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mercoledì 1 novembre 2017

SANDRO ANGELUCCI LEGGE: "SULLA SOGLIA DELLA TRASPARENZA" DI SILVIA VENUTI



PRESENTAZIONE DI SULLA SOGLIA DELLA TRASPARENZA
 DI  SILVIA VENUTI

Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade
“Siamo soglia / tra finito e infinito, / visibile e invisibile, / sveliamo Bellezza, / riscattiamo dolore, / a illimitate altezze, / ove misteriose abitano / le leggi universali.”.
       Sono versi - riportati a pag. 36 - che possono dirsi eponimi della raccolta che questa sera presentiamo. Compare, negli stessi, quella che indubbiamente è da considerarsi una parola-chiave, che rivela e dispiega l’universo poetico della Venuti.
       Soglia, “siamo soglia” - scrive la poetessa -. Bene: cos’è la soglia? È un varco (lo sappiamo tutti) attraverso il quale si accede ad un determinato luogo; ma è un limine che ovviamente simboleggia un limite, una terra di confine che ci fa uscire ed entrare al contempo, una terra di nessuno: perché no, e, quindi, una sorta di fase di transizione.
       L’idea del passaggio da un modo di vivere - meglio - di essere ad un altro, accompagna dall’inizio alla fine la ricerca che si propone Silvia dando luce e respiro alla sua riflessione.
       Che, poi, si tratti di un ripiegamento d’ordine spirituale; che alla Nostra interessi restare sulla soglia - appunto - della trasparenza perché lo sguardo possa spaziare ben oltre le apparenze è del tutto evidente.
       Si prenda, ad esempio, il testo d’apertura: alla constatazione che “ogni risveglio / è alba del mondo” (un dato di fatto per nulla scontato) segue questa terzina: “Nella dimensione del silenzio / l’allodola / canta il Vero”.
       Cosa significa? Chiediamocelo.
       È mio convincimento che, per intenderlo compiutamente, non si può e non si deve prescindere dalla vigorosa valenza ossimorica del dettato: il canto del volatile è tutto fuorché silenzio, tutto fuorché mutismo; è partecipazione invece, è voce che si aggiunge all’eco dell’armonia naturale.
       Ma, allora, perché Silvia parla di un taciuto, perché desidera misurare (mi si passi il termine) l’intensità di quel canto ponendosi, lei stessa, ai margini della melodia?
       Paradossale? Soltanto per essere apparentemente contrario all’opinione comune o alla plausibilità? Non dimentichiamo che qui si sta disquisendo di un linguaggio che non ama impaludarsi né, tanto meno, farsi sopraffare da un certo tipo di comunicazione: omologata e dunque svuotata dei suoi originari e meno contaminati significati.
       Se si osservano le cose da questa angolazione, da un punto di vista diverso da quello usuale e massificato, non dovrebbe meravigliare
che per ascoltarlo distintamente, per percepirne ogni modulazione necessita, in un certo senso, spostarlo il canto dell’allodola e, soprattutto, liberarlo da qualsiasi interferenza negativa e artificiale che finirebbe col coprirne la salvifica bellezza.
       Certo, dacché di questo si tratta: di mettersi in condizione, più ancora che di salvarsi, di essere salvati.
       L’allodola - contrariamente a quanto facciamo noi - non stona; non può stonare, perché il suo verso non si è mai scisso, non si è mai chiamato fuori dal coro che, ogni mattino, saluta l’alba di un giorno nuovo, un giorno che sempre - proprio per tale ragione - coinciderà con l’inizio del mondo.
       Qui, il discorso si fa complesso e rischieremmo di dilungarci eccessivamente. Restiamo perciò nell’ambito delle riflessioni stimolate dalla domanda che, prima della digressione, ci siamo posti, soffermandoci sulla poesia che apre la raccolta; senza, tuttavia, escludere la possibilità di tornare - in seguito - anche sugli interessanti spunti scaturiti dall’approfondimento.
       L’assenza di rumore, quindi, come primo passo verso l’ascolto;
intendiamoci (la precisazione è opportuna): elidere il fastidioso brusio non deve tuttavia portare ad isolarsi, a cercare nell’ascesi un rifugio. Ciò si risolverebbe in un graduale e pernicioso distacco dal mondo che, anziché avvicinare, ci allontanerebbe dall’euritmica consonanza cui desideriamo ricongiungerci.
       Non nego che il rischio è in agguato: la stessa Venuti, a volte, dà l’impressione di abbandonarsi al misticismo e ad uno stato di contemplazione nirvanica (da pag. 37: “…Cessato il desiderio, / essere nido, albero, passero, / sentire colmati i vuoti, / le carenze, le carestie della vita, / in un tempo eterno.”).
       Personalmente, non credo che la noncuranza o la disaffezione passionale ci siano d’aiuto e, dalla lettura di queste poesie - pur riscontrando passi come quello testé citato -, nel complesso, non si ha mai la sensazione che l’Autrice aspiri al disincanto o allo straniamento.
       C’è piuttosto - mi sembra di poter dire - un irresistibile anelito d’identificazione panica, una tale empatia che induce, si, ad emarginarsi ma per inserirsi totalmente e precipuamente nella realtà naturale dell’esistenza.
       Ecco, allora, che l’allodola (per rifarci ai versi prodotti) diviene essa stessa la dimensione del silenzio, quasi che voglia nascondere dietro il proprio canto - per non renderla inutile e mendace - la sostanza del vero.
       In effetti, chi può dimostrare che la verità è ciò che appare? Chi può sinceramente asserire che la natura è specchio del divino se, prima, non si guarda dentro e, in sé, scopre le identiche forze che fanno crescere un albero o - che so - lo fanno fruttificare; che fanno covare o schiudere un uovo, e così via attraverso innumerevoli altri esempi.
       Sulla soglia della trasparenza non è un libro facile, nel senso che, al fruitore, sono richiesti approcci contemplativi in grado di tenersi a debita distanza sia dagli schemi filosofici sia dal peculiare e classico modo di comprendere la comunicazione poetica.
       Se, però, ci si sforzerà di restare in equilibrio; voglio dire: se non si avrà la pretesa di dover necessariamente scegliere o - peggio - capire, in ogni pagina sfogliata si rinverrà un’illuminazione, un’epifania che immancabilmente ci farà intendere che questa scrittura si mette in autentica e diretta relazione con la sfera spirituale del nostro conoscere e del nostro sentire.
       Leggiamo - a titolo d’esempio - il distico incipitario di pag. 80: “E la contemplazione / è già ringraziamento”, scrive Silvia; come ad assumersi la responsabilità del meditare.
       Esattamente: dare nerbo alle proprie convinzioni, essere certi che scrutare oltre le apparenze è già, di se stesso, un atto di fede - il più alto, perché non mediato, non condizionato - è il primo, fondamentale passo verso la pienezza coscienziale dello stare al mondo; del nostro, soltanto nostro, modo di volerci essere.
       A questo punto - e mi avvio a concludere - si rende necessaria una precisazione che ritengo essenziale: tutto - dico tutto - quello che, finora, mi sono provato ad esprimere, perderebbe qualsiasi senso se non fosse chiara una cosa, che mi piace sintetizzare nelle parole di un altro distico d’apertura. “È l’accettazione del limite / a valicare la meta”: non so voi, ma io non conosco altri segreti (se di segreto è lecito parlare) per vivere al meglio l’avventura unica e sacra della vita.
       Sono fermamente convinto che le nefandezze (di oggi e di sempre) derivano da questo rifiuto, dal non voler dimorare - parafrasando la poetessa - dove luce e ombra, pieno e vuoto s’incontrano in perfetto, sano, infallibile equilibrio.


