Margherita Celestino: Tracimar di versi. Pubblisfera Edizioni.
San Giovanni in Fiore. 2018
Poesia
morbida, gentile, fluente, in versi di lapidaria fattura, segmentati in un
percorso apodittico e vòlto alla concretizzazione di un’anima disposta a
confessare i suoi frammenti emotivi. Se la poesia deve essere semplice,
spontanea, e diretta effusione di un cuore; se la poesia deve essere tatuaggio
di un sentire cotto a puntino; se deve essere verbo concretizzante slanci verso
cime di difficile ancoraggio; se deve essere complessità di ricami interiori
che dettano inquietudini; se deve essere tutto questo, le composizioni della
Celestino sono poesia. Naturalmente la semplicità ne è un presupposto valido, ma
ne è anche un valido supporto la parola pensata, inventata, rielaborata,
riposata, e disponibile per iuncturae di metaforici allunghi. Qui tutto
scaturisce da un sentire fresco e impulsivo dove non ha avuto spazio una
meditazione lessicale più ampia (…).
Una poetessa
che, oltre ad affidarsi ad una liricità di estetica intrusione, a sinfonie di
memoria wagneriana, vive anche l’illusione di cambiare il mondo con l’influenza
etico-sociale dei suoi versi, è sicuramente carica di un humus che la
rende apprezzabile:
Il tempio dei ricordi
Scavo
dentro ogni ruga che passa
per ritrovare
un sorriso lontano,
un verso, un
cenno o forse solo un ghigno.
Se infilo gli
occhi tra gli squarci bui
più non vi
trovo quello che cercavo
solo i
rottami del mio tempio sacro.
Fermate il
passo, non osate entrare!
non profanate
i cocci moribondi,
altro non
chiedono che tornare in vita.
Quando la
polvere si sarà dissolta
io vestirò la
tunica di Giobbe
e i cocci
torneranno a palpitare.
Iniziare,
ora, il tragitto esegetico da questa poesia testuale significa andare a fondo
fin da subito nelle pluralità ontologiche della ricerca verbale e spirituale di
Margherita Celestino. Un mondo polisemico e polivalente quello della
Poetessa, che tocca punte di alta liricità, dove l’umano vivere, con tutta la
sua irrequietezza esistenziale, si affaccia alla pagina con la voglia di
rinascere e farsi poièin; precarietà della vita, illusioni, delusioni,
speranze, amore, saudade, memoriale sono i tanti ingredienti di un canto di estrema
fluidità narrativa; di acchiappante energia sonora; di eufonica incursione
ritmica. Sì, la memoria si fa alcova personale e privata; si fa tesoro da
custodire nei cassetti più sacri dell’esistere. E memoria per Ella significa
momento di raccoglimento, momento di rigenerazione; significa rivivere attimi
di sperdimento in un’isola dove riposare la mente e l’anima ma anche
ripescare il serbatoio a cui attingere per la freschezza della poesia. Ma
memoria significa anche tempo che fugge e che dà la dimensione di quanto la
vita passi improrogabilmente senza tenere di conto dei nostri sacri altari; di
quanto la morte ci corra addosso giorno per giorno: “Corre, sospeso, tra
l’immenso e il mondo/l’uomo, avvilito, come canna al vento,/ rincorre mete che
lo fan brillare/sopra sentieri d’insulso domani./Ramingo e immenso senza una
speranza/ superbo l’io oscura ogni cammino/un vuoto immane spazia nella mente,/
detta il decalogo della sua esistenza:…”. Nonostante che la Poetessa sia
cosciente della futilità del tempo e della brevità dell’esserci affida i suoi
cocci ai versi perché la vita torni a palpitare. C’è questa intenzione umana e
sovrumana nella silloge: affidare una storia al canto quasi per
perpetrarne la sacralità; per tramandare ai posteri un patema esistenziale che
non può essere legato al dove e al quando ma che, sbrigliato dal tempo, abbia
la consistenza di vincerlo col patrimonio dell’arte in cerca della luce. Ella
sa che la vita è un’esperienza unica e inconfondibile, e per questo unire il
presente al passato per donarlo al futuro resta un leitmotiv che
s’insinua nel processo musicale di uno spartito che fa dell’endecasillabo la
