Domenico Pisana |
IL CANTO DELL’EMIGRANTE:
IMPEGNO ETICO-CIVILE NELLA POESIA
DEL PROFESSOR DOMENICO PISANA
Risulta rilevante, per il discorso
comune della poesia contemporanea imbevuta di impegno civile, parlare dell’opera pubblicata dal noto poeta,
scrittore e saggista siciliano il professor Domenico Pisana che nel 2014 ha
dato alle stampe, per i tipi di Europa Edizioni di Roma, il volume dal titolo
chiarificatorio Tra naufragio e speranza.
I motivi cardine che hanno ispirato un’opera di questo tipo e i paradigmi lungo
i quali si sviscerano forme e contenuti sono da leggere con le lenti di quell’indignazione illuminata che nella
società d’oggi, pur diffusa, spesso finisce per mostrarsi vulnerabile nel j’accuse e nel lancio di messaggi poco chiari.
Pisana, al contrario, con la sua opera di evidente impegno civile e di
scoramento particolarmente sentito dinanzi alle aberrazioni e indifferenze
diffuse che dominano nella nostra età storica, si discosta nettamente dal
pressapochismo recriminatorio e poi falsamente indulgente, alla mera cronica
documentaristica di ciò che accade, vale a dire il suo messaggio ha
intendimenti più alti e raggiunge il suo scopo mediante l’adozione di una
poetica che subito si percepisce come amica, solidale, prettamente umana,
finanche consolatrice.
L’opera si dispiega attraverso un
percorso oculatamente predisposto dal Nostro che vede susseguirsi liriche di
diversa lunghezza, dove anche la disposizione grafica dei versi risulta
rilevante e degna di attenzione, appositamente accorpate in tre sotto-sillogi
che hanno rispettivamente i titoli di “Ed ora, la notte”, “Verso l’aurora” e
“Sognando la speranza”. La titolazione della tripartita silloge ben introduce
alla simbologia dominante all’interno del lavoro che fa riferimento a momenti
di luce, crepuscolo, bagliore difficile da cogliere, foschia, ombra e vera e
propria tenebra. Il poeta modicano, che ha all’attivo un’amplissima produzione
saggistica in fatto di Teologia (ambito per il quale ha ottenuto lauree,
riconoscimenti e tenuto corsi su vari argomenti) è con viva probabilità
affascinato a quella dimensione antipodale e scissoria della luce e dell’ombra,
metafora di conoscenza e barbarie, di giustizia e inciviltà, di bene e di male,
di cui il nostro testo sacro per eccellenza, in numerosi punti, dà
testimonianza nei vari racconti biblici.
Il punto di partenza nell’indagine
etico-sociale di Pisana, che poi è resa mediante la scelta prelibata di forme
espressive, perifrasi, versi e costruzioni semantiche di particolare presa sul
lettore, è la nostra realtà abitativa, il contesto odierno dell’oggi dove
l’uomo soffre la sua vulnerabilità e vive in una condizione privativa del Bene,
sempre in una sorta di sospensione che ne svilisce la sua vera natura. In
questa trattazione Pisana esordisce parlando di una “realtà sensibile” (25) che è appunto quella data dall’universo
empirico che spesso sembra apparir falsata da ciò che, nel privato, nel
personale e nell’universo del concreto, si sperimenta.
I mali del secolo sono intravisti in
varie manifestazioni attitudinali dell’uomo percepito sempre più distante dalla
riflessione, dalla comprensione degli altri e dalla confessione, e improntato
con sempre maggior foga all’esaudimento di sé e alla magniloquenza di tutti i
meccanismi che abbiano come fine un profitto personale o la conservazione di
uno stato d’agio e rilassatezza. Di base si ravvisa l’impronta di un uomo che
sembra perdere i connotati della corporeità carnale per attribuirsi esso
stesso, in un’azione di vanteria e saccente superomismo, caratteri che gli sono
estranei, fronteggiando, quando non proprio scalzando vilmente, la dimensione
superiore che tutto assiste. Il poeta ragusano parla di “folle corsa/ per uccidere Dio e impadronir[si] del cosmo” (25): si
tratta di una prima forma di minaccia verso l’entità celeste che intuitivamente
è abbassata nella sua aurea di grandezza.