Sandro Angelucci

1 commento:

  1. Abbiamo avuto l'orgoglio e l'onore di avere all'Enoteca Letteraria Silvia Venuti, vincitrice della sezione Libro Edito, al nostro concorso "VOCI" Città di Abano Terme e, soprattutto, dell'ambitissimo Premio Camaiore. Io non ho potuto accoglierla e abbracciarla, ma è stata protagonista di una serata intensa e bellissima, grazie al nostro Sandro, che ha postato la sua magnifica recensione, a Franco Campegiani, alla lettrice Loredana D'Alfonso e alla moderatrice Fiorella Cappelli. Leggendo la recensione di Sandro evinco che l'Opera di Silvia è una ricerca dell'equilibrio tra l'essere e il contemplare, un'accettazione dei limiti che a noi esseri umani vengono posti. Quella 'soglia', che è parte del titolo della Silloge, non va varcata. Forse è proprio essa a dare senso al nostro tempo. Ovviamente potrei sbagliarmi, ma so che il commento del mio amico Poeta mi ha commossa e gliene sono infinitamente grata. Altrettanto grata sono a Silvia, creatura di raso, che mi ha tenuta stretta seppur in modo virtuale.
    In ultimo, ma sempre per primo, ringrazio il mio Nazario per questo Scoglio ricco di pepite d'oro.
    Maria Rizzi

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