PROMETEO
di
Umberto
Cerio
Umberto Cerio, collaboratore di Lèucade |
L’inedito di
Umberto Cerio tratto da “IL POETA NON MUORE MAI” ha tutte le caratteristiche di
piccolo poema mitico- eroico, in versi di carattere lirico e narrativo dal
titolo
PROMETEO.
E’ scansionato
in 20 strofe libere, diversificate per numeri di versi, in una tematica di
grande attrattiva che, scegliendo come protagonista l’eroe mitico Prometeo, lo
rappresenta in un dualismo che lo spoglia della sua veste divina per farne un
eroe, accoratamente supplicato, a prendere forme umane per calarsi nella realtà
dei nostri giorni inquieti e liberare l’Umanità dal buio della coscienza e del
dolore a cui gli dei l’avevano e continuano a relegarla in forme di vendette
sempre nuove.
Il Poeta
avverte una forma di pericolo che sovrasta la vita sul nostro Pianeta e, in una
forma di supplica, si rivolge al suo Eroe, a “Colui che riflette primo”, amico
del genere umano e amico di sogni della sua giovinezza, rimasto per sempre nel
fondo del suo cuore come punto di forza, da richiamare spesso ad esempio da
emulare e al quale rivolgersi nei momenti di scoramento, di caduta di illusioni
e di speranze sfumate di una vita.
Umberto Cerio,
un Uomo concreto, con i suoi dubbi e le sue incertezze, le sofferenze e le
piccole gioie in momenti di incanto, di forte tempra nel suo modo di essere, di
rapportarsi e rispettare la vita in ogni forma, in un connubio armonico di
concretezza e spiritualità che lo portano, nei suoi silenzi, a valorizzarne molteplicità di
forme e di
significati; un Uomo
che vive e
combatte per la realizzazione di un mondo migliore che
sappia e voglia riposizionare soggetti al posto di oggetti, la visione di un io
collettivo al posto del culto dell’individuo che si impone in una forma di
smodata egoliatria che deifica i più
forti, oscurando i più deboli.
Il Nostro
Poeta, nel riproporre il mito di Prometeo, con il bisturi affilato della sua
sensibilità e in un parallelismo magistralmente in struttura tra passato e
presente, penetra la realtà, sorretto dalla speranza che il mito possa rivivere
nel nostro presente, per ricavarne significati e materia da sublimare
attraverso un transfert mentale che si rivesta di sensazioni, di sentimenti e
di emozioni. E chiama in causa la Poesia permettendo alla parola, nella sua
triplice significanza di ethos, legos e pathos di espandersi come patrimonio
d’anima per un incontro tra io e tu finalmente in empatia che si fa dono.
E’ un dono che
Egli vorrebbe per gli altri da sé, inclusiva di tutta l’Umanità che non riesce
a trovare il senso giusto della vita e vaga. E brancola nel buio. E cerca la
luce della sua essenza senza riuscire a trovarla in una forma che lo
rassicuri.
E implora
Prometeo, e si domanda dove è finito, Lui il difensore degli umani il Dio-Eroe
che, da sempre, indirizza le sue azioni a contrastare i capricci degli dei, che
ha osato sfidare perfino Giove rubandogli la scintilla del fuoco per farne dono
ad una umanità senza guide sicure per illuminarne il cammino, attivandoli in un
processo di crescita, di sviluppo, di progresso. Non più forza di sterile sopravvivenza, ma
nuova scintilla che indirizza l’uomo a liberalizzarsi da ogni forma di sopruso,
di strapotere su di lui, liberando il pensiero da ogni forma di schiavitù che
assoggetta e mira a mantenere in vita
false verità, aberranti ideologie, in
una forma di cieca insensata forma di ubbidienza del più debole al più forte che
si tramanda nei secoli e arresta segmenti di cammino della civiltà, in
rigurgiti di abominevoli ricorsi storici.
E nell’incipio
del suo Poema, Umberto Cerio si domanda dove è finito Prometeo, forse è ancora /rapito
da una morte disperata/ vagante tra
spazi stellari/ o negli inferi con un’aquila a divorarti il cuore senza la
possibilità di regalarci ancora il fuoco per aiutare il piccolo uomo triste che
/ e più non vede il seme che
germoglia /lungo il cammino scabro?/. Forse è ancora la supremazia degli dei che irreta con la sua vendetta e ride
dell’errore di Pandora che ha seminato
per superficialità ogni forma di dolore tra gli uomini, come metafora di tanti
uomini che nel nostro presente detengono poteri politici e religiosi che ancora attivano l’aquila malvagia per
corrodere coscienze e corrompere con i loro ricatti il seme dell’uomo per
strade invase dal sangue, da donne oltraggiate, “da morti non più in eterno
riposo” ma falciati da fuoco di piombo o scheletriti per fame e percosse dietro
fili spinati, senza nessun Chirone che,
come atto di amore, sacrifichi vita con vita.