Come si vedrà il lavoro di Pisana può
essere configurato sul crinale di una catabasi
(caduta[1], discesa) dell’uomo
richiamata appunto nell’abbruttimento della condizione di umanità e nel
fenomeno migratorio nel quale ben assistiamo alla degenerazione morale
dell’uomo, alla quale fa seguito un’imprecisata anabasi, auspicabile e molto ben godibile per come ci viene
presentata, nella filigrana della parola-cardine della speranza. Non c’è, in
effetti, una vera e propria risalita dalla barbarie e dalle tenebre nelle quali
si è sprofondato, Pisana non intravede un uomo nuovo che, messe da parte le
recalcitranti smanie egoiche e di sprezzo verso l’altro, ritrova una sua
dimensione ideale ma fa intervenire, come una musa bianca, una presenza alata,
la speranza. Essa, se non è il segno decisivo di un’età nuova caratterizzata
dalla positività è una sorta di ingrediente d’apertura che, se ben amalgamato
alle condizioni sociali, potrà dare i suoi positivi risvolti. L’ascesa, il
rinsavimento morale e la rivincita dell’intera umanità potrà, allora, avvenire
dando fede alla volontà di cambiare e nel credere che, con l’impegno, la forza
di volontà, la ragione e l’umana compassione, si possano ristabilire condizioni
favorevoli, o per lo meno accettabili, nel processo comunicativo tra strati
sociali, governi, fornendo una traduzione consona ai mali che allontani
iniquità, pregiudizi ed ostacoli forme di violenza e recriminazione.
Elemento di transizione tra questi due
stadi è rappresentato dalla materialità fluida, flessuosa e spasmodica dell’acqua: gran parte delle liriche fanno
riferimento alla tragica costumanza dei naufragi nelle acque del Mediterraneo.
Realtà, questa, non nuova se si pensa a quanto, in altri tempi e contesti
geo-politici, avveniva negli anni ’90 con le orde di profughi balcanici che
solcavano l’Adriatico alla folle ricerca di un luogo dove vivere, lontani da
conflitti bellici. La traumatica esperienza dell’immigrazione mediante la rotta
di direzione centro-Europea è stata, negli ultimi anni, motivo di grande
interesse anche da parte dei poeti (cito la silloge Gazzella di Fabio Grimaldi) ed è clamoroso come una tematica così
preponderante nel nostro oggi, che attanaglia le nostre coscienze, non potesse non
interessare il professore modicano. L’acqua diviene una sorta di indefinibile
luogo-non luogo, entità di mezzo funzionale per raggiungere uno scopo ed è essa
stessa il compimento di un rito di passaggio che non per tutti ha esito
positivo. Metaforicamente Pisana collega quell’acqua fisica, che è strada
fluttuante e perigliosa di imbarcazioni che vengono dall’Africa, alla
corruzione dell’uomo europeo che, in termini pratici, sembra inetto o
indifferente ad accogliere lo stato di calamità continua: “nell’acqua della menzogna,/ l’arroganza dell’onda ha travolto
l’arroganza della mente” (26). In queste poesie Pisana passa a raccontare
con un tono platealmente commosso e disturbato (“Soffre la mia anima”, 33) le vicende tristi di uomini e donne senza
nome, di macchie d’esistenze che si perdono e si stingono in un mare che
diviene tagliola (mangia), idrovora (risucchia) e camposanto (dà sepoltura tra
gli abissi). Sono le vicende di “vite
macchiate di sangue” (27) i cui capostipiti della tragedia non sono i vili
traghettatori che si arricchiscono elargendo minacce, botte, sfruttando e
violentando le donne, bensì le schiere più alte di chi gestisce il potere a
vari livelli, i “padroni del presente e
del domani” (27), viva è la convinzione che “siamo figli traditi dai misteri del potere” (85).
I moniti di Pisana sono resi in maniera
sibillina, senza nessuna altisonanza o forma retorica, con un linguaggio pacato
che è emblema di un’insoddisfazione permanente dinanzi a quel desiderio mai raggiunto
di “struggente aria di libertà” (29).
Se Pisana è un uomo di fede è anche credente nelle forme dell’intelletto umano
ed è per questo motivo che spesso richiama la ragione quale elemento assopito o negato nella società odierna al
quale bisogna ritornare ad ascoltare in maniera sincera e rigorosa: la speranza
del cambiamento, di cui Pisana parlerà abbondantemente nell’ultima sezione del
libro, è così sentita e alimentata proprio grazie alla grande fiducia e
rispetto che riconosce nei confronti della razionalità dell’uomo, capace in
passato di tante invenzioni e grandezze ma anche di scelleratezze e abomini dai
quali è sempre doveroso prendere le distanze. Ma la ragione non va neppure
strumentalizzata ad uso e consumo, ecco perché Pisana sostiene la necessità che
“la ragione abbass[i] le armi” (26)
e, in un’altra poesia così scrive: “Ora è
tempo di ritrovare/ il limite dei lumi invasi dall’assoluto/ e di lasciare alle
spalle/ racconti di violenza ove la follia/ ha regnato per lungo tempo come
angelo di luce” (27). La ragione non è che non ci sia, ma è stata lesa (“La ragione s’è frantumata lentamente”,
33) e soppiantata in forma completa da qualcos’altro, da una pazzia ossessiva,
ma è in qualche modo offuscata, adombrata dai meccanismi del sistema: “La ragione è sempre uguale a se stessa,/ le
ore vivono lembi di tristezza travestiti di luce” (28).
