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mercoledì 6 febbraio 2019

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "SOUVENIR D'ITALIE" DI ANGELO MANCINI



Souvenir d'Italie, di Angelo Mancini

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade


Seguo Angelo Mancini si può dire da sempre. Conosco la sua poetica e credo di avere recensito tutte le sue opere. Eppure questo nuovo lavoro, Souvenir d'Italie, mi sorprende. La scia su cui naviga è quella di sempre, quella dello smarrimento esistenziale, ma ci sono delle novità su cui vale la pena soffermare l'attenzione. Qui si individua infatti, o meglio si chiarifica, la ragione sociologica del disagio interiore su cui da sempre è puntato lo sguardo dell'autore, cosicché il suo teatro dell'assurdo, di orizzonti comunque solipsistici, diviene satira civile e finanche virulenta invettiva. Il turbamento da sempre avvertito dall'autore di fronte a un mondo senz'anima, tutto preso dai feticci del quotidiano, qui si fa lucidamente critico additando connivenze e precise responsabilità di un simile stato. L'onirismo si carica di riflessioni sociologiche che in qualche modo distanziano questo dai precedenti lavori, facendo chiarezza sulle ragioni del conflitto interiore. In pratica, da selvaggina, l'autore si trasforma in cacciatore e niente sfugge alla sua mira.
La struttura, poematica, si compone di settantatre stanze dove il poeta alterna racconti autobiografici a episodi tratti dal tran tran quotidiano e dai costumi del tempo. All'inizio un prologo e alla fine un epilogo ambientano il vasto orizzonte e l'intero racconto poematico all'interno di una casa di cura, su un lettino di ospedale, dove il poeta giace in seguito a un intervento chirurgico, dando anarchicamente la stura ai suoi pensieri ribelli. Cita in esergo Pasolini rammentando che "il poeta è per sua natura contro", ma chiede umilmente scusa ai lettori per questa sua natura da bastiancontrario, dispiaciuto anche per se stesso, dal momento che ciò accresce a dismisura la sua solitudine. Ne segue una poesia sgraziata, dodecafonica potremmo dire, definita antilirica da chi per "lirico" intende un componimento melico tradizionale, classicheggiante, ma che si rivela in realtà intensamente lirica, se al termine si dà la connotazione contemporanea che gli appartiene, di espressione di stati emotivi squisitamente intimi.
E' vero: l'impianto è prosastico, ossia tendente alla prosa, ma non per questo è prosaico, cioè privo di poeticità. L'andamento prosastico, qui, non sta a significare il trionfo del mondo oggettivo su quello psichico. Al contrario, esso mostra la turbolenta energia dell'inconscio, la virulenza indomabile dell'io di fronte alle ingiurie e agli affronti dell'esteriorità. E non si pensi che il tono delirante ed onirico sia il segno di una personalità egocentrica, chiusa in se stessa, che non vuol piegarsi al trionfo dell'universalità, esteriormente e socialmente intesa, come gregge degli uomini. E' vero il contrario. Universale non è il pubblico consenso, ma è l'essenza più segreta dell'animo umano. E' a quella che si rivolge il poeta. La sua opera non è un programma elettorale, non è un comizio, non è uno spot pubblicitario. Il suo sguardo è interiore, verticale, e solo di riflesso raggiunge l'orizzontalità. La sua parola non è rivolta a tutti, ma al cuore e alla mente di ognuno. L'opera d'arte non massifica, perché parla all'uomo dell'uomo stesso, non dell'umanità.
Può sembrare fuori luogo questo discorso teorico, ma invece ci conduce nel vivo dell'indignata poetica manciniana. Egli dice: "Ora che le masse del mondo / sono davvero masse indistinte / (come volevate, naturalmente) / ebbene vi dico: / ci sono / ancora / pochi / veri / poeti / con tanto / sole / nel cuore / (contrari anticonformisti / non abbastanza omologati) / ai quali tutto ciò / non sta bene / e contestano". Poi si rivolge agli studenti con asprezza dirompente: "poveri sudditi / presuntuosi / servetti viziati / fiaccati dall'ozio / dal consumo / da rozzi sballi / e stupide droghette / da discoteche / cacofoniche". E infine, sconsolato, conclude: "un altro Pasolini / purtroppo / non c'è... / è stato / guarda caso / eliminato". Quel Pasolini che, a onor del vero, per gli stessi motivi contestava i rivoluzionari figli di papà del Sessantotto, quei giovani di cui Angelo invece si dichiara nostalgico. Ma al di là di tutto, ciò che va colto è lo struggente bisogno di universalità da cui entrambi i poeti sono animati.
