L’arte
al tempo della tecnica
di Sonia Giovannetti
Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Cosa è l’arte? Per chi, in ipotesi, si
occupasse di poesia, una risposta attendibile potrebbe essere: l’arte è voglia
di conoscenza - del mondo, della vita, di se stessi. Ma anche: è il modo in cui
l’uomo cerca la bellezza. È mettersi in viaggio. Partire da un luogo
per giungere in un altro, senza la pretesa di arrivarvi a tutti i costi. È distanza
dall’effimero, dalle pressioni del quotidiano, dall’angoscia del vivere. È consolazione. È mistero. È un po’ come la
vita, che “sta quasi sempre in ciò che di
misterioso passa nei fatti e molto di rado nei fatti stessi”, come afferma
Mario Fortunato.
Ma, più in generale, conviene chiedersi:
cosa è stata, in altri tempi, l’arte? e se diversa da oggi, cosa può averla
trasformata nelle sue forme odierne, sfuggenti e cangianti, in sofferta
convivenza con gli idoli più arroganti e pervasivi della nostra epoca: la
tecnologia, l’iperefficienza, l’onnipresenza come abrogazione dello
spazio-tempo, come “volontà di potenza”?
Il concetto odierno di arte è certo
diverso da quello coniato dai Greci, che lo associavano all’uso delle mani, definendolo
col termine tèchne per indicare un
fare, un’abilità, un mestiere, una destrezza. E se l’arte è ancora oggi riconoscibile
come un “fare”, in omaggio al proprio originario etimo, tuttavia con il passare
dei secoli, appare completamente mutato il contesto che la connota. Già dal
Medioevo, arte e tecnica separano i propri rispettivi destini, distinguendosi
in “belle arti” e “arti meccaniche”. È l’inizio di una
differenziazione che, pur non esente in epoca moderna da un carattere di
ambiguità, segna una distanza sempre più netta tra l’una e l’altra.
Da un lato, con lo sviluppo ipertrofico
della tecnologia, che piega progressivamente la natura e la manualità stessa
alle proprie regole, la tèchne sembra
sfuggire al controllo dell’uomo. Scrive con accenti drammatici il filosofo
Emanuele Severino: “Oggi è la
tecnica che si sta scrollando di dosso tutte le forze che pretendono di
servirsene come semplice strumento” e che sta “distruggendo ogni forma tradizionale di
civiltà, cristiana, borghese, marxista e quindi anche ogni forma tradizionale
di conoscenza”. Lo strumento ha perso, nel tempo, la natura di mero utensile, per convertirsi da mezzo a fine che piega le cose alla propria logica. La ragione appare essa
stessa tecnica; non più quindi un
principio primo che, autodeterminandosi, detta i propri fini all’azione, ma,
all’inverso, un organo eterodiretto, obbediente alle regole di un sistema che
l’uomo stesso ha creato per vivere nel mondo, ma che, divenuto totalizzante,
converte in regola di funzionamento ogni idea di fine, imponendola all’uomo come
funzionalità, come efficacia, in luogo della verità.
Vengono in mente, in proposito, i pensieri esposti quasi
profeticamente da Pavese nel suo “Ritorno all’uomo” (1945), quando rifletteva
sulla disumanizzazione della parola: “Le parole sono il nostro mestiere. Le
parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo
per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le
parole alla solida nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene … Il nostro
compito è difficile ma vivo. E anche il solo che abbia un senso e una
speranza”.
L’arte,
tuttavia, rimane pur sempre una produzione di senso, una poiesis che usa come tramite i suoi diversi linguaggi. Ma il formidabile messaggio di Mac Luhan – il
mezzo è il messaggio – ci induce a
chiederci: come è riconoscibile oggi il linguaggio dell’arte? Più esattamente:
fino a che punto le moderne tecnologie di elaborazione e trasmissione dei
simboli comunicativi – l’informatica, le telecomunicazioni – condizionano il
processo creativo e la percezione stessa dell’opera? E infine: l’evolversi nelle
forme odierne degli strumenti e dei linguaggi giustificano ancora l’esistenza e
la possibilità di un prodotto artistico?
Ebbene, se la partita dell’arte (la sua
possibilità) si gioca sulla produzione di senso, di senso della vita e per la vita, allora conviene soffermarsi
a riflettere sui nostri bisogni fondamentali: tanto sui marcusiani “istinti di
vita”, che esprimono l’amore per tutto ciò che all’uomo dà piacere, quanto sui
bisogni di consolazione, entrambi insopprimibili e propri della condizione
umana. La soddisfazione di questi bisogni rinvia, per i primi, alla ricerca del
“bello”, una categoria assai diversa dall’ “utile” –cui sa provvedere la
tecnica – e, per i secondi, alla ricerca di “conforto”, rimedio al dolore e all’angoscia
– tare umanissime e senza tempo – elemento foriero di speranza, che trova
risposte anche nella religione.