In questa sorta di perdita della giusta
strada, di ottundimento, nascono i rovelli esistenziali, le domande tribolate,
i quesiti insostenibili, le aporie, le ingiunzioni di una consecutio, vengono a mancare i procedimenti logici, comunicativi e
pratici per fornire una chiave di risposta alle problematiche. Il poeta si
mostra particolarmente teso (riferisce del suo “senso smarrito”, 53) dinanzi
a questo sistema dove le ridda di voci, le ideologie frammiste alle convinzioni
dettate da spregevoli tabù fanno da padroni, richiamando la necessità di
un’elaborazione mentale e attuativa delle forme di criticità: “distesi le mie ansie di risposte” (29).
L’impegno di Pisana è totale: un uomo che ha a cuore il benessere del mondo non
può esimersi dal porsi domande. Se
sarà difficile fornire risposte, sarà obbligatorio, invece, porsi quesiti, un
po’ alla maniera di cui Wittgenstein sosteneva. L’esigenza della domanda nasce
da una volontà di ampliamento della comprensione: “Nella penombra d’un mondo nuovo/ un ingenuo poeta credeva lottando”
(29) come pure nel tentativo di costruire coesione attorno a una posizione in
termini di vicinanza sociale, compattamento, elargizione a chi detiene il
potere di esigenze condivise, nutrite, impellenti e alle quali far fronte in
termini utili e congrui. Il poeta diviene allora combattente e, in quanto tale, prode sostenitore delle sue credenze difese con caparbietà: “Coscienza e libertà/ mi spingevano a
reagire:/ con coraggio” (30).
Non è lecito né moralmente corretto
assurgere al ruolo di pavido spettatore, di voyeur incallito, di osservatore
della tragedia mentre questa deflagra, prende forma, deborda e si diffonde
spaventosamente. Pisana mostra quanto sia oculato e lungimirante per il poeta
che ha assunto a sua dimensione etica l’impegno civile e altruistico
abbandonare la posizione di margine, di negletto, di colui che vede non visto
dietro la tendina della finestra, perché tutto ciò sarebbe conforme
all’adozione di una bieca connivenza alle storture e al male. Forme di rivolta
silenti e appartate non hanno mai avuto risvolti significativi ed è per questo motivo che non è consentito di
edulcorare ciò che di grave persiste e accade né negare che non esista il
marcio; Pisana si erge distintamente contro quell’attitudine di molti che,
dinanzi alla tragedia, intuita, in corso o prossima allo svolgimento, è semplicemente
un “essere a riva spettatore” (33).
Da qui nasce il grido interiore dell’uomo di denunciare non solo gli
accadimenti più truci ma anche gli atteggiamenti di chi, comodo sulla poltrona
di casa, vive pensando alla propria unica sorte come se i fratelli annegati o
malmenati in altre parti del globo non sia un pensiero che lo riguardi. “Viviamo stagioni di solitudini” (39),
rincalza Pisana nel fedele tracciato di un identikit umano assai amaro e
deludente, pessimo e vigliacco per la sua “indifferenza
vestita di noia” (39).
Il professore pone la giusta attenzione
su due degli aspetti dominanti in questa “furia
postmoderna dell’acqua assassina” (33) che riguardano la vecchia Europa,
megera che osserva e parla, poi si vede bene di allungare la propria mano: la
solitudine e il silenzio. Entrambi connotati in maniera negativa quali forme di
negazione, di allontanamento dalla società, di recrudescenza dell’indifferenza
verso l’altro. Così scrive in una lirica molto potente: “La melodia dell’arpa che squarcia il silenzio ingiusto:/ non reggo alle
parole che dicono il falso,/ alla bilancia doppia che giudica i morti”
(42). Il suo impegno morale, che non è
semplice coinvolgimento con la materia trattata e reale empatia, ma che affonda
nell’esigenza umana di cristiano di lavorare per il bene della comunità
alleviando le pene di ciascuno, si rintraccia adeguatamente in alcuni versi nei
quali confida le sue tribolazioni affidandole al verbo: “rimango flebile voce di lamento/ chiusa oltre il silenzio della parola”
(55); “e davanti alla cronaca di giorni
difficili/ invoco la Parola/ che fa sperare contro ogni speranza” (74).