Entrambi sono delusi dalle ideologie, programmi astratti, che nulla hanno a che fare con gli ideali sanguigni, capaci di infiammare la vita dei singoli, costringendoli a mettere in pratica quello in cui credono, nel piccolo delle loro azioni quotidiane. Magari bastasse porsi sotto una bandiera e blaterare proclami per risolvere i problemi del mondo! Bisogna vedere che uomo c'è sotto la bandiera, quanto è disposto a credere e a soffrire. "Perciò, ragazzo, / a cosa aspiri, / tu, realmente?", chiede Mancini, "e cosa critichi / e, magari, / offendi / se, in fondo, / sogni / gli stessi / beni materiali / (ville auto belle donne...?) // Un po' come certi / pseudo comunisti / "di un tempo" / indifferentemente / operai o professori / con in bocca, / avidamente, / la magica parola / "Capitale" / (pronunciata non per / finalità / politico-marxiane / o marxiste / ma nel semplice senso / che aspiravano / inconsciamente / bramosamente...? / al Capitale)". Ambiguità, ipocrisie che hanno creato e creano danni non indifferenti.
Un mondo di vanità, un reportage impietoso, fatto di flashes ed istantanee da cui emerge la demenzialità del mondo. Ci sono descrizioni bibliche, da Sodoma e Gomorra, o, se preferite, da bolgia dantesca, come nella scena dei nuovi mercanti del tempio (stanza Cinquanta), ma perlopiù è il sarcasmo a tenere la scena. Come laddove il poeta prende di mira coloro che si recano a tavola non per mangiare e bere gioiosamente, ma per avere l'opportunità di sproloquiare e mettersi in mostra davanti ai commensali. Tutto è apparenza e finzione, virtualità, spettacolo, narcisismo, ostentazione. Si approfitta di ogni circostanza per fare la ruota del pavone. Il terremoto, ad esempio. E' seguito in tv, in diretta, e l'uomo che ha appena estratto il proprio bimbo dalle macerie è costretto a mandare al diavolo la bella giornalista che vuole intervistarlo. E che dire della quarantenne in carriera, tutta presa da viaggi e vacanze, che confida ipocritamente all'amica di volere un figlio? Un radiogiornale di fatti abnormi, assurdi, comici, paradossali, di fronte ai quali il poeta amareggiato finisce per rivolgersi umilmente verso il cielo.
Nella settantesima stanza la confusione regna sovrana. C'è tutto e il contrario di tutto. Atmosfere kafkiane. Le cose appaiono in un modo, ma anche nel modo contrario: dipende dal punto di vista. Nessun riferimento sicuro, tutto è vero e tutto è falso. Una babilonia, un caos, ed è la maledizione della nobile stirpe di Adamo. Poi, nella settantunesima stanza, un'improvvisa invocazione: "Vi supplico / datemi / il silenzio". E forse il bandolo della matassa è davvero trovato. Ecco infatti, nella stanza successiva, farsi strada finalmente, come miraggio, una visione di pace: "i picchi ancora nevosi / s'indorano di luce / le corolle dei fiori fremono / al bacio del sole nascente // stormire tenue di foglie / dai rami che baciano il cielo / e nell'aria si estende celeste / il mistero della vita". Una parentesi che subito sfuma nella settantatreesima stanza, dove nell'incanto fatato delle Marmore s'impone la fetida presenza di una latrina pubblica, il cui custode, grugnando come un maiale, è impegnato a divorare una succulenta pasta e fagioli.
Ed ecco la nausea, comunque salvifica: "in un attimo prezioso ed eterno, / ho sentito, nell'anima, / tutta la nostra umana / miseria / e un folle desiderio / di perdermi nella natura". Bisogno di autenticità, di semplicità, di verità. Che ce ne facciamo dei milioni di amici virtuali su facebook, se nessuno di loro è disposto ad aiutarci concretamente quando siamo in difficoltà? Coltivare il silenzio è l'unico antidoto contro il veleno ipocrita e ciarliero del mondo. Ma - voi mi direte - come può amare il silenzio un poeta, proprio lui che fa della parola il suo credo? Ebbene, il poeta crede nella parola creativa, nella parola che nasce dal silenzio, nella parola viva che non nasce dalla parola stessa, in quel linguaggio autoreferenziale caro ai saccenti che si ripete e si complica all'infinito, perdendo sempre più smalto e mordente, fino ad implodere in quel corto circuito apocalittico profetizzato da Marcel Foucault. Il silenzio, invece, l'azzeramento del linguaggio resta l'unica garanzia di prosecuzione e di rinnovamento del linguaggio stesso e della cultura, della civiltà.

Franco Campegiani



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