Donatella
Nardin: Terre d’acqua. Fara Editore.
Rimini. 2017. Pag. 80. € 9,00
Terre d’acqua
D’oro e di luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida luce del nostro primo
sentire, terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo nulla che in sé appalesa
tutti gli eventi.
Nuda, gloriosa, vortica l’acqua
delle nostre radici sull’orlo vivo
del tempo se al collo indossa
la vivacità di una corte di foglie
e di uccelli
dall’acqua raccolgo il mio volto
sfiorando l’asfalto, sfida i limiti
dell’emotività l’imperativo
a svettare e chissà cosa si cela al di là,
cosa riluce nel grumo violetto
di piume e cementi, quale solitudine
accesa alle palpebre chiuse.
È con questa poesia eponima, incipitaria che
possiamo immergersi, fin da subito, in un animo tutto proteso alla scoperta di
se stesso; di un legame terra-acqua che fa di questo poema il leitmotiv, il
filo rosso, la simbiotica fusione fra spazi ontologici e ondulazioni
native. È da qui che inizia il cammino,
l’avventura, il viaggio, il nostos di una poetessa tutta intenta a varcare un
mare per bisogno di scoprire una verità, pur sapendo, Ella stessa, che è quel
mare la sua verità, che è quella terra il porto di arrivo di un viaggio di
sapore odisseico. Si sa che è proprio dell’uomo aspirare a superare quei
vincoli che lo legano agli spazi ristretti, dacché, per natura, ha bisogno di
aria, di cieli senza limiti, di orizzonti che vadano al di là dei suoi
intendimenti. Ma si sa anche che tutti siamo in cerca di un’Itaca che abbiamo
persa, pur vicina, in qualche misura, e che, prima o poi, torna per bussarci
alla porta; per vivere, magari, più intensamente dopo anni di sperdimenti e
sottrazioni. È nelle corde umane. Ritrovare la luce, il fuoco che l’ha
alimentata, che ha idealizzato la sua terrenità, il suo piccolo tratto lambito
dal mare, significa dare ossigeno e sangue alla poesia, dacché ognuno di noi si
porta dietro il sapore della propria caducità e la forza delle proprie radici;
e questa è la terra della Nostra: “Cavallino Treporti è una lingua di terra
incuneata tra il mare Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico
dunque, ma anche il luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima,
emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza”
(dalla presentazione dell’Autrice), qui il respiro dei suoi angoli, qui le
penombre del mistero, qui la luce dei suoi giorni; qui l’alimento delle sue
memorie, qui gli scogli da cui avrebbe voluto spesso partire, ma per ritornare
nuova; con l’animo e la mente intrisi dei tramonti e delle albe della sua
antica e rinnovata memoria. “Un
paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna e i falò). “…Ritorno con nell’anima lo sguardo/di una fanciulla
intenta al corredo/che giocava spensierata a palla/sorridendo con le ancelle.
Torno a sera/zeppo di vita,/ arricchito di genti di mari e di città/che
colmarono in parte le mie voglie./ E questa è la mia sera:/ è un’ora che lascia/
all’incoscienza del mattino/la ricchezza del ritorno…”. (Nazario Pardini: La ricchezza della sera, da Le simulazioni dell’azzurro)
Ed è ogni angolo del suo mondo a farsi
epigrammatico travaglio esistenziale, territorio di chiarori e penombre che
l’ha veduta crescere. Ecco che la poesia si frantuma e si ricompone in un gioco
di assemblements che dia per risultato gli stati d’animo di una vita concretizzata in quegli anfratti. Ogni angolo
sedimentato nell’anima parla di storie vissute, di vicende tristi o gioiose, di
avvenimenti che mai scadranno, dacché avranno vita con la luminosità di un poema
che li contiene.
Ed eccolo il navigatore che ha scorto dalle onde non sempre tranquille del mare, il
faro che illumina gli scogli del porto:
D’oro e di
luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida
luce del nostro primo
sentire,
terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo
nulla che in sé appalesa
tutti gli
eventi.
Bisogna stare lontani, se non fisicamente, anche
per un po’ spiritualmente, per apprezzare i ritorni. Da questi nasce l’epicità
di un lirismo di epifanica rinascita. E la Poetessa si accorge, aprendo una
finestra, di quanto sia estesa nella sua piccolezza, di quanto sia eterna nella
sua futilità, quella terra. L’animo vola e svola. Esce dal corpo e frulla sugli
angoli più nascosti di quel mondo. Se ne impossessa, li spreme, ne sugge le
sostanze più segrete, per portarle con sé al suo rientro, dopo la sua fuga. E il corpo vibra, la parola sente il bisogno
di dire quello che il dentro detta. Tutto è colmo delle nuove sensazioni, è
pieno di salmastri nostrani, di urli di
uccelli marini, di voci sussurrate ai silenzi, di battigie a una riva
insaziabile di suoni; si va al di là dei colori e dei movimenti, si va al di là
dei volti e degli spazi in questa foga di coniugare il sentire alla coscienza
di esistere; ai misteri del contingente:
e chissà cosa
si cela al di là,
cosa riluce
nel grumo violetto .
