Angela Caccia: Piccoli
forse. Lieto Colle Editore. Varese. 2017
Creatività verbale e ricerca infinita del Bello
se mi chiedi un per sempre
ti rispondo forse
se (anche) il tuo infinito
è di tanti piccoli forse
potrei scegliere di camminarti
accanto. Forse
Ho
già avuto il piacere di respirare il profumo intricante e suasivo dei versi di
Angela Caccia e già avevo posato l’attenzione sul suo dire nuovo, originale,
ora apodittico e conclusivo, ora espanso e narrativo, insomma vario e
articolato, atto a soddisfare le richieste di un’anima zeppa di storie e vicende da
mutare in poesia: memorie, sensazioni, emozioni, riflessioni, contaminazioni, indecisioni,
coscienza dell’umana esilità, visione di un amore che si abbevera al secchio
dell’esistere per farsi immensità, infinitezza sulla futilità dell’attimo. Ma
si sa quanto sia difficile questa declinazione. La poesia richiede immagini
fresche e cristalline, combinazioni sintagmatiche che colpiscano e scuotano il
lettore per la loro incisività; per il loro effetto trainante nel lungo cammino tra realtà e verità. E qui tutto
questo c’è; esistono le fresche ed oscillanti acque di un ruscello che cercano
il mare nel loro variegato cammino fra colline e pianure, fra inceppi, anche,
che sembrano interromperne o ostacolarne il flusso. Come in un poema che non
sempre scivola leggero e eufonicamente compatto; non sempre su vette di alta
tonalità; se così fosse non si apprezzerebbe il Bello. Un testo appetitoso che chiama
all’attenzione, all’educazione del silenzio, alla concentrazione, alla
riflessione, al gusto della Bellezza che chiede al poeta simbiotiche fusioni
fra significati e significanti, fra vertigini intime e contenitori linguistici.
E così mi ero espresso a proposito di
una mia recensione a un suo testo: “… Una
verbalità di intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole
pronte a fare del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che
neppure il giorno, con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo
da una notte che incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:
(…)
Laghi castani
appannati da
un fondale
che la sabbia
sconvolge
atolli
dove il mio
amarti
ha perso le
chiavi (Per i tuoi occhi),
Linguismo
definito, risolutivo, dove il verbo, da solo, fa da verso tanta è la sua
soluzione, la sua profondità, la sua essenza traslata, il suo potere iperbolico
nella magra riflessione dell’esserci.
Ed è
così che si fanno avanti i dubbi, e le incertezze del nostro vivere. Le
insicurezze che tanto inquietano il percorso esistenziale della Caccia. Per
questo il suo “Poema” si fa fortemente umano, carico di quei tanti perché che
non trovano soluzione...” (N. Pardini: recensione a Angela Caccia. Il tocco abarico del dubbio).
Credo
che sia proprio il caso di ricorrere ad una affermazione di Pavese per
sottolineare la continuità espositiva,
il filo rosso, il leitmotiv che fa da copyright nella poetica della Caccia: inquietudini
che si riverberano in un canto “splendidamente monotono”, come sapeva
dire, da par suo, Cesare Pavese, della poesia. Una monotonia che fa da carta
d’identità, da marchio di fabbrica nella ricerca attenta, vissuta, meditata,
sofferta e fattiva di una parola che vada oltre il senso, oltre l’etimo, per
agguantare quella luce che abbagli il dubbio; sì, il dubbio, quel patema del
forse, del può darsi, che morde lo stomaco e ci rende vulnerabili di fronte
al sapere. Una parola sempre accanto,
vicina, disponibile ma ardita, intrepida, svincolata, di fattura umana e oltre,
della cui compagnia la Caccia non può fare assolutamente a meno, dacché di essa
si ciba; è essa che la conduce sulla strada della possibilità, verso un difficile
approdo per una navigazione in mari folti di tenebra e di mistero. E credo
che il piatto forte uscito dalla cucina di Angela sia proprio quello della
grammatica poetica. Sì, a volte si incontrano poeti che si esprimono con una
metaforicità vellutata e convincente. Ma qui la cosa è ben altra: la parola si
abbandona generosa, superba e ardita a incastri etimo-sonori di alta valenza creativa. La parola, sì, quel mezzo umano, prettamente
umano, che non di rado non è sufficiente a ricoprire gli abbrivi emotivi di
un’anima tutta volta a dire di sé, ma soprattutto a colmare quella divergenza
che c’è fra terra e cielo. È così che il verbo si arrotonda, si smorza, si
sforza, si dilata, si contorce, ed azzarda mete di difficile ancoraggio:
il cielo brucia più forte
dell’inferno
e amarci ora sarà immunizzarci
da tutto e per sempre
(fosse tua la perdita, o mia, mi
abituo
a declinare la parola morte, denominatore
che non fa sconti a chi resta)
non chiedermi il perché
di questi adombramenti
il vento – a volte – ha
carezze tristi.