In entrambi i casi, l’arte – come manifestazione
dell’interiorità emozionale dell’uomo –
può ancora oggi godere di ampia agibilità, quando sappia affrancarsi dai
condizionamenti e dalle suggestioni della tecnica, quando cioè dia mostra di
saperla ricondurre alla sua originaria funzione di mezzo per l’uomo. È ben vero che questo “ribaltamento”, il ritorno della tecnica
alla sua essenza primigenia, suppone che l’uomo sia oggi ancora in grado di
ricongiungersi con la propria “anima” – un’anima ipoteticamente sopravvissuta
al dominio della tecnica, come capita agli eroici superstiti della splendida
metafora di Matrix – e che solo in
virtù di ciò può proporsi di “salvare” l’umanità dal suo inconsapevole
asservimento al dominio delle macchine.
Ma già di per sé quegli inestinguibili “istinti di vita” – il piacere, la fuga
dall’angoscia – continuano a rappresentare la via di accesso verso la libertà dello
spirito, di cui l’arte si nutre come stimolo inesauribile a perpetuarsi, sia pure
nell’inevitabile compromesso con le limitazioni al suo linguaggio poste dalla
contemporaneità. A testimoniare tali limitazioni, del resto, basterebbe la
constatazione di un acuto critico letterario, secondo cui la poesia, che nasce
dall’ “insoddisfazione per l’esistenza”,
trova sempre meno spazio in un mondo dove “si
comunica senza sosta e la comunicazione ha invaso ogni singolo anfratto delle
nostre vite”, non permettendo all’uomo di vivere quella condizione di
silenzio e di solitudine indispensabile per concentrarsi su di sé (W. Siti nella
rubrica di Repubblica “Poesia del Mondo”).
Tuttavia la forza – e il bisogno – delle emozioni fa ancora sperare che
il linguaggio dell’uomo (la sua prima tecnologia!) possa ancora testimoniare il
disagio del vivere e l’indignazione per la condizione umana, come seppero fare
mirabilmente nel secolo scorso il genio di Munch (“Urlo”), Picasso
(“Guernica”), Chaplin (“Tempi moderni”), Montale (“Ossi di seppia”), e non
pochi altri.
Se l’arte ha dunque per scopo di dare
forma alle emozioni dell’artista, ciò che nel mondo suscita tali emozioni fa
dell’artista un testimone del proprio tempo. Non è questo, beninteso, un suo
intento programmatico, bensì un connotato strutturale, oggettivo del suo
operare. Ma proprio la figura del testimone, che è tale quando osserva i fatti
– gli oggetti della contemporaneità –
come altro da sé pur sentendosene
coinvolto, gli consente di giocare un ruolo potenzialmente critico verso la
realtà. La distanza tra sé e il mondo
e, al contempo, l’immanenza del suo
spirito nelle pieghe del mondo: è propriamente questo peculiare carattere
dell’artista che assegna all’arte un ruolo obiettivamente disfunzionale
rispetto al sistema della tecnica, di sostanziale affrancamento dalle sue
regole, di misconoscimento dell’ordine delle cose da essa imposto. Un ruolo
critico, dunque, quando non dichiaratamente eversivo.
Si pensi, come esempio di ciò, al dadaismo, che assegna agli oggetti
rappresentati una destinazione e una collocazione tutt’affatto diverse e
incongrue rispetto all’uso per essi progettato.
Fare spazio alle emozioni, alla ricerca
e alla contemplazione del bello, all’aspirazione per ciò che non possediamo ma
di cui abbiamo bisogno; testimoniare ciò che ci fa orrore, invocare il rimedio
alle nostre miserie: tutto questo è nell’arte, oggi come ieri; nel tempo dell’arte.
Un tempo, quello dell’arte, assai
diverso da quello ordinario. Un tempo creativo,
un tempo soggettivo, non imposto dall’esterno – dal sistema della
produzione, dal mercato – ma che ad esso si contrappone come tempo interiore. Anche nella visione e nell’uso
del tempo l’arte è dunque eversiva. Chi
crea non conosce altro tempo che il proprio: la musica, la danza, la poesia, la
stessa pittura, hanno ciascuna una propria misura del tempo - come direzione e durata,
come ritmo, come armonia. Contravvenendo al tempo regolato dalla tecnica,
l’arte restaura il tempo dell’uomo e lo riavvicina alla propria umanità. Questo
è forse, nella contemporaneità, il suo più importante compito. Un compito
urgente, un’impresa possibile solo all’artista, ma che ogni persona interessata
alla verità, alla dignità e alla tutela del libero arbitrio dell’uomo, ha il
dovere di sostenere.
Aiutiamo l’arte a vivere e a
prosperare, dunque. E riconquistiamo anche noi il nostro tempo. Da sovversivi, come
sono gli artisti. Apriamo le porte a quel “tempo ritrovato” che è il tempo del
riscatto per ritrovare noi stessi, per non smarrire la coscienza della nostra
umanità compressa e mortificata dal primato assoluto e ossessivo della tecnica.
