Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Sonia Giovannetti legge “Fratello cattivo” di Sandro
Gros-Pietro
Leggendo di Harvey Russel, il
personaggio che la penna di Sandro Gros-Pietro pone al centro del suo ultimo,
avvincente romanzo “Fratello cattivo”, non si può non
rimanere turbati dalle molte sfaccettature della sua forte personalità,
inquietante ma anche, apparentemente, irrisolta.
Harvey ci viene fin dall’incipit
presentato come un “sacerdote della ricchezza”, nel cui nome, per proteggerla e
accrescerla oltre ogni limite, egli si erge al di sopra della morale comune e
dell’etica religiosa, fino a sostituire i Dieci Comandamenti (dei quali intende
rispettare il solo “non uccidere”) con una precettistica da lui stesso
forgiata, i “Dieci Fondamenti della Ricchezza”, cui intende attenersi
fedelmente e aderendo ai quali giunge ad autodefinirsi ossimoricamente come un
“onesto peccatore”.
Questo moderno Creso, erede di una
ricca e potente famiglia britannica di finanzieri da lui detestata, celebra i
propri riti profani realizzando affari leciti e illeciti in ogni settore
profittevole - la finanza, i media, le armi - coerentemente servendo in
ciascuna fattispecie, con lucido cinismo, la sola causa in cui crede: il
denaro.
Ha però un punto debole: il fratello
minore Gerald, che ama e odia sin dalla nascita e della cui morte violenta è
involontariamente responsabile; e un ambiguo alleato, sua moglie Shanti,
amministratore delegato del suo impero mediatico, sua consigliera e complice,
ma anche, come si rivelerà via via, intransigente inquisitrice della sua
tormentata coscienza.
La trama narrativa alterna i fatti – le
vicende familiari, gli affari, le relazioni con gli amici – con le riflessioni
introspettive del protagonista, diviso tra certezze reali o apparenti, dubbi
sui propri sentimenti, perfino rimorsi verso il “fratello cattivo” Gerald.
I contenuti di questo dialogo
interiore, che fanno da contraltare alle azioni del protagonista, stimolano nel
lettore riflessioni che aprono a linee interpretative non univoche sulla
personalità di Harvey e sul contesto in cui egli opera: effetto inequivocabile
di intelligenza della complessità che inerisce alla coscienza dell’uomo e alle
vicende del mondo, e che l’autore mostra brillantemente di possedere.
Che uomo è Harvey? Quale mondo ci viene
descritto in “Fratello cattivo”?
Egli si sente affrancato da “catechismi e perbenismi” che hanno
seppellito la “dignità naturale”
dell’uomo, e dunque si pone al di sopra dei Comandamenti che ne prescrivono le
regole di comportamento. Somiglia allora, per questo, all’”ultrauomo” di
nietzschiana memoria? Non si direbbe. Harvey, certo, è un nichilista; professa
anch’egli, ignorandone i precetti, la morte di Dio. Ma se Dio è morto, non per
questo è morto ogni dio. Harvey è piuttosto l’incarnazione enfatica di un uomo
dei nostri tempi, che ha sostituito il dio cristiano col dio denaro, è un
sacerdote del potere e della ricchezza, una figura a suo modo tragica, per il
quale l’”essere” coincide con l’”avere”. Non, dunque, un “superuomo” in cerca di
un “ultramondo” da fondare ex novo,
ma il servo di un altro dio da ossequiare fedelmente. Reificare Dio per
deificare il denaro. Del resto, ammette anche lui che “Il problema non è riuscire ad essere un oltre-uomo; non è neppure
realizzare il cimento omicida di Raskolnikov, in “Delitto e castigo…” .
Harvey ha bisogno di questo mondo per
potervi primeggiare con ogni mezzo, liberando “i sentimenti ferini che sono il nocciolo duro della natura umana…”, e
in cui “il libero arbitrio è totale”.
Il mondo di Harvey somiglia piuttosto al mondo descritto da Hobbes, dove la
ferinità dell’uomo è la sua cifra naturale, sia pure da limitare con ogni mezzo
perché i più possano sopravvivervi. Harvey, in fondo, è un immoralista
programmatico, un “cattivista” convinto più che un amorale: combatte contro ciò
che ne limita il potere, e combatte per vincere, guidato da un catechismo
eretico a cui si attiene rigidamente.
Tuttavia, proprio nel cuore di questa
temperie relativistica in cui il protagonista impegna i propri talenti in una
cruenta e diuturna lotta per la vittoria, in nome di un fine – il denaro – che
giustifica ogni mezzo e dove l’uomo è homini
lupus, si presentano alcune crepe che contrastano, ridimensionandola, con
l’immagine di immoralista a tutto
tondo di Harvey. La più vistosa è il rimorso nei confronti del fratello Gerald,
divenuto un terrorista, ucciso incidentalmente da lui in uno scontro a fuoco
con la polizia. Un fratello da sempre detestato, e le cui scelte Harvey ha sempre
avversato, avvertendone la minaccia per la conquista e l’esercizio del proprio
potere assoluto sulla famiglia. Eppure, per il cinico Harvey “quella prematura e tragica perdita del
fratello ha rappresentato…un immenso dolore dell’anima, che gli ha oscurato gli
ultimi quarant’anni di esistenza”. Certo, di Raskolnikov non c’è il
delitto, ma c’è un incontenibile senso di colpa e una sofferenza profonda
dell’anima che ha il sapore del pentimento; certo, non c’è la scelta del
castigo come unica possibile espiazione, ma c’è il delirio che deforma la
realtà e che, per un cultore fanatico della concretezza, rappresenta pur sempre
un grave ostacolo alla lucidità necessaria agli affari. Trapela infine man
mano, nell’animo del protagonista, un crescente e più generale senso di
smarrimento che va oltre la morte violenta del fratello e che si direbbe
esistenziale, frutto del sistema di valori adottato e delle scelte di vita
conseguenti. Esso ben traspare come nostalgia di una condizione umana preclusa
ad un “sacerdote della ricchezza” come Harvey, ma ora acutamente da lui
vagheggiata: “Oh, la dolcezza di un
innamoramento! Oh, la vertigine incontenibile dei sentimenti!...Cristo:
parlami! Io sono così solo nell’universo!” Uno smarrimento che riemerge
inequivocabile sul finire del dialogo con Shanti, una sorta di percorso
catartico incentrato sul bilancio di una vita regolata rigorosamente dai “Comandamenti del Capitalismo Finanziario”,
ma che finisce per indurre in Harvey “un
crescente sentimento di stanchezza (che)
più che un disgusto, è la noia e la saturazione di essere ciò che egli è ovvero
che professa di essere”.
In questa fattispecie di autocoscienza
infelice che non cessa di affliggere questo cinico magnate e che chiude
provvisoriamente e ambiguamente il racconto – l’autore lascia aperto l’esito
del percorso autoassolutorio di Harvey, ormai diviso tra lucidità e follia – si
può forse intuire un’implicita apertura di Sandro Gros-Pietro alla speranza. La
speranza che il male (così come del resto il bene), possa non averla del tutto
vinta a questo mondo, giacché anche nell’esercizio così sistematico che Harvey
Russel fa della “cattiveria”, la
perfezione è in fin dei conti, come in tutte le cose umane, una meta assai
problematica da raggiungere.
Implicito
il grazie a Sandro Gros-Pietro per averci, con questo bel romanzo, condotto e
accompagnato su una strada di conoscenza e di riflessione intorno alla natura
del mondo attuale, sulla consistenza del male che lo pervade. Ciò che potrà
indurre le coscienze più consapevoli a traguardare il bene come un bisogno da
coltivare e proteggere con particolare impegno in un’epoca così bisognevole di
"fratellanza".
Sonia
Giovannetti
Non ho letto il romanzo di Sandro Gros Pietro di cui parla Sonia Giovannetti, ma questo superbo commento critico mi spinge a colmare al più presto la lacuna. Trovo davvero interessante il sottile "distinguo" svolto dalla scrittrice tra il nichilismo superomistico nietzschiano che, al di là del Bene e del Male, tenta di eludere qualsiasi problema morale, e il nichilismo becero di Harvey, l'"onesto peccatore" protagonista della vicenda, con quel suo immoralismo programmatico che sostituisce il Dio dei Cristiani con il dio Mammona dei moderni Pagani. Il fatto è che non si può sfuggire al problema morale e chiunque tenti di farlo non fa in realtà che svincolarsi da una schiavitù morale per consegnarsi come schiavo ad un'altra. Harvey si costruisce un decalogo alternativo a quello cristiano, ma il problema vero è che non può sfuggire a se stesso, come mostrano i suoi sensi di colpa insuperati e insuperabili. Nessuno in realtà può sfuggire a se stesso, neppure il Superuomo che s'illude di potersi liberare dai problemi morali semplicemente svincolandosi dai decaloghi imposti. I conti con la propria coscienza sono ineludibili, ed è quanto la stessa morale cristiana in fondo evita di fare, preferendo molto spesso a quest'impegno personale con se stessi, una precettistica superficiale e perbenista. Bisogna invece, come suol dirsi, prendere il toro per le corna, e a tal riguardo trovo davvero interessante la conclusione della Giovannetti, laddove sembra indicare in una sorta di incontro e di collaborazione fraterna fra il Bene ed il Male la via di un più fruttuoso ed intimo impegno etico, rispettoso dell'integrità morale.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ringrazio molto Franco Campegiani per l'attenzione che rivolge alla mia ultima lettura e alla sua attenta, colta e mirata riflessione su un argomento che sta a cuore ad entrambi. Grazie del valore che aggiunge il poeta e filosofo e grazie a Nazario Pardini che ospita, con un non comune entusiasmo, le parole che accompagnano il nostro percorso.
RispondiEliminaSonia Giovannetti