condizione necessaria al risveglio. La vita non si estingue, ma sparisce dentro se stessa per prepararsi a nuove feste e a nuove esplosioni vitali. Dopo il lungo letargo nell'Ade, Core si trasformerà in Persefone e tornerà da sua madre Demetra facendo rifiorire la terra al suo passaggio. Mnemosyne (la Memoria) deve purificarsi nel Lete(la dimenticanza) per poter tornare alla vita. La poesia di Pardini è immersa in questa visione duale del mondo, che è poi la visione dei miti bifronti, la visione dell'armonia dei contrari.
RispondiEliminaFranco Campegiani
La tua filosofia, carissimo Franco, e le tue sagge incursioni mitopoietiche, esaltano, trasferendoli in alto, i miei umili versi.
RispondiEliminaGrazie, amico
Nazario