Nel secolo della
produttività, ritroviamo nell’arte l’alleato più fidato e attrezzato per
indagare e riflettere sull’esistenza. Siamo, del resto, in buona compagnia:
come non dare ascolto al pensiero di George Bernard
Shaw: “Senza arte, la crudezza della
realtà renderebbe il mondo insopportabile”.
Pratichiamo noi stessi la bellezza. “Se si insegnasse
la bellezza alla gente la si fornirebbe di un’arma contro la paura, l’omertà.” per dirla con Peppino Impastato, che coglieva così il
legame assi stretto tra etica ed estetica, enunciato da grandi filosofi.
Facciamo nostro, infine,
e senza fraintendimenti di segno aristocratico, anche il pensiero di George
Steiner: “È
indispensabile essere elitari – ma nel senso più autentico del termine:
prendersi la responsabilità per «il meglio» della mente umana. Una élite
culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione
delle idee e dei valori più importanti, dei classici, del significato delle parole,
della nobiltà dei nostri spiriti. Essere elitari, come ha spiegato Goethe,
significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri
esseri umani, e dunque della nostra umana dignità”.
Sonia Giovannetti
Da un lato, dice Sonia, l'arte è distanza "dalle pressioni del quotidiano", mentre dall'altro è testimonianza del tempo in cui viviamo. In questo articolo, lei approfondisce e chiarifica i termini della contraddizione, spiegando come "proprio la figura del testimone, che è tale quando osserva i fatti – gli oggetti della contemporaneità – come altro da sé pur sentendosene coinvolto, gli consente (all'artista) di giocare un ruolo potenzialmente critico verso la realtà. La distanza tra sé e il mondo e, al contempo, l’immanenza del suo spirito nelle pieghe del mondo: è propriamente questo peculiare carattere dell’artista che assegna all’arte un ruolo obiettivamente disfunzionale rispetto al sistema della tecnica, di sostanziale affrancamento dalle sue regole Può qui tornare utile un riferimento alla categoria estetica dell'ulteriorità elaborata da Adorno. Secondo costui le opere d'arte si servono, nel loro processo di formazione, di quelle stesse tecniche dalle quali sono indipendenti, giacché l'arte "mobilita la tecnica dalla linea di tendenza opposta a quella su cui la tecnica viene messa dal dominio". In tal modo, pur risentendo dell'influsso del mondo tecnologico, l'arte si separa da esso e si solleva al di sopra della situazione, prendendo posizione su di essa ed alludendo ad un mondo migliore e diverso. Non è dunque vero che il mondo delle macchine sospinga inesorabilmente l'uomo a uscire di scena. Ciò può accadere solo se, più o meno consapevolmente, l'uomo decide di farlo. La responsabilità di tale evenienza ricade su di lui e non sulle macchine. E fa benissimo Sonia a ricordare che, per sua natura, la téchne è un mezzo, non un fine. Tentiamo di approfondire il discorso. Poesia (da poiéin) significa produrre, con chiara allusione al mondo del lavoro e della tecnica. La stessa parola latina ars (arte) corrisponde alla parola greca téchne, e ciò immerge inesorabilmente le Muse nella problematica tecnologica. C'è tuttavia da dire che la tecnica, all'origine, aveva valenze opposte a quelle che si sono affermate successivamente. Inizialmente le tecniche non avevano nulla a che vedere con l'artificio o con la manipolazione ed erano pienamente inserite nell'ordine di natura. Nel suo statuto originario, la téchne appartiene all'ordine naturale, nasce e si sviluppa negli orizzonti della natura stessa. Inammissibile pertanto sfruttare questo termine per giustificare il nostro andare contro la vita. Téchne significa mettere le mani in pasta nei processi creativi del creato. Ebbene, questo non è artificio, non è andare contro natura, bensì assecondare i disegni della natura, collaborare con i progetti della vita. Un conto è la tecnica, un altro è la degenerazione della tecnica con cui si manipola la natura e la vita. Di ciò sono sempre stati consapevoli gli spiriti creativi, e sempre lo saranno. Per ristabilire l'equilibrio è necessario allora capovolgere lo sguardo dalla dimensione esteriore del vivere (senza ovviamente rinunciarvi) a una dimensione interiore profonda, non consentendo al mondo di farci rubare a noi stessi. L'auspicio è che "nel secolo della produttività", noi possiamo ritrovare nell’arte l’alleato più fidato e attrezzato per indagare e riflettere sull’esistenza".
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie, carissimo Franco, per la preziosa attenzione che hai voluto donare a questo mio scrivere sull'arte al tempo della tecnica. Come sai, il tema mi appassiona molto e mi piace sperimentare su carta alcune riflessioni. Le tue, acutissime, aiutano il mio percorso. Ti abbraccio, con molta gratitudine.
RispondiEliminaGrata anche, come sempre, al nostro Prof. Pardini per lo spazio che regala alle mie parole.
Sonia Giovannetti