P. Balestriere e N. Pardini presentano “ARIANNA” di
Umberto Cerio
Pasquale Balestriere, collaboratore di Lèucade |
In questo poemetto Umberto Cerio, il cantore dei miti che
s’inverano nel pulsare vorticoso della
vita di ogni tempo, tesse la tela poetica di una vicenda d’amore disilluso,
cioè sperato, desiderato, promesso, però
mai veramente realizzato. Il mito al quale stavolta il poeta allude è quello di
Arianna, figlia di Minosse, re di Creta,
e di Pasifae, figlia del Sole. Ella, dopo aver aiutato Teseo ad uscire
dal labirinto dove l’eroe aveva ucciso il Minotauro (figura mostruosa, che -
non si dimentichi - era fratellastro di Arianna, per essere entrambi figli della stessa madre), fu
abbandonata sull’isola di Nasso ( ma, secondo una tradizione, ciò accadde contro il volere del principe ateniese che fu
trascinato via da una tempesta, senza potervisi opporre; qui però la voce
narrante propende per l’abbandono volontario) . Nell’isola cicladica la giovane
principessa, addolorata e piangente , fu trovata da Bacco che la recuperò
all’amore e alle gioie della vita.
Qui
però Cerio innova e, al mito classico,
utile solo sotto il profilo allusivo, oppone una vicenda
del nostro tempo, in cui lo
“spirito amante” - con un autentico ribaltamento dei ruoli- non è più la “classica” Arianna, ma
un io poetico di sesso maschile che rivolge il suo amore a una “Arianna
d’oggi”, abbandonata involontariamente
-questa volta sì- dal suo uomo perito in
un incidente stradale; da lei ottiene in risposta dei “forse” che lo tengono in
una condizione di sospensione e di dubbio doloroso, in attesa di una risposta
decisiva e finale. Questo io poetico,
improvviso e rapido, s’impossessa della
scena occupandone il centro già dall’inizio,
la gestisce, instaura con Arianna
un dialogo del quale ci offre solo gli esiti (“forse, forse”) ma che il
lettore, se partecipe emotivamente, può facilmente intuire e ricostruire.
Il
poemetto, che è di gradevolissima lettura
per freschezza, potenza e venustà di immagini e per soluzioni
linguistiche,ma anche per implicazioni psicologiche che lo percorrono, si
snoda attraverso un gioco di rimbalzi tra le due vicende, l’antica,
tersa e consegnata al paradigma mitologico,
e l’attuale, viva e pulsante, mito essa stessa, ma in fieri, com’è
giusto per tutto ciò che compie un percorso vitale in modo non passivo. Un
lettore superficiale, di fronte alla fitta occorrenza del mito -dei miti- nella produzione poetica di Cerio, potrebbe
essere indotto a ritenere che egli sia attratto prevalentemente dal mito classico. Non è così, perché il
Nostro è affascinato soprattutto da un mito che ingloba tutti i miti, antichi e moderni: il mito
della vita.
Pasquale
Balestriere
Una
poemetto che s’incunea con tutta la sua portata emotivo-paradigmatica nei
meandri del vissuto; è vita, amore, sorte, melodia. Si batte e si leva, si usa
la bacchetta da maestro d’orchestra per reificare immagini e sentimenti. Una dualità
che non è tale, dacché il poeta sa unificare due mondi che sembrerebbero
distanti in una unità inscindibile; una simbiotica fusione di mito e reale dove
il mitopoieta fa del classico il nuovo e del nuovo il classico. Una visione estremamente umana in una narrazione
che rivela le capacità creative di Cerio. E si sa quanto il poeta sia legato al
mito e in questo caso al mito dei miti: Arianna. Una storia conosciuta
ma che Cerio sa rinnovare con arguzia e intelligenza fattiva e creativa. Tutto
si dipana con versi che si inanellano tra
loro su uno spartito di elegante fattura; di oggettiva proposta poematica.
Ognuno vi può leggere una storia attuale, e forse una parte di se stesso, della
sua storia. E’ questa la grande trasfusione che il Nostro opera; la grande
umanizzazione di personaggi che, attorniati da accessori naturalistici di ampio
respiro, si fanno ancor più reali, attuali, dacché questi non fanno altro che
collaborare alla loro visualizzazione. E tutto scivola leggero, dolce,
armonioso fino all’apertura immensa dell’ultimo verso che, staccandosi dal
contesto, apre scenari di libertà marine, di orizzonti infiniti dal sapore di
baudelairiana vicinanza, armonizzati da figure di gabbiani e aironi che liberi e
melanconici volano e svolano sulle distese del mare.
Nazario Pardini
ARIANNA
Umberto Cerio collaboratore di Lèucade |
Hai odore di mare
e ti
sei fatta perduta malia,
insistente
ferita
di
instabile futuro di tempesta,
di
clessidra impazzita
al
canto dei gabbiani
nella
caduta del sole di agosto,
rammarico
di ciò che potevamo.
“Forse, forse” mi dici
e non
decidi il dove della vita,
- morso
di frutti acerbi -
sequenza
degli addii e dei ritorni.
Vagabondare
incerto di stagioni.
E l’attesa
non conta?
Non
segna i giorni delle primavere
che
passano più atroci
del
silenzio e d’ogni solitudine?
Io
più non amo l’altalena,
eppure
mi ci illudo in gioco,
il
fascino dell’amara cicuta
sento
e l’acredine
delle
ferite d’altri,
del
male del passero che si schiaccia
informe
su cristallo d’auto in corsa
e non
sa della vita e della morte.
Ci resta in cuore la disarmonia,
l’assurdo
tradimento delle stelle.
Scriverò mai il poema d’amore,
la
vita dell’inconsolata Arianna
che
perde un uomo e trova un dio
su
un’isola deserta e senza l’ara?
Mi manca,
forse, il dove
per
fugare l’oscurità del mondo
e la
follia di ritornare indietro.
“Forse, forse” mi dici,
ma
l’impazzita giostra non si ferma
e
ricomincia il giro
senza
più tempo e luogo.
La
diastole dei nostri desideri
che
nel meriggio di sole ci acceca
s’impenna
sulla cima
del
veliero alto sul mare.
Un gesto, e giri la clessidra.
Notti più brevi e più lontane,
l’isola
è solitaria,
le
nostre solitudini più lunghe,
e
l’abbandono volontario
- le
vele della nave ormai lontana -
dirupa
sull’anima
con
atroce stridore di gabbiani
in
cerchio di dolore.
Vola
la nave con la vela nera.
Cieco
errore, in debito di memoria.
La cetra d’oro è appesa
al
ramo dell’alloro disseccato
e
prima della morte una cicala
stride
la sua canzone
sempre
uguale e pietosa e disperata.
Ed
anche lì mi dici ancora “forse”.
Dove è lontano il mare
e
disabitata la bianca casa
e dove
l’uva spina
un
ricordo -una memoria- dipana
permangono
dolori
- tu
non trovasti un dio innamorato -
e
stridori di ruote e di lamiere.
Altro che crucci, Arianna,
Nasso
è lontana, Teseo più lontano.
Donne
pietose scrivevano per te
lettere
sue mai scritte
e
restava la tua bellezza intatta,
il
cielo e il mare azzurri,
forte
odore di mirto e di lentisco,
il
ricordo di vele all’orizzonte.
Quante leggende allora
narrarono
per l’abbandono atroce
gli
aedi ed i poeti?
E
quale dio guidò il tuo destino,
la tua
richiesta di futura sposa
che
naufragò con i tuoi sogni,
di
Dioniso in delirio
il
rapimento per la tua bellezza?
Forse è il declino del giorno sul mare
quando
si perde il sole
e la
marina sogna perle nere
nel
sonno della sera
che
segna il tuo tramonto d’oro
e
parla il mio silenzio
alla
catena triste che ti resta
nell’anima
avvinghiata e non si scioglie.
Ma l’altro abbandono fu involontario
tra
stridore di ruote e di lamiere,
carne
che brucia ed anima in tumulto
e
l’ultima speranza,
il
cuore nel buio che appena batte,
ferite
nell’anima
e in
agguato la tua disperazione.
Donami le tue solitudini
ch’io le
trapianti sopra il mio dolore.
Pensi. Che pensi Arianna?
Che
pensi ancora al buio delle notti,
nel
nero del dolore?
Trovi
anche tu un dio che ti ama
e
l’odore del mirto
e un’altra
vela bianca a consolarti,
il
volo di un gabbiano
che
lento si avvicina alla tua mente,
alla
fuga delle tue primavere?
“Forse, forse” mi dici
e
scorre la tua vita, nell’estate
del
tuo destino - forse ingeneroso -
e
corone di mirto
e
nella notte i tuoi sogni infranti
e
nell’aria che la tua luce tinge
lontana,
più lontana del tuo dio.
Ricordi il tuo tremore,
l’improvvido
abbandono,
la
sotterranea luce che ti investe,
la
sistole del giorno che ti brucia
ed il
silenzio atroce
di
nave che si perde nello spazio
e la
marea della disperazione
che
s’alza nella notte,
il
sibilo del buio,
l’acre
ed attonita solitudine?
Quale costellazione,
dove
approdare, in quale cielo nero,
o in
quale marina
l’ancora
gettare della tua nave
o i
tuoi pensieri bui
-
l’anima tua triste ed offuscata –
(così
mi è parso un giorno
quando
per certo non mentivi!)
Arianna
triste d’oggi
che
ancora vivi un abbandono atroce?
Dammi una primavera,
ch’io
la trapianti nel mio sangue!
La mia disarmonia
è non
sapere tutto
e non
poterti chiedere la luce.
Non
sapere che pensi e che hai pensato.
È
l’atroce subbuglio delle attese.
E il
mio gabbiano bianco
ha un
volo senza meta.
Volteggia
in cerchio sopra il tuo dolore,
sul
crudele stridio dei tuoi pensieri,
sulla
nostra amarezza solitaria.
E il labirinto buio,
il
mare attraversato in fuga
per
l’ira di Minosse
per la
morte del Minotauro,
e poi
l’infame inganno di Teseo,
la tua
bellezza infranta
e
l’amore violento che ti ha scossa,
il
pianto silenzioso
al tuo
vano risveglio senza luce
e il
tuo destino avaro
hanno
segnato il tuo futuro.
E rimane l’abisso
dentro
il tuo cuore spento, vuoto, amaro,
condanna
a solitudine straziante,
e
rimane il sentore
acre
d’erba selvaggia
su una
deserta spiaggia, senza voli,
priva
di aironi e di gabbiani
la
strada senza uscita
- un
limbo dove non si vuole entrare -
follia
sospesa della nostra attesa
prima
che il giorno passi
e
giunga la tempesta delle stelle.
Che
dici, Arianna d’oggi,
che il
mio sogno è come una falena
che
corre alla tua luce
come
incontro a bufera
senza
fine, e verso la sua fine?
Ma
quale cetra d’oro
potrà
cantare altra armonia?
Portami la tua luce
ch’io
l’innesti sull’anima in tumulto.
La verità è scritta
sul
tuo segreto diario
e con
parole dure e ripetute.
“Forse,
forse” vi scrivi,
ma il
giro delle stelle non si ferma,
la tua
costellazione è più lontana.
E ti
perdi tra l’erbaspada
e
l’arida conchiglia del tuo cielo.
Ahimè, “forse” mi dici
e
forse scenderà la luce
sul
dirupo dei nostri sogni che
non conoscono domani,
quando
il mio tempo è consumato
senza
risveglio e senza tempo.
Che senso ha l’arteria,
la
vena cava quando il cuore pulsa
se
altro è il sangue,
se la
malia sconfina in altro cuore?
Che
senso ha il labirinto
della
mente dove fiorisce il seme
d’ogni
rimpianto, dove si fa carne
il
dolore dei giorni
e si
arresta il volo della farfalla?
Aspri arbusti alicoli
da te
a me attecchiscono ferrigni,
l’alidore
della tua terra
trapassa
nel mio sangue e nel pensiero
e più
non sono gerbido e mi perdo
-
insulsa parabola del trapianto -.
Ma non sono io il tuo Teseo.
Sono io
il tuo Teseo?
Ritorno
ai tuoi vent’anni amari,
e lo
scompiglio delle tue certezze
la
sotterranea notte
l’oasi
e la duna interminabile?
Esco,
forse, dal labirinto assurdo?
Salsedine e profumo d’altro mare
- e
salpa altro veliero -
-
altri gabbiani gridano assonanti –
-
scompare Glauco e le Nereidi -
-
volge altro vento alla marea -
giungono
dal profondo dell’abisso,
e
l’ombra si fa carne
ed
anima smarrita
che
non comprende geometrie di uscita.
La mia marea scompiglia
i
flutti, e navi con le vele bianche
sbilenche
oscillano
in
pericolo di affondamento,
il
porto si allontana
e la
mia anima è sempre più sola
come
anima del mondo
che
vana trascina strappate reti.
E la
tua anima è sempre più sola,
sempre
più esposta a rischio
di
perdere la rotta,
- il
faro in alto è spento -
senza
timone e senza la deriva.
Dammi
una bussola
con
gli smeraldi dei tuoi occhi verdi
ed un
veliero bianco
ch’io
possa navigare nel tuo cuore.
Ma il grido del gabbiano
è
l’ago della bussola in allarme,
nocchiero
e sentinella,
bussola
e crocevia,
la
clessidra che batte il nostro tempo.
Siamo
ciò che vogliamo,
la
nostra via di pietre è lastricata
e
porta non so dove
o
forse dove volge il sud del mondo.
Non sappiamo l’intreccio
della
siepe e l’armonia delle nubi,
il
sale che s’incrosta,
dove
la serpe si nasconda,
il
seme che germoglia,
l’assurda
disarmonia del termine
improvviso,
e quando senti l’amara
illusione
che tenta la speranza.
O quando dici “Ora aspetta , mio cuore,
ora
c’è un’altra attesa
che ci
sconvolge le certezze”.
Ma ci aspettiamo il vento
che
taglia il nostro viso e gli occhi chiusi,
altro
mattino di abbandono,
la
bandiera impazzita
che
sbalza senza sosta
sul
mare azzurro della nostra terra.
L’altro abbandono, quello volontario,
forse
sarà dimenticato.
I
gabbiani torneranno a volare
sulla
deriva della nostra nave.
Gli
urli saranno un’armonia.
Precipitare dalla rupe
- non
più d’Icaro il volo
né di
Elle la fatale caduta -
sarà
come il volo di Psiche
rapimento
del Vento
per il
dono all’innamorato iddio?
Donami un’altra attesa
ch’io
l’innesti sul delirio del Sole.
Dov’è l’eroe di Atene,
cos’è
rimasto del tuo amore folle?
Piante
spinose sconosciute,
pozzanghere
d’acqua salmastra, acida,
stocchi
d’agave amara,
catini
di vetriolo
e
sonno di cicuta
e
biechi riflessi di argentovivo.
Il
filo lungo, e dopo il tradimento!
La
favola è finita
ed
ignori nei miti il tuo destino,
la
morte del fratello,
del
padre tuo l’ira furibonda.
Ed è, l’inganno, triste
roveto
che si attorce senza fine.
Dolce memoria di collina d’avi
che mi
scende sugli occhi come mare,
ricordi
di paranze
come
antiche costellazioni, bianche
di
stelle e di comete,
la
mezzaluna a falce sulla casa,
ad
occidente il fiume che straripa,
il
taglio atroce di un coltello,
respiro
lento, fermo
sui
nostri visi, e sulle mani travi
di
indurito cemento
e
doppio tradimento,
bocche
cucite per non farci urlare.
Dammi una tua memoria
ch’io
la trapianti sulle mie parole.
Oh
Arianna dolce,
come
strana è la vita!
Erede
degli Dei fulgidi un tempo
e
decaduta al rango di un’amante
abbandonata,
e paghi il fio
per un
eroe spergiuro che ti inganna.
Neppure
il dio può ripagarti in tutto
del
duro oltraggio dell’eroe di Atene.
“Forse, forse”, mi dici.
Fermare
questa giostra,
l’impazzita
clessidra,
il
gallo al vento in cima al campanile,
l’ombra
dell’astronave in volo buio,
pensieri
amari e dolorosi.
Cercare,
cercare l’ansia
di un
intreccio di vite e di destini
quando
non dici il tempo della fine
né la
fine del tempo
e cerchi
il sentore del mirto
ed il
profumo dolce del lentisco.
Gabbiani e aironi in volo nel mio cielo.
Umberto Cerio
Un poeta parla sempre e comunque di miti. Ne può parlare in tantissimi modi e linguaggi diversi, ma mai in termini antiquari o scientifici, da antropologo, studioso e classificatore di miti. Che Umberto Cerio, da poeta qual'è, prenda spunto dai miti classici, è un fatto innegabile, ma questo per lui è soltanto un mezzo, una chiave per aprire lo scrigno delle essenze che appartengono all'uomo di sempre. E ha pienamente ragione Balestriere nel dire che il Nostro, per quanto sembri "prevalentemente attratto" dal mito classico", in realtà risulta "affascinato soprattutto da un mito che ingloba tutti i miti, antichi e moderni: il mito della vita". Ed è per questo che innova, giungendo superbamente a parlare di un'"Arianna di oggi" che un destino avverso priva della possibilità di amare, gettandola sull'isola (forse di se stessa) e condannandola senza speranze a una solitudine estrema. Eterna e disperata attesa dello "spirito amante", di quell'Amore che in fondo è il vero autore del canto, padrone della scena "già dall’inizio", reclamando una pienezza impossibile, un'assolutezza che "neppure il dio può ripagare". Poemetto struggente, con versi che rapiscono e fanno molto riflettere sulla condizione umana.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Sono stato sempre attratto e non poco dalla musicalità verbale insita nelle poesie di U. Cerio. La sua è sempre un canto che rapisce il lettore e che lo conduce nel mito quale fonte della sua ispirazione poetica. P. Balestriere lo definisce, a ragione, "il cantore dei miti" poichè attraverso questi imbastisce la sua trama poetica, il suo messaggio. Balestriere e Campegiani hanno evidenziano che in questo poemetto il mito è la vita quale mito dei miti e con sequenza copiosa di metafore e immagini l'autore ne descrive il travaglio interiore dell'uomo per possederla nella sua pienezza. Ma Lei sfugge, sfugge sempre nell'attimo in cui crede di averla fatta sua: " Un gesto e giri la clessidra". Tale travaglio U. Cerio lo esprime con un linguaggio crudo, duro,forte ma sempre nitido: "del male del passero che si schiaccia informe sul cristallo d'auto in corsa..." ;"vola la nave con la vela nera"; "...quando il mio tempo è consumato senza risveglio..." e così via; ma, alla fine, uno sprazzo di serenità nel disperato animo quando "Gabbiani e aironi (sono)in volo nel mio cielo". U. Cerio, un AEDO del 3° Millennio. Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaIn questa sua preziosa rivisitazione del mito l’io poetico di Umberto Cerio, impaziente e ansioso, dubbioso e implorante, supplice e disperante, reclama una promessa d’amore che, se accordata, potrà finalmente liberare la vitale energia di un’anima. È quell’io in cerca, a un tempo, anche di una redenzione e di un riscatto dal dolore e dal buio. Ma attenzione: qui il poeta non cerca una soluzione individuale o personale alla disillusione e alla mancanza d’amore, in quanto il dramma della precarietà e dell'abbandono, del tradimento e dell'inganno, non riguarda solo Arianna o, come in questo caso, un suo alter ego, catapultato come per metempsicosi nel nostro millennio; qui il dramma riguarda, per estensione, l’umanità intera. Ed è questa la chiave di lettura dell'Arianna di Umberto Cerio, il focus della sua riscoperta del mito: solo la promessa d’amore può garantire, ad ogni umano tradito e abbandonato, una via di fuga dal labirinto della solitudine, per nuovamente riassaporare la pienezza della vita. È questo il dono inestimabile che il mito, stavolta attraverso le rotte della luce del “filo di Arianna”, ha consegnato per sempre al sentimento e alla poesia. Ancora una volta Umberto Cerio, magistralmente rielaborando e reinventando quella classicità a lui così cara, ci regala versi e immagini di indiscutibile bellezza e profondità, come peraltro puntualmente hanno evidenziato nelle loro presentazioni, con la consueta, inarrivabile bravura, Pasquale Balestriere e Nazario Pardini.
RispondiEliminaUmberto Vicaretti.