La parola scorre limpida, serena, a volte
concitata, altre riposata, a volte rapita, altre confusa, di fronte ad un mondo
che l’ha vista balbettare, e che la vede ora matura, gonfia di substantia da trasferire in epigrammatiche soluzioni; in
versi di grande sonorità eufonica e di urgente resa poematica. Così si esprime
nella presentazione la Poetessa: “…Qui un coro di voci diverse, attraversate
talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che
sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge
che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze
turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli
e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario
dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad
affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che
resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento…”. Sono i misteri della vita,
delle cose che ci chiamano, di quelle che ci portiamo dietro, e che sono guida
del nostro esser-ci. Sono dentro queste
cose le dolci illusioni, gli amorosi sensi, il focus del viaggio; e sono oltre
esse gli orizzonti a cui aspiriamo spesso indecifrati e indecifrabili per il
fatto che siamo umani, destinati al
dubbio di fronte alle questioni del vivere, cagioni della inquietudine-buon
terriccio per la resa del canto. Il fatto sta comunque che noi viviamo loro
accanto ed è proprio questa vicinanza a formare il retaggio delle nostre radici
che inspiegabilmente ci vogliono a casa. Mistero dei misteri. Quattro i
sottotitoli dell’opera: Radici, Cieli di
voli e di assenze, Nutrimenti, Le parole per dirsi, che in un climax di
fattiva generosità esplorativa, scavano, perlustrano, scoprono, e appuntano
momenti di una storia dai risvolti intimamente profondi:
Considera di
questo luogo isolato
la macchia
viva del cielo:
un talento
mite ma autorevole
inonda i
campi e le case
di cose
buone, lucenti.
Già nella prima sezione sembra appiccicarsi
addosso alla Poetessa una luce che inonda i campi e le case. È la luce dei
riflessi del cuore e della vita, è la
luce che da sempre ha accompagnato Donatella per farsi sempre più possente,
sempre più splendente sulle cose raccolte in lei fin dalla sua nascita: Il mare, così silenzioso, così contrito, Le
molte voci, Il Faro di Punta Sabbioni, I due campanili, Il Faro di Cavallino,
Forte Vecchio, Barene, La pineta… un excursus puntuale; un ritratto
geografico e panoramico del cuore; di tutto ciò che si erge con luminosità
accecante per “noi figli di un acquoreo disegno all’infinito.”. Ed è di questo
infinito che si ciba la Nostra, la sua intenzione poetica, di un volo verso
l’alto per trasferire tutto ciò che si è fatto immagine nella purezza dei
cieli; dacché tutto ciò che Ella ammira non è altro che un ritorno di giochi
che, dopo aver attraversato il campo dell’inconscio, è tornato agli occhi come
cosa nuova, sacra, da tenere vicina come questione di aria da respirare. “non sono troppe le parole da dire, basta quel
tuo esserci accanto”. E dove niente può essere notte, può essere buio, può
essere nulla e dove persino la sera “la lucida sera/sì, è una trepida sera
l’incantata/verticalità di un’attesa.”. E nell’ipotetica assenza che sarà del
troppo dolore? “Turbata bellezza, quasi da morirne,/che ne sarà del troppo
dolore?/ Fremente nell’ala, che ne sarà/ del fitto mistero che ci abbrividisce?/
Forse mai lo sapremo./…/ Diffonde il fuoco della mancanza/ la grazia crudele di
un indocile/ pigolio.”. Ed è un amore
incalzante, eterno, infinito, avvincente, a farsi mistero, a farsi domanda
incalzante, questione quasi escatologica. Ma i nutrimenti? L’alimento?: l’estate lenta, sere di paese, una nuvola,
il vanto del fiore, la campagna, foglie, poesia… un mélange di cospirazioni;
un groppo che prende la gola e che chiede spazio per farsi poesia. Sì, per
farsi canto ma per tale combinazione occorre il mezzo più umanamente disumano:
la parola. Quella per dirsi. Il valore aggiunto nella silloge della Nardin. La
grammatica del poièin richiede ben altro, non è di certo sufficiente lo spazio
della tradizionale morfosintassi. Bisogna volare, andare al di là dell’etimo,
con invenzioni iperboliche, con costruzioni di sintestetica significanza, con
iuncturae di personale fattura. Questo è il non semplice intervento di una
Poetessa che dagli abbrivi emotivi, dalle vertigini di panica intrusione, dalle
scosse di una elettricità a 200 words riesce a ricavare un poema tanto vicino
alla laguna di ognuno di noi.
“Si scioglie
agosto nell’arcano marino,
precipitando
dilegua, ma prima
di andare
nello stupore incendia
le minuscole
ignavie degli occhi.”
“Acqua,
sorgente fertile, perfetta
di questo
canto imperfetto che
all’anima
giovando, doma l’arsura
e alle soglie
del nostro segreto
- per fame o
per amore -
per mano ci
conduce.”
Nazario
Pardini
Nota dell’autrice
Questa raccolta poetica è ispirata in larga
misura e dedicata a Cavallino Treporti, il paese dove sono nata e vivo e a
Venezia, la città che, affacciandomi a una delle finestre di casa, mi entra
negli occhi.
Cavallino Treporti è una lingua di terra
incuneata tra il mare Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico
dunque, ma anche il luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima,
emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza.
Qui un coro di voci diverse, attraversate
talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che
sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge
che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze
turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli
e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario
dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad
affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che
resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento.
Ma il corpo vibrante, l’elemento vivo che nella
contingenza delle trame e degli eventi, negli incontri e negli addii, nutre e
potenzia l’immaginario è l’acqua, il principio primo, la sostanza simbolica,
lustrale sempre pronta, in un’osmosi continua tra uomo e natura, ad
incardinarci alla sua impalpabile essenza così come ai suoi frammenti pittorici
sorti dalla semplicità di un’intuizione, da una pronuncia melodiosa o da
qualcosa di oscuro, d’indicibile.
A tutto ciò il mio omaggio sincero, il mio
attaccamento, la mia modesta restituzione in poesia.
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