Camus
in esergo (Albert Camus, Il rovescio e il
diritto, Bompiani, 1988), il tennis nella sua estensione erotico-fisico-estetica-competitiva,
l’uomo, la caducità della vita, il mistero dell’esistere, una quasi partita
(decentra lo spazio impossibile/ Non avvantaggia/ Ma appare/ Quasi partita),
sono i giochi poetici di Alberto Mori, che con un linguismo nuovo, moderno e
personale continua nella sua ricerca innovativa di ascesa
contenutistico-simbolica. Una metafora
della vita, insomma. Si cerca di studiare le mosse dell’avversario, di
abbatterlo, si lanciano tiri potenti, il più possibile filtranti, “siamo tutti
chiamati a metterci in gioco” scrive Franco Gallo, il fatto sta che il vuoto
sembra assurgere a personaggio invincibile in “questo impalpabile istante che
scivola fra le dita come gocce di mercurio”. Quel quasi è ciò che più ci
avvicina all’esistere dacché tutto è quasi in questo nostro mondo che ci vede
imperfetti; che ci vede estremamente umani destinati a spazi ristretti e a
sguardi biechi di fronte ad orizzonti impossibili. E anche a livello artistico
quel quasi ci dice un po’ dell’isola che non esiste e verso cui noi dirigiamo
la nostra rotta: non raggiungerla ed ambire al suo faro significa contribuire a
rendere vivo lo stimolo della creatività; essere in mezzo al mare, e pensarci
quasi al traguardo equivale a provare motivazioni ispirative. Qualora si
provasse dentro noi il convincimento della fine; l’ultimazione della nostra ricerca,
non avremmo più niente da dire; ogni forma di arte sarebbe giunta al capolinea.
Quel
quasi che Mori incide con scalpello da lesena nel titolo è un avverbio polivalente,
polisemico, che ben si addice alla pluralità della condizione umana.
Nazario
Pardini
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