Marco dei Ferrari, collaboratore di Lèucade |
Tante cose. Oggetti che contengono memorie. Loquaci.
Disposti a raccontare storie; angoli donati all’amore, a ciò che pareva
eterno in una vita precaria e
passeggera. Tutto è labile, tutto è fuggitivo, tutto sembra prestato dalla
morte. Dum loquimur fugerit invita aetas. Che rimarrà di noi? È il pensiero che
tormenta l’uomo, quello più aggressivo, più esiziale; è di fronte alla morte e
all’idea d’infinito che l’uomo si sente a disagio. Fa di tutto per cambiare
sintonia, il per sempre lo distrugge. E ci si affida alla memoria, al canto,
alle dolci illusioni per cercare di ovviare alle aggressioni del tempo. C’è
sempre la speranza di prolungare una vicenda con i ritmi dell’Arte. “La memoria è tesoro
e custode di tutte le cose.”, affermava Cicerone; "Est Deus in nobis", diceva
Ovidio, “i poeti abitano in un loro mondo, in una repubblica delle lettere in
cui come scriveva il romantico Berchet tutti sono concittadini indistintamente.”.
Sì, il mondo dei poeti, degli artisti, che fanno della morte l’argomento
principe delle loro riflessioni. Ma nasce anche un dubbio doloroso, e
insolubile: a chi la nostra storia? Il sacrosanto patrimonio della nostra
vicenda? Non è possibile che tutto svanisca come neve al sole. E ci aggrappiamo
ad una delle tante religioni che costellano l’universo umano. E preghiamo quella
divinità non tanto per noi quanto per le persone che amiamo. Il fatto sta che
ci spingiamo oltre nel nostro credo, fino a pensare ad un mondo altro, fatto di
purezza e di beatitudine. L’uomo non ha
mai accettato passivamente l’idea del nulla. Dalla preistoria ai nostri
giorni dai graffiti rupestri fino alle opere più ricercate dell’arte moderna,
il dilemma del poi ha sempre generato l’insolubile interrogativo della vicenda
umana. Cosa resterà di noi? Rimarrà certamente quel forse che ci ha tormentati
per tutta la vita. Marco dei Ferrari,
col suo solito ricamo di neologismi, di quadri usciti da una realtà spietata,
ci spiattella, in un vassoio orlato di rifiniture oggettive, tutte quelle cose
che magari hanno più durata della nostra esistenza: forse resteranno a rievocare le impronte del nostro passaggio.
Ma atone, e senza memoria, aiuteranno soltanto l’oblio a distruggere persino il
manifesto mortuario che regge per poco alla pioggia e al sole: fogli parole scompigli, scaffali di scarpe mucide, letti
sfatti su tomi intonsi, muti cuscini di tempi loquaci, cimeli per madie e
fornelli, nobili discariche di piatti bicchieri, tronfi fetori umilmente
consunti? Forse pallidi scrittoi... Forse, forse, forse, echi difformi di fati
conformi? Forse àtono penzolo orologio per secoli vaganti? Forse...
e amen.
N. Pardini
CHE RIMARRA' DI NOI ?
Che rimarrà di noi?
fogli parole scompigli
nella polvere del cuore? Forse
scaffali di scarpe mucide
tra poltrone truciole
letti sfatti su tomi intonsi
muti cuscini di tempi loquaci? Forse
cimeli per madie e fornelli
nobili discariche di piatti bicchieri
tronfi fetori umilmente consunti? Forse
pallidi scrittoi stringersi crucciati
ex voto di ombre
raminghe? Forse
cupi silenzi... arenili deserti...
tracce in palazzi di bacheche coatte? Forse
giacche a brandelli cappotti giubbetti
cravatte orfane di grucce? Forse...
Che rimarrà di noi orme informi
echi difformi di fati conformi? Forse
àtono penzolo orologio
per secoli vaganti? Forse...