E Umberto
Cerio, che era stato illuminato fin dalla sua adolescenza dal fuoco sacro di
Prometeo, precipitato nella sua anima in cerca del suo dolore, delle scarse
certezze perdute, violando con la sua forza emotiva le sue innocenze per il suo
fegato strappato dall’aquila malvagia, sente che le sue attese sono state vane
e che la sua “ roccia comincia a sgretolarsi in un vuoto oltre la memoria del
tempo” e che non è più possibile ribagnarsi nel suo fiume.
E ora, di fronte ad una Umanità che sanguina senza
speranza di eroici ritorni, non ha speranze di riprendere nelle mani il suo
senso della vita vera, che in un futuro prossimo gli faccia ritrovare le giuste
coordinate per “riposizionare la sua bussola impazzita” e ritrovare l’armonia della sua cetra cava.
Cade ogni speranza che il mito di Prometeo possa rivivere e, in una forma di
pessimismo estremo, il Poeta si rifugia nel sogno: incontrare Prometeo come
fratello /al passaggio di ritorno/ dell’ultima fredda astrale cometa/ per fondere
con il suo fuoco il ghiaccio delle notti
buie.
Ma in un cielo
lontano dalla terra.
Norma Malacrida
PROMETEO
Ed ora dove sei, mio Prometeo,
rapito
da una morte disperata,
vagante
tra spazi stellari
o
negli inferi di Ade maledetta
-un’altra
aquila a divorarti il cuore-
senza
poterci dare il fuoco
per
riscaldarci il corpo
e
stringere nel pugno
la
nostra vita prima della morte?
Dove
sei, Prometeo,
ora
che l’uomo è piccolo e triste
e
più non vede il seme
che
germoglia lungo il sentiero scabro?
Tra
pietra e pietra, sotto il sole
che
a picco a valle scende,
raccogli
le memorie di una vita.
Ed io non so, non so dov’è l’anima,
quale
viaggio prepara
-quale
roccia comincia a sgretolarsi-
e
quale orribile vuoto si appresta
oltre
la memoria del tempo.
Oltre
il breve fluire del mio fiume.
Dove si è smarrita la tua anima,
o
l’aquila fiera ancor non è morta
per
la freccia di Eracle
e
il martirio continua
oltre
gli oscuri abissi degli inferi?
Oltre
la carne di grassa giovenca
a
Zeus celi l’inganno del fuoco:
la
vendetta di Pandora per l’uomo,
lacci
di acciaio per te
del
Caucaso sulla roccia nemica.
O
è l’anello di acciaio e di roccia
che
ancora ti lega nel cuore
per
il feroce castigo di Zeus.
Non abbiamo serbato
ferola
dove nascondere il fuoco
né
altro dono per l’uomo venale
che
a lusinga fragile cede.
Scorie
e detriti e putridi residui
per
memoria lasciati
che
altro non danno se non ripugnanza.
Ora si è smarrita la tua anima,
il
destino d’uomo fatto immortale
dal
dono di Chirone,
e
l’aria si avvelena,
si
corrompe il seme dell’uomo
nella
terra contaminata
di
sangue marcito sulle sue strade.
Si
è persa l’anima della vita
negli
abissi profondi del dolore.
Non
torna al sole l’armonia del giorno.
Nessuno
più ruba il fuoco agli Dei
e
l’amore si è perso
trasformato
in lamento
nella
cenere di pire ormai spente.
La
morte non è più eterno riposo,
è
un gioco di fuoco e di piombo,
corpi
scomposti sulle strade
o
portati su barelle di corsa
verso
l’ignoto o folli cimiteri.
Nessun
Chirone dona
la
vita e l’immortalità.
Resta la memoria
del
rovo e del nero filo spinato,
di
corpi appesi che oscillano al vento
agli
atroci fili del telegrafo,
e
nessuno ci ridarà quei morti
con
le tenebre alla fine del tempo.
Dove consumi la tua immortalità
e
disperdi i tuoi doni,
la
tua arte di vate
che
ignora il giorno dei mortali,
perché
non torni umano
e
gli uomini non salvi dal diluvio
che
di nuovo ci investe
sulla
riva di questo fiume
che
scorie trascina e scorze di tronchi?
Mi sei precipitato nell’anima,
hai
scavato nelle molli viscere
in
cerca del mio dolore
e
tra le scarne certezze perdute
nell’aspro
cammino della mia infanzia.
Hai
sciolto nevi e remoti ghiacciai,
hai
sconvolto mari sereni in cuore,
le
ombre della sera, i geli delle notti,
hai
violato le mie innocenze
per
il tuo fegato strappato.
Ma
mi hai donato umanità profonda.
Donami una scintilla,
ancora,
ch’io possa scaldare il cuore
e
l’anima, la sete
per
la verità nascosta nel cavo
di
una pietra o nel volo di farfalla
in
lunga primavera;
donami
un respiro fatto immortale
dal
tuo dolore d’uomo,
un
anello forgiato col tuo fuoco,
l’immagine
del mondo
purificato
dal tuo fuoco sacro,
la
sacertà di una parola
che
non confonda più la nostra mente,
il
tuo amore per l’uomo
che
non ha meritato il tuo dolore.
E
donami certezze
mentre
risali in un Olimpo umano.
Ogni scintilla è un raggio di luce.
Un
pugno della tua sacra terra
non
è un pugno della mia terra.
Scagliato
verso il cielo
forse
un pugno della mia terra esplode
al
rombo di uragano
nella
mia anima inquieta
che
al ritmo di una clessidra impazzisce.
Ora il tuo fuoco smuove
flutto
d’aria e di mare
e
ragnatele buie di memorie:
un
lampo per un uomo,
mille
esplosioni per morti innocenti,
un
tuono immenso per un bambino,
una
tempesta per donne violate
con
stupido furore.
Anche
un sorriso azzurro
nel
delirio della luce sul mare,
il
nostro pugno di fragile terra
che
si cela nell’erba della notte
per
cancellare il disgusto del mondo.
Aquila in alto fra nuvole grigie,
-la
tua triste aquila!-
o
azzurro aquilone fuso in azzurro
cielo
col filo nella mano
che
pensieri trasmette
ed
in alto spinge come a futuro
di
inattesa tempesta
ancora
assale il tuo corpo inerme.
E
mi sento nel buio della notte
da
fragile fantasma attratto
-che
so non esistere-
e
cerco l’armonia di cetra cava
che
non ritrovo ancora
nel
tempo di una fine disperante.
E
che si può sognare
se
il mare in cuore si rovescia
con
detriti di un mondo
che
non riconosciamo come nostro
-la
bussola impazzita-
e
insieme abbiamo il buio nell’anima?
Così, sentiamo frantumate
speranze
di una vita
che
si farà più amara alla vigilia
dell’infinita
vanità
se
la tua ribellione è terminata.
Abbiamo il buio nell’anima
ma
nella mente la rivolta.
Ancora
lungo della clessidra è il corso
e
qui è la tua cetra
che
canta ancora il tuo destino d’uomo
che
si ribella a Zeus
e
all’uomo dona ancora il fuoco sacro.
Brucia di vana attesa
all’ombra
del tuo fuoco
l’ultima
terra del canto infinito.
Ancora
oggi, forse,
l’uomo
non merita il tuo dono
e
l’anima tua soffre
in
giro per lo spazio informe, vuoto,
nella
giostra dei vortici del cielo.
Perché non dirti, oggi, a me fratello,
pure
se secoli ci separano?
Verrò al passaggio di ritorno
dell’ultima
fredda astrale cometa
e
col tuo fuoco fonderò suo ghiaccio
delle
notti oscure
in
un cielo lontano dalla terra.
Umberto Cerio
Inedito,
da “IL POETA NON MUORE”
Mi pare opportuno qui ricordare che la Prof/ssa Norma Malacrida è colei che mi ha onorato di un suo pensiero critico, acuto ed incisivo, a due mie poesie: Contemporaneità ed Estro d'Autore qui postate non molto tempo fa. Rileggerla ancora su Leucade in un saggio critico profondo, esplicito e dotto su Prometeo di Umberto Cerio è per me motivo di orgoglio sia per Lei che per l'amico Umberto dei quali nutro da sempre stima ed ammirazione. L'autrice, ha sapientemente sviscerato ogni parola, ogni verso estrapolando il profondo significato del poemetto e ce lo porge cucinato a punto giusto come cibo dell'anima e del pensiero affinchè, in definitiva, ci si ravveda, ci si mette in guardia da questo andare -voluto-, verso la fallacità, la superficialità di oggi; terra fertile per essere manipolati a piacimento da identità nascoste e/o astratte (dei nascosti) che ne determinano il nostro vivere per i loro fini speculativi. Cercare quindi di tornare ad essere "soggetti e non più oggetti". Dire del poemetto lo trovo superfluo. Conosciamo tutti Umberto Cerio e la Sua bravura di poeta vero e di persona mite e silenziosa che lo rendono ammirevole e degno di copiosa stima. Pasqualino Cinnirella
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