Inferno,
perdita, morte, sconti, perché, adombramenti, carezze tristi. Tante
riflessioni sul giorno e la notte, sulla
vita e la morte, su eros e thanatos. Non è che la vita sia poi quella stretta circonferenza
in cui ci dibattiamo per trovare uscite da perimetri invalicabili? L’amore
stesso, sentimento dei sentimenti, risente
di questa pressione del forse. E si fa turbinio di inquiete risonanze che
chiedono certezze; allora non resta che azzardare ipotesi, avventure verso
mondi altri. Ed è umano azzardare voli che ci liberino, in parte, dalla nostra
insufficienza terrena. Ed è così che chiediamo alla parola dei contorcimenti sinestetico-emotivi, o
iperbolico-allusivi, proprio perché il linguismo non ci è sufficiente a
concretizzare emozioni e intuizioni che rasentino l’azzurrità di quei mari stagliati su orizzonti di infinita misura,
dove la dicotomica intrusione fra rien e tout scava caverne impenetrabili
dentro il nostro essere mortali:
a te che a sera rientravi e d’inverno
avevi addosso l’odore del vento, tu
il gigante io lo scricciolo, e
m’abbracciavi
e colmavi di pane la madia della mia
fame
(non vi furono altre braccia che mi
resero
mai così densamente regina)
Non
è di certo cosa da tutti i giorni fare, di certe iuncturae, vellutati resoconti
iperbolici; abbracci di verbi per immagini di urgente resa lirica (e colmavi di pane la madia della mia fame).
Quattro
i sottotitoli della silloge Piccoli forse
(Dalla torre campanaria, Dal grande
terrazzo, Dalle sughere e dalle pietre, Da una casa sull’albero), che,
avvicendandosi in un climax di ricerca
ontologica e di umano esser-ci, sembrano mantenere tutti quegli interrogativi
che inquietano il fatto di esistere; tutti quei forse che fanno della nostra storia
un cammino in bilico fra incertezze e supposizioni; fra chiarezze ambite e luci
di fari a misura umana; anche se dobbiamo riconoscere che in questa nuova
pubblicazione la Caccia compie o cerca di compiere una parziale rimonta verso
un gruppo di fatti reali che si erano allontanati in vista di un traguardo di
onirici orientamenti; un parziale progress che più l’avvicina all’inarrivabile
senso del tutto; a certezze e a contatti con una realtà che chiede consonanze;
e lo fa ricorrendo a una ricerca stilistica, anche se originale e innovativa,
non sempre spontanea; a volte dettata da una razionalità costruttiva, più che
da una invenzione emotiva; comunque i versi, più compatti, e meno segnati da segmentazioni
prospettiche, trovano più linearità verso una ascesa all’enigmatica complessità
delle questioni umane:
tornare ad amare è come
ritrovare una direzione
essere ancora capaci di una
carezza – eppure, così scollati
dai più che la cercano –
riprendere a leggere di me di te
dal rigo abbandonato
dai desideri miei e tuoi
di dare loro una casa
in cui ritrovarci la sera
D’altronde
i poeti, e Angela lo è, sono strani personaggi che vivono coi piedi a terra e
l’anima in alto, mischiata in quei forse di un volo senza riposo; ad ali
spiegate; con l’unica “gioia di essere tristi” come afferma V. Hugo.
Che fine fanno
gli amori abbandonati
l’affetto verso le cose
le amicizie un po’ ventrali
così irrimediabilmente perdute
ci sarà -nel corpo
da qualche parte- un cimitero
di morti innocenti o una sorta
di cellario per stampelle usate
e ormai accatastate
ci sarà un pezzo ristretto di
cielo che s’apre d’improvviso
a gabbiani feriti con ali riparate
o il tratto di una strada che
si intravede
ma solo guardando a ritroso
e un fantasma che vagola
dispettoso da un argine all’altro
ci sarai anche tu che
portavi la tramontana da fuori,
e ghiacciavi le parole –accucciate,
nella bocca, tra loro- e
m’abbracciavi,
semplicemente m’abbracciavi,
il tuo freddo al mio calore
perché fossimo in due
a reggere l’inverno dai vetri
Nazario
Pardini
DAL
TESTO
di notte è il solito festino di fantasmi,
limbo brumoso tra le maglie di un sogno
ti ospito e di noi profumano le pietre
se torni non sfiorarmi, ho cieli di cristallo
non tu ma il mio amarti
portò alla luce il meglio di me
gli occhi al sorriso, alla buona parola
più di un abbraccio le nostre mani,
– sincronia di battiti – aderivano, i palmi
a distendersi come labbra inumidite
non tu ma il mio amarti
portò il bello alle narici, un odore
di campi nel vento di gennaio
di tanto – di tutto – soltanto l’orecchio
non pareva sanato, su ogni musica era
il tuo passo cadenzato che si allontanava
per raccontarci val bene una
musica
e – sì – scelgo di noi un tango argentino
l’equazione ci vincola, lo stesso convulso
fondale gonfia l’onda – non v’è differenza
di materia sospesa tra il suono e il mare –
fiammante l’abbrivio, ci accasciamo infine
alla sponda, stremati minuzzoli di noi
a Gaia, nipote
appena nata
la rosa, quando s’apre
s’apre all’azzurro
le brilla il sole sulla fronte
io che conosco le case
velate di pioggia, l’avanzo
della notte che ammorba
l’aria del mattino voglio
di me una stilla
nelle tue arterie, un puntino
sulla cartina muta del cuore
bellezza che torni e incanti,
è nei tuoi occhi che vado
oltre la mia morte
ti sia promesso
il presagio di un nome,
più veloce il tuo passo
della nuvola ruzzolante sulla strada,
che almeno tu vada oltre la siepe –
lì, da qualche parte, Proserpina
ancora coltiva le margherite
al piccolo Michele
due mesi
e una manciata di giorni
estorcono amore
il seno turgido non è solo
lì per nutrire, già nel latte
sono i sogni di una madre
su tanta immagine bella
lo sguardo paterno
è uno scudo tagliente
nella parte convessa
lo schianto della tenerezza
è un urlo feroce
la mia vita per la tua vita nascente
Così preciso e motivato in ogni affermazione, è sempre un onore ricevere un Suo scritto, Professor Pardini ... GRAZIE!
RispondiEliminaAngela Caccia