voce preminente del verseggiare. Ma sa anche che la vita è fatta di privazioni
e sottrazioni, di esperienze non sempre positive, di ingiustizie sociali, che
si mutano in ricordi dolorosi: “Scavo dentro ogni ruga che passa/ per
ritrovare un sorriso lontano,/ un verso, un cenno o forse solo un ghigno./ Se
infilo gli occhi tra gli squarci bui/ più non vi trovo quello che
cercavo/ solo i rottami del mio tempio sacro./ Fermate il passo, non
osate entrare!...”. Questo è il parenetico input “non osate entrare”. Ci sono
storie di delusioni e smarcamenti, di sogni irrealizzati, di promesse non
mantenute, di gioie mancate, di vicende anche dolorose, che l’Autrice tiene per
sé nella cella inviolabile di un tempio sacro dove nessuno deve
entrare. E. A. Poe (1809-1840), pubblicate le sue Poesie nel
1831, nel saggio postumo Il principio poetico definisce la
poesia “creazione ritmica della bellezza”, convinto che “il sentimento poetico
si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché nella musica, forse,
l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il quale, se ispirata da
un sentimento poetico, essa lotta… per raggiungere la creazione della Bellezza
Suprema…”. E tutto ciò possiamo riscontrare nella plaquette: una sinestetica
armonia che dà il meglio di sé in una semplicità comunicativa di urgente
impatto emotivo; quella semplicità verbale e formale che un artista raggiunge
dopo anni di sperimentazioni e di rielaborazioni dacché si accorge che la
poesia è lavoro, lavoro, lavoro, unito ad una forza creativa da trasmettere
agli altri; a chi può intendere un messaggio arrivante e conturbante nella sua
totalità. Fenollosa Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte
del tempo”; e Alfredo Panzini definsce i poeti “simili al faro del mare”.
Perché queste citazioni? Perché è umano, fortemente umano cercare di
sbrigliarsi da questa terrenità, da tutte le aporie del quotidiano per allungare
lo sguardo verso territori da scoprire; verso orizzonti che segnano i limiti
del nostro essere ed esistere. Da qui il mare con la sua vastità e un faro che
ne illumina una esigua parte. Quale simbolo più idoneo a rappresentare la
miseria della nostra esistenza tra rien e tout come afferma Pascal? Forse è la
speranza a dare forza all’uomo; a dare quell’energia idonea ad attraversare le
colonne del sapere e dell’amore: “… una brezza leggera,
fischiettando,/monta la scena con un mulinello,/ sfratta le nubi e, con
un sole amico,/ ridipinge l’universo di speranza…”. Le nubi se ne vanno e
il sole della vita torna a risplendere con raggi di luce. Una simbologia
accattivante, una metaforicità panica in cui gli ambiti naturali si fanno corpo
di un’anima tutta volta a ritrovare i suoi abbrivi. Una ricerca attenta e
spontanea in cui la Celestino assegna al verso il compito di concretizzare un
mondo di fughe e ritorni, di giochi sentimentali e meditativi di valenza
lirica, dove, spesso, ci invita a non disperare “…Non disperare,
anima raminga,/strappata al mondo da uno scellerato,/ scuoti i calzari
alla dipartita/ o porterai il fango oltre la vita./ Dimentica la scena
del massacro/ non ti voltare verso l’empietà,/ fra poco il
Sole caldo arriverà,/ e ti ripagherà dal tristo inverno”, a volgere lo sguardo
verso una luce che non mancherà di ripagarci dei rigori invernali: ricorrere
alle stagioni per dare concretezza al senso della vita è uno stratagemma
stilistico di cui si avvale spesso. D’altronde la vita si gioca tutta su
un equilibrio precario e provvisorio ma quello che conta è avere la coscienza
di esser-ci per amare il mondo: “… Un soffio lieve/vela
diafano cristallo,/ nello stesso riflesso/ nasce e muore./ In
bilico precario/ tra il mio ieri e l’oggi/ capire non mi è dato,/ ma questo non
m’importa/ perché io ancora sono,/ e ancora vivo/ per amare il mondo”.
