Dal blog “On
literature” di Nicola D’Ugo recensione di Cinzia Baldazzi a “Il secchio e lo specchio”, raccolta di
versi del poeta barese Francesco Lorusso
«“Il secchio e lo specchio”, poesie di
Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi
Francesco
Lorusso
Il
secchio e lo specchio
Nota
di Guido Oldani
Manni,
San Cesario di Lecce 2018, pp. 96
Cinzia Baldazzi, collaboratrice di Lèucade |
In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era
solito affermare:
Gli
specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.
Ebbene,
nella silloge Il
secchio e lo specchio, di riflessioni ne vengono offerte
numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere
alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa
misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore
Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita
della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza
elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a
tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e
di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca».
E prosegue:
Ma
la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si
va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino
unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la
scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro
geografico.
Così
in Lorusso percepiamo:
La
folla già si fondeva al fumo
scuro
della sera quando il sogno
si
sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando
tutte le nostre cose
come
un canto alto di vento
Perfino
l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e
finge di fuggire la goccia di quella bocca
da
un pensiero nella pancia che non ritorna
nel
dissapore che con forza digerisco per te.
(p.
12)
I
versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella
poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente
fine:
Mi
sono spogliato dell'idea della morte
ho
infilato il fogliame di giugno dei viali
quello
di maggio era un po’ giovanile per me
tutta
un'estate mi attende tutta un'estate in città
con
le sue pietre il suo asfalto fuso
le
sue gazzose il suo ghiaccio
le
sue sale di cinema sudate
gli
attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con
le poesie che leggerò al balcone
e
con i tuoi capelli un po’ accorciati1
Nelle
strofe di Lorusso si compie un viaggio ininterrotto: il cammino è tenace,
pronto a ogni fatica, mentre il tempo avanza rapido avvicinandosi sempre alla
notte, benché le nuvole che l’annunciano una dopo l’altra riflettano il rosso
della passione – mai annientato – e il lavorìo delle mani, della mente:
Rapsodie
diffuse silenziano la notte
ti
trascinano fuori dalle acque aperte
da
questo fiato inceppato nell’onda.
Sono
i corpi che muovono la paura
sul
mare delle parole marchiate
da
una balbuzie digiuna e diversa.
(p.
13)
In
un simile ambito, si sviluppa nell’antologia un «accatastamento dei popoli»,
come evidenzia Oldani forse richiamando il verso di Lorusso «il foglio buono
delle figure fitte ora affastellate». Si genera, insomma, un’analisi intorno
alle scienze umane che in via strumentale è in qualche misura analoga a quella
effettuata sul versante critico-analitico da Algirdas Julien Greimas nel
volume Del senso 2 (1983), il quale non a caso nell’edizione
italiana porta il sottotitolo Narrativa, modalità, passioni. Alludo
a quando il semiologo lituano osserva:
Il
discorso delle scienze umane, lungi dall’essere lineare, appare svolgersi
contemporaneamente su diversi livelli, che pur essendo dotati di un’autonomia
formale, si intrecciano, si susseguono, si interpretano e si appoggiano gli uni
sugli altri garantendo in questo modo la solidità e il progresso – naturalmente
relativi – del procedimento a vocazione scientifica.2
Rispetto
alla silloge L’ufficio del personale (2014), Lorusso compie un
passo ulteriore con Il secchio e lo specchio: lì si consumava, come
avverte nella prefazione Daniele Maria Pegorari, «la lenta agonia del soggetto
dentro i meccanismi fagocitanti e alienanti del lavoro precarizzato o sfruttato
o ricattato», nell’evocare uno «sfacelo personale, scandito dalle
ore di un ufficio laico e disperato»; qui trapela, lento e
sostanziale tra le righe, nonostante gli ostacoli, un accrescimento di
vitalità, un significato dominante della poesia come valido sistema
dell’assenza, innocenza della memoria, o dell’esistenza incrementata, di
momento in momento, da potenti messaggi innovatori:
Il
panno del fiato sulla superficie
combatte
i prospetti dal setto preciso,
se
l’oggetto ha l’anima di un atomo
deruba
tutto fra i sostantivi presenti
e
l’odore acre della carne dal gene sano.
Lunghi
fusti di canne fumose
è
il fregio che tocca a noi patire
ora
che la firma delle bandiere
scuote
l’aria fiera verso il basso
senza
neppure la gloria delle guerre.
(p.
18)
Dove
spogliare la «carne dal gene sano», ossia emanciparla da tanti inganni, dalle
apparenze contraffatte? Perché farlo? Perché non? Le aurore, i crepuscoli,
scoperti e allontanati da parvenze erronee, sveleranno:
Tutto
il seguito impresso sulla tenera massa
rimane
nella crosta di un pane poco sano
quello
che all’acqua strapperà il raggio delle dita
e
il saluto le asciugherà anche da tutto il resto.
(p.