Seguendo questa linea interpretativa
che è il focus concettuale dell’intero libro comprendiamo anche alcune
costruzioni che delineano bene l’intero contesto: ci sono “lacrime
prive di pianto” (44) a testimoniare la mendacità di un dolore che è di
carta, fatto di facile pietismo e nutrito di niente; c’è anche un “labirinto di stagnati amicizie” (46)
dove la stagnazione è data da una
fissità incongruente al bene collettivo, una stasi che sa di lascito a se
stessi ma richiama anche “l’acqua stagnante”, quella di una qualsiasi
pozzanghera dove il liquido contenuto marcisce sotto il sole, vede la nascita
di microrganismi, larve e produce una vita malata, infettante. Il prodotto di
tanto imbarbarimento ed egoismo è ben tracciato in alcuni versi da Pisana: “L’assenza dell’altro ci rende fiumi
sonnolenti/ la chiusura una spelonca di requiem” (93).
Le tinte che Pisana attribuisce a
questo “naufragio sociale” (76) sono
numerose e vanno indagando le perplessità di uomo saldo nella ragione e
timoroso dinanzi all’imperversare della tragedia, sbiadita replica di se
stessa, con immancabili recidive spesso peggiori degli affondi precedenti che
rendono “questa vita così cieca”
(93). Una storia amara, quella contemporanea, contrassegnata da imbarcazioni
affondate, migranti deceduti e dispersi, conte veloci e impossibili delle
perdite, bambini salpati dalle proprie terre e divenuti orfani durante la
traversata; “La vita scorre in ipotesi oscure” (79), scrive Pisana.
Il mare non mangia solo corpi e
certezze ma fa annegare anche diritti, desideri, volontà degradando la natura
dell’uomo: “Il mare in tempesta ha
vomitato i resti/ di pochi valori usciti indenni dalle acque” (36) scrive,
aggiungendo “le onde hanno spazzato la
fragilità dell’essere” (41). Ed è così, in questo percorso concentrico dove
vita e morte si danno il testimone di continuo correndo una staffetta macabra,
che Pisana sottolinea l’importanza del saper “vedere oltre”, vale a dire di
figurare, intuire e anelare a un dopo migliore del presente pregno di
disperazione e annichilimento.
L’ultima sezione affronta il tema della
speranza, concetto astratto che il professore rende palpabile, tanto da
percepirne le possibili trame, che vanno ricercate, rinsaldate opportunamente
per costruire un ordito solido: “Siamo
qui a sperare la speranza” (76) scrive in una delle ultime liriche che
compongono il volume. Ed è in questa espressione dalla foggia tautologica che
ben recepiamo al meglio l’afflato vitalistico del poeta e con esso
l’insegnamento cristologico. Tutto ci parla di un mondo futuribile che non è
utopia, ma che va cercato e costruito con l’impegno arguto e sincero di tutti: “Vorrei
tornare a cantare/ parole ricamate di speranza” (76) ed è a tarda sera,
quando la frenesia della città s’allenta, che tali pensieri fioriscono sorgivi:
“La speranza resiste alle molestie della
notte” (87). La trasvolata che Pisana compie scandagliando l’animo umano in
questi tempi di crisi di coscienza in cui divampano focolai di xenofobia e
avanzano marce populiste, è così fulgente per mezzo di un apporto visivo,
iconico, panoramico, a lunghezza d’onda e ad in gradimento che ci consente di
avvicinarci al problema, leggerlo e approfondirlo a trecentosessanta gradi,
visionandolo secondo varie sfaccettature; questo accade perché, come lo stesso
osserva lucidamente: “guardo da lontano
mentre osservo da vicino” (36). La traiettoria di questa vista è a lungo
raggio eppure penetra con esattezza e grande dignità nel nerbo costitutivo
della problematica etico-sociale di fondo. Oltrepassare la nudità di un tempo inclemente è possibile, scantonando la
depressione e l’indifferenza nelle quali si è piombati, per intravedere un
oltre da creare quale basamento di un domani meno fosco e più promettente: “I miei occhi osservano il pianto dei
naufraghi, cercano nuovi mondi di certezze/ chiedono dov’è la dea ragione”
(26).
Lorenzo
Spurio
Jesi, 04-08-2018
[1] L’idea di una vera e propria caduta è permessa anche da
alcuni versi dello stesso Pisana che ben descrivono la situazione nelle forme
dell’impoverimento e della derelizione dell’umanità: “siamo caduti nel vuoto rivo di luce” (25).
Nessun commento:
Posta un commento