Qui il verso si fa più stretto, più raccolto, più breve, forse perché si sente
il bisogno di dare più valenza apodittica ad un pensiero di vita e di morte; di
etica filosofica e cognitiva, cosciente la Nostra del dubbio e dei perché
irrisolti e irrisolvibili: non sappiamo quello che siamo, non conosciamo il
nostro destino e non abbiamo il potere di risolvere i tanti quesiti che ci
assillano. L’opera si chiude con una bella lirica in dialetto calabrese dove la
Poetessa scopre una verità che da tempo va cercando; d’altronde l’uomo è sempre
alla ricerca di un perché che lo inquieta; di un porto a cui attraccare
con la speranza che sia l’accesso all’isola felice; ma il fatto sta che si
accorge che l’unica verità è proprio il luogo che ha lasciato alla sua
partenza; ed è fra questa gente che l’Autrice ritrova la sua serenità; al suo
paese; ma anche la gioia di essere triste, come afferma Hugo; la solitudine
tra tanta gente: Ora che non stai più in un fazzoletto/ ormai sei
sordo pure se ti canto/ e pur tra tanta gente sono sola.”:
(…)
La mamma mia,
non me la toccare
ora che sta
come Cristo in croce!
parla e non
sa quello che dice
ma con la
bocca sta sempre a lodare.
I
tempi di una volta stan
passando
le
famiglie si son sparpagliate.
gli
amici si son fatti tutti grandi
chi è partito
e chi è sotterrato.
Il cuore
piange lacrime angosciate
io ti ho
innaffiato con sospiri e pianto,
perché mio
fiore ora sei seccato?
Ora che non
stai più in un fazzoletto
ormai sei
sordo pure se ti canto
e pur tra
tanta gente sono sola. (Il mio
paese)
Nazario Pardini
DAL
TESTO
A te lo offro in
dono
Ovattato
silenzio in chiaroscuro,
deboli
battiti in attesa del sole,
una carezza
lontana è una promessa;
poi lo schianto, il silenzio e la paura,
le tenebre
scendono come a notte fonda,
la nenia
dolce ora è un urlo infranto,
il
sorriso di madre si fa pianto:
inerme, un
fiore, ha conosciuto il mondo e se n’è andato,
lieve come la
piuma il suo volare
greve il
tormento racchiuso dentro il cuore.
Poi il
pianto, nei giorni si fa canto,
e il canto
sale come una preghiera:
a Te lo offro
in dono o mio Signore,
curalo con le
note del tuo amore,
tienilo
stretto che più non vacilli,
per me che
sono sangue del suo sangue,
fa che
spunti luce nuova all’orizzonte,
donami la
speranza per calmare
un dì con un
vagito questa ambascia.
Autunno
Scheletri
imploranti,
piangono, nel
bosco foglie gialle,
la pioggia
scroscia e sferza i poverelli
incoraggiando
il pianto delle nubi,
una brezza
leggera, fischiettando,
monta la
scena con un mulinello,
sfratta le
nubi e, con un sole amico,
ridipinge
l’universo di speranza.
Camminerò
(1° classificata
alla VI edizione del Premio Letterario Capannese
“Renato
Fucini”ottobre 2010)
Camminerò
nel respiro
più intimo del mondo,
mi aggrapperò
ad ogni
lacrima di bimbo
per dare un
urto
alle
coscienze addormentate,
piangerò
quando per
tutti sarà festa
e loderò il
Fattore
se nelle pene
umane
saprò capire
quando
può giovare la pietà.
Canna al vento
Corre,
sospeso, tra l’immenso e il mondo
l’uomo,
avvilito, come canna al vento,
rincorre mete
che lo fan brillare
sopra
sentieri d’insulso domani.
Ramingo e
immenso senza una speranza
superbo l’io
oscura ogni cammino.
Un vuoto
immane spazia nella mente,
detta il
decalogo della sua esistenza:
violenza,
invidia, odio e vanità.
E
corre il passo a ricercare allori,
vacilla
ignaro sulle foglie morte
di una fosca
stagione di menzogne.
corre e non
vede l’ombra dei cipressi,
né ode il
cupo gemito del vento.
Non mi
tentare corsa iniqua e buia
per ottenere
ciò che non so dare!
Voglio
cambiare la rotta mendace
voglio
seguire sentieri di pace,
urlare
ai sordi con versi suadenti
fermare il
passo che guida all’occaso.
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