22)
Accompagnati
da questa serie di versi, percorriamo un tunnel da un estremo all’altro: al suo
interno, dobbiamo purtroppo dimenticare il piacere del corpo – e dell’anima –
con una superficie riflettente alle spalle trasformata in specchi ormai
sprofondati nell’abisso; intanto, la fatica non blocca il volere, e avanziamo
suscitando i ricordi di un giorno magari, per ora, non destinato. Francesco
Lorusso vive un’alba non prossima al tramonto, con un gesto di liberalità
capace di non mettere a tacere ciò che viene situato in cima alle controversie
estetiche, vale a dire l’autentica relazione con gli oggetti stessi.
Emerge
una problematica densa di aspettative: è necessario compiere alcune scelte
nell’immediato, non esitando né smarrendosi nel puro arbitrio personale,
incomprensibile, come lo scalare una torre d’avorio astratta, svuotata di ogni
pregio o valore.
Francesco
Lorusso ha esemplificato l’esperienza vissuta di un siffatto rapporto tra la
realtà oggettiva e il punto di vista individuale:
L’amore
per il verso in me è comparso inaspettato, in un ambiente lontanissimo.
Provengo da una famiglia di operai e ho intrapreso da subito, per naturale
propensione, gli studi tecnico-scientifici, tralasciando quelli umanistici e
letterari dove sono risultato zoppo e lacunoso per l’intero percorso
scolastico. Accanto però, viaggiava anche la passione per la musica e, in
particolare nei primi tempi, per le canzoni, tanto che già da piccolo mi
dilettavo a scrivere canzoni, strimpellando da autodidatta la chitarra
ereditata dal nonno. Questo prima di iscrivermi al Conservatorio al corso di
Canto Lirico e poi proseguire negli studi di Composizione e Direzione di Coro.3
Quindi
la sintesi:
Ho
cominciato a leggere poesie quando mi sono reso conto che i testi delle mie
canzoni si avviavano sempre più alla ripetizione e alla inconsistenza
linguistica. Inoltre mi accorgevo che senza un buon verso di partenza, ispirato
e illuminante, nemmeno la melodia riusciva a crearsi in me. Lentamente questi
appunti di strofe per canzoni hanno cominciato ad avere una loro autonomia, un
loro ritmo e una loro musicalità, fino a rinnegare completamente il
pentagramma.4
Cos’è
accaduto? Francesco Lorusso sembra risentire della questione illustrata da
Theodor Adorno negli anni Sessanta. Il filosofo di Francoforte spiegava:
Spesso
l’unità dello stile a cui appartiene un’opera – la canalizzazione secondo
procedimenti tradizionali – viene equiparata alla sua qualità. Si trascura il
fatto che la qualità estetica è il risultato dell’esigenza specifica della
singola opera e dell’unità globale dello stile a cui appartiene. La
canalizzazione tramite lo stile, le piste battute che consentono di seguirla
senza sforzo eccessivo, vengono scambiate con la cosa stessa, con la
realizzazione della sua oggettività specifica. La grande arte non si è mai
esaurita nella coincidenza della singola opera col suo stile. Lo stile è
generato dalla singola opera come questa si costituisce a contatto con lo
stile.5
Tornando
a Lorusso, l’autore chiarisce:
Premetto
subito che l’approccio con i libri di poesie è sempre stato, e sostanzialmente
continua a esserlo, tranne per alcuni casi o periodi, di tipo ludico: non cerco
di capire necessariamente un autore o un movimento storico, ma cerco me stesso,
il piacere del verso e una eventuale “ispirazione”.6
E
il ricorrere frequente del termine parola diviene nucleo
cardine in alcuni brani:
È
un panno d’alito il rapido battito
che
gioca fra le stanze e il giorno
spazia
con la vista il vasto freddo
e
ti fissa tra gli occhi l’assenza.
Resisti
inutilmente sulle parole
dove
adesso allunghi il passo
e
ti rendi conto che è solo un inquilino
molesto
che ancora ci controlla dalla via.
(p.
25)
Affacciati
a una «finestra» inesistente in uno spazio-tempo orientato ma ciclico, con
un’ombra sulla mano gestiamo lo strumento della poetica ‘a distanza’. Scopriamo
la fronte, il volto, evitiamo di far chiudere gli occhi, solcando un iter
familiare comunque perduto in un’altra aura di riferimento, quasi fosse un
continente, un campo semantico remoto. Ed ecco il nome della poíesis giungere
a noi con musiche essenziali, commoventi, verosimili e struggenti: di
conseguenza, da quella «finestra» pare di osservare la pausa di ricreazione di
giovani scolari in un intermezzo di dittonghi improvvisati, canti monoritmici
ricorrenti:
La
lacrima di una finestra in penombra
trepidava
nello specchio amaro della via
attraverso
un filo ricucito male assieme
agli
uomini che dentro vi si muovevano,
poi
i discorsi si aprirono ancora sul nuovo
ma
la macchia rimase al centro dell’allegria
sola,
sulla piastrella fatta con uno strappo