Marco dei Ferrari
La domanda “Che rimarrà di noi?”, -domanda eterna- che apre il dire di Marco dei Ferrari appare nella sua forma diretta, esplicita, non solo spiazzante, ma provocatoria. Una domanda che si preferisce generalmente non fare o sorvolare con apparente indifferenza. L’uomo medio non ha risposta, se non quella datagli dalle varie fedi.
RispondiEliminaInfatti nella successiva e disarmonica elencazione dei possibili “oggetti” cui trasferire la nostra attenzione argomentativa l’Autore ci sottopone a tutta l’impotenza della risposta.
Nella successione degli oggetti che incalzano spietati in un climax ironicamente ascendente riesce a rallentare l’ansia nella ricerca dilatata dell’appiglio? Crea ponti per arrivare a certezze? Chiarisce il geroglifico labirintico della nostra vita? porta a oasi di sopravvivenza nel deserto della nostra vita? No.
Gli oggetti che ci circondano e a cui ci affidiamo sono sempre tanti, ma poveri e deboli: “scaffali di scarpe mucide, letti sfatti, cimeli per madie e fornelli.. giacche a brandelli..orfani di grucce…echi difformi di fati conformi” e anche quelli che appaiono meno quotidiani e scontati “fogli parole scompigli/ nella polvere del cuore…ex voto di ombre raminghe”, sono gravati dall’angoscia del senso e dell’impotenza e dalla cupezza del silenzio.
L’immagine surreale e disperante dell’orologio penzolo sospeso nel tempo non dà certo consolazione.
Ci salva la poesia? L’Arte ci sottrae al disfacimento? Forse…
Il commento di presentazione di N. Pardini sembra negarlo: “…Oggetti che contengono memorie. Loquaci. Disposti a raccontare storie; angoli donati all’amore, a ciò che pareva eterno in una vita precaria e passeggera…..E ci si affida alla memoria, al canto, alle dolci illusioni per cercare di ovviare alle aggressioni del tempo. C’è sempre la speranza di prolungare una vicenda con i ritmi dell’Arte” . Una speranza più che una certezza.
La fiducia, la salvezza comunque è da riporre nell’Arte?
Gli oggetti. Le cose che diventano significativamente parole: un grande rapporto dialettico che implica riflessione filosofica e poetica, l’alternativa al nichilismo disperante.
Commenta N. Pardini: “L’uomo non ha mai accettato passivamente l’idea del nulla. Dalla preistoria ai nostri giorni dai graffiti rupestri fino alle opere più ricercate dell’arte moderna, il dilemma del poi ha sempre generato l’insolubile interrogativo della vicenda umana. Cosa resterà di noi? Rimarrà certamente quel forse che ci ha tormentati per tutta la vita.”
Il problema infinito del nichilismo. Io mi accontento di accettare quello che scriveva Leopardi: “Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni.”
Come sempre però rimane vero che la poesia ci può offrire lettura obliqua ma motivante, (almeno per me, piccola lettrice)…
Rileggo pertanto Czesław MiłoszMiloz che in Notizia, scriveva:
Della civiltà terrestre che diremo?
Che era un sistema di sfere colorate, di vetro affumicato,
Dove si avvolgeva e svolgeva il filo di liquidi luminescenti.
O un agglomerato di palazzi raggiformi
Svettanti da una cupola coi portali inchiavardati
Dietro cui camminava un orrore senza volto.
E che ogni giorno si gettavano i dadi, e a chi capitava un numero basso
Veniva condotto al sacrificio: vecchi, bambini, ragazzi e ragazze.
O forse diremo così: che abitavamo in un vello d’oro,
In una rete iridescente, nel bozzolo di una nuvoletta
Appeso al ramo d’un albero galattico.
E questa nostra rete era intessuta di segni:
Geroglifici per l’occhio e l’orecchio, anelli d’amore.
…O forse della civiltà terrestre non diremo nulla.
