Parole
non dette
Quanti
di noi non hanno fatto a tempo
a dire al padre, alla madre o al fratello
frasi
rimaste dentro, non uscite:
“Ti
voglio bene, scusami, perdono….
Andiamo
insieme oggi a passeggiare.
Quella
via che un giorno ci portò
alle
mura di una casa stretta
è
sempre là che aspetta il nostro sguardo.
Andiamo,
andiamo, padre, ne ho bisogno…”.
Torneranno
improvvise quelle frasi
prima
che il sonno giunga; e come un’eco
rimbomberanno
da una stanza all’altra,
per
non darti riposo: proveranno
a
ritrovare il volto di chi c’era
per
giungere alla fine nell’alcova.
Costruiranno
scale per toccare
sguardi
rimasti in ansia ad aspettare
parole
non finite, scolorite
che
girano ancora in mezzo alle intemperie
senza
trovare il posto; senza posa.
E noi
gridiamo al vuoto il nostro male,
lo
spleenetico ingombro che ci assale.
È
inutile gridare! O sperare
nei
sogni per poterci riprovare.
Facciamolo
da vivi, quando loro
ti
guardano con ansia nell’attesa
di un
qualcosa che tu e solo tu
potrai
donare. Tornassero in vita
quei
padri, quelle madri o quei fratelli
che
cosa pagheresti! O non faresti
per
poterti liberare del fagotto
che non
ti fa dormire.
“Volesse
il cielo che…”, se l’hai presenti
fissali
intensamente, dagli il cuore,
parlagli
di tutto; non lasciare
che
quelle tre parole non uscite
restino
senza tempo, a navigare
perdutamente
in mezzo a un grande mare
sperdute,
spaesate, sbatacchiate
dai
venti e dai salmastri; e impaurite
senza
mittente senza compagnia
tornino
a casa stanche a farti male.
16/03/2018
Lirica scritta e proveniente dalle parole del cuore. E da una analoga sorgente provo a esprimere le mie, come con acqua trasparente, non ombreggiata ancora dall’ombra di una stessa fronda: la sapienza di un vissuto, nel salmastro della vita. Ma non a tutti, il lento scorrere degli anni e della vita, regala analoga purezza. Sono certo di aver avuto, io, la voglia, la gioia, la gratitudine di essermi immerso nell’agrodolce di questo fiume, nella saggezza di un consiglio. Perché si tratta di questo, e prima ancora di una lirica, la meraviglia di parole. A che serve scrivere, scrivere poesia, se non ci si regala come un calice agli altri, senza presunzione, voglia di traboccare, ma solo, umile, voglia di dissetare. Sono certo di aver avuto, io, un bel sorso da mandare giù, in un momento di acalasia, o emozionale disfagia. Io, che ancora faccio parte di una schiera fortunata: sono tra quelli che può “fissare intensamente” avendoli presenti, distanti ma davanti agli occhi, quelli che, io, e tanti altri ancora, mettiamo dietro, dietro alle spalle, come se fossero ritratti, incorniciati nelle mura di una casa stretta. Grazie Professore. Emanuele Aloisi.
RispondiEliminaVolesse il cielo, oggi diciamo… ma nulla si può fare. Oppure no, si può si deve, si impone la necessità di dire a chi viene dopo quello che per altri è rimasto nel silenzio, perché quel silenzio non sia rimprovero implicito nei versi di chi scriverà poesie dopo di noi…
RispondiEliminaClaudio Fiorentini
Grazie Nazario di questo poetico promemoria...un esempio lampante della universalità dei tuoi versi. Una luce nelle tenebre dell'incomunicabilita' per risvegliare i sentimenti diretti ma in che modo artistico lo dici!
RispondiEliminaGiusy Frisina