Ugo
Piscopo: Crepititii Epilli. Oèdipus
Edizioni. Salerno. 2028
Ugo
Piscopo e la filosofia della forma
Ipertrofico,
eccessivo, abbondante, sovraccarico. Ma forse esiste una regola che detta i
confini della poesia? che deve essere in un modo invece che in un altro? O sarà
la Storia a passarla dal suo vaglio per darle lunga vita. No! Non ci sono
regole, a meno che non la si voglia distinguere dalla prosa. O non si tratti di poesia in metrica: in questo ultimo caso le regole da seguire sono
ben precise. Ma per quanto riguarda la poesia cosiddetta libera non ha alle
spalle dei canoni da seguire ed ognuno si abbandona alla sua potenza verbale e
alla sua creatività. Trattandosi qui di Ugo Piscopo, studioso della parola e
delle sue combinazioni, della novità formale, degli intrecci di stilemi a cui
affidare tutto il proprio pathos; trattandosi di chi gioca tutte le sue carte nel
tentativo di raggiungere forme che vadano oltre il senso normale del termine, il discorso si fa più complesso. Non si tratta
di certo di epigonismo o d’improvvisazione, di uno studio fine a se stesso per
Piscopo, lui, ricercatore del termine,
della complicanza dei nessi, della struttura architettonica del poema. Il suo è
un piano filologico di sonorità, maturato e affinatosi nel tempo.
L’uomo
è nato per scoprire e la ricerca è la barca su cui navigherà verso l’approdo di
un’isola che forse non c’è. Navigare, navigare, attraverso scogli e trabucchi,
tempeste e bonacce, cieli oscuri e luminosi; quel che conta è andare, non
importa se in possesso di bussola o strumenti; lasciare il porto e ambire
all’attracco di mondi lontani. Il fatto che tali mondi esistano o non esistano non conta; anzi tanto meglio se solo
nei nostri pensieri: una volta raggiungessimo una meta sarebbe la fine.
Verrebbe a mancare lo stimolo che ci fa umani: esseri inquieti in cerca di noi
stessi, di un appagamento impossibile. È questo stimolo che alimenta la
navigazione, che ci dà forza e input. Questo fa Piscopo, essere che si sperde
in un mare senza confini; sì, c’è un faro, è lì nel porto che noi sogniamo e
immaginiamo, ma un fascio di luce che illumina solo e soltanto una minima parte
dell’orizzonte marino. Il resto è buio, ombra, notte, mistero. E il Poeta è
sempre in cerca di barche più resistenti, più idonee a tanta navigazione. Potrà trovare anche scogli
ispidi e taglienti contro cui imbattersi. Ma ricupererà sempre un asse scampato
su cui aggrapparsi da vero nostoi per continuare ad allungare la vista verso
orizzonti nuovi che sono stampati nel
credo di un nocchiero. La barca non è altro che la forma, uno stilema che deve
contenere tanta energia. E tale sentire ha bisogno di ampliare il tiro, di
allungare le iuncturae, di estenderle oltre la sintassi canonica, dacché lo
chiede lo spirito, l’azzardo all’espansione. Il verbo si fa allusivo, di
pluralità ricognitiva, di plurale iperbolicità in questo andare quasi
narrativo; la parole è lì dove deve essere, toglierne una significherebbe la
caduta dell’intera costruzione. Ma non confondiamo il percorso del Nostro cogli
sperimentalismi prosastici tanto in voga e in netta contrapposizione con la
tradizione di endecasillabe sinestesie. No!
Qui tutto è nuovo, diverso, frutto di una storia guadagnata sul campo. La
storia di una vita alla ricerca di un
contenitore topico capace di tanta vis creativa, tanta estensione umana, tanta
verve comunicativa verso giuste
equivalenze morfosintattiche; architetture metriche ampie e articolate. Questo è
solamente un discorso umano, come fortemente umana è la
condizione sperimentale di Piscopo. Leggo in qua e in là scritti introduttivi
forbiti di storia e di cultura estraniante. Datemi retta: Piscopo ha bisogno di
sperimentare, di oltrepassare il limen delle colonne, la siepe che ci esclude;
lui vuol vedere oltre, oltre il senso dei limiti umani, perché è proprio
il più umano dei terreni. Forse Piscopo troverà nella parola i gradini giusti
per salire all’eccelso, lui che meglio ci rappresenta con la sua complessità
esistenziale e formale; con la sua
filosofia della forma.
Da:
Lettera a un lupo
Caro lupo,
ricordi il nostro paese, Serra, i dirupi, il
torrentaccio,
gli ipogei senza fondo delle dure invernate dai
denti aguzzi,
tutto quel mondo interamente suo, inchiodato su
lastre dei primordi?
Era il tuo regno, confinante a rischio col
cancello dell’orto
vigilato da mio nonno dal suo bunker con fucile
a doppia canna.
(...)
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