Perché cosa fosse non lo sa realmente nessuno.
AMEN.
Ringrazio la Prof. Maria Grazia Ferraris per la sua illuminante e profonda riflessione ricca di citazioni estremamente interessanti.
EliminaLa sua riflessione amplifica a dismisura orizzonti e dimensioni di un problema di cui l'essere umano è stato ostaggio dalla sua origine.
Marco
La domanda iniziale della poesia di Marco dei Ferrari è unìesca troppo invitante per Nazario Pardini che scrive di filosofia di etica e di cultura con la consueta passione. Tante sono le citazioni dotte in questo commento ( Ovidio..Cicerone..) a dimostrazione del grande impegno che il tema richiede..e il pezzo, di esemplare bravura, risulta di notevole interesse.
RispondiEliminaMa quanta tristezza in quelle riflessioni...e quanta amarezza nella considerazione della vicenda umana, che attraverso i suoi molteplici interrogativi non trova risposte al suo passaggio nel mondo..Desolante!
E' un niente, dunque,tutto il nostro correre , che alla fine risulta privo di ogni scopo dello stesso nostro esistere..Ma perché, allora, si continua a piantare la vite, perché e per chi si coltiva l'olivo?
Nazario, Poeta da par suo, anche dopo tanta filosofica dissertazione, sembra affidarsi ad uno spiraglio, ricorrendo a quel "forse" che ricalca la poesia di Marco, da cui è partito, per chiudere con un significativo AMEN.
Di altra natura sembra il dettato poetico di Marco dei Ferrari. Più realistico, più crudo nelle sue allusioni, forse persino più sofferto nella enumerazione nuda delle cose , che dopo l'uomo non hanno più alcun significato. Il Poeta estende il concetto di morte alle cose stesse.
Per lui sembra che tutto finisca con l'uomo, resta la domanda retorica iniziale..nessun riferimento ad un ipotetico "dopo", eccetto un semplice dubbio racchiuso in un avverbio ripetuto : quel "forse" enigmatico che fa anche un po' paura.
Edda Conte.
Questa lirica di Marco dobbiamo solo leggerla e meditarla: magari per farci (dum obdurat) più essenziali, leggeri e buoni. Non aggiungiamo una parola, non un commento, per non far finire in vana filosofia quotidiana dei massimi sistemi l’espressione accorata e vera di una sensibilità, quella di Marco, a cui tutti dobbiamo qualcosa.
RispondiEliminaGrazie”
P. Stefanini
Che cosa resta dopo la morte e che cosa c’è oltre la vita? Sono due interrogativi strettamente legati, che la filosofia si è posta da sempre chiedendosi: perché esistiamo? Dai versi di Marco dei Ferrari emerge quanto lo stesso poeta sia attanagliato da queste domande. In realtà si tratta di questioni in compagnia delle quali vivere può risultare pesante, tuttavia senza di esse la vita non avrebbe senso.
RispondiEliminaL’artista formula diverse ipotesi su ciò che saremmo costretti ad abbandonare alla fine della nostra esistenza. In effetti ciò che lasciamo dietro di noi rappresenta la nostra eredità ed è certamente più importante di quanto portiamo via da questo mondo.
Senza entrare nel merito delle congetture espresse in questi versi, è sufficiente una prima lettura per comprendere la profondità del sentire dell’autore, che spesso ci regala autentiche perle di riflessione sulla vita. Gli interrogativi posti dall’artista aprono a un ampio ventaglio di risposte, peraltro strettamente legate al soggettivo orientamento religioso e ideologico. Tuttavia, sebbene ponga la sua prima domanda in maniera diretta (e provocatoria?) già nel titolo della sua composizione, Marco dei Ferrari lascia aperti i suoi quesiti a qualsiasi possibilità, terminando con un intrigante “Forse...” che vale tanto quanto l’intera lirica.
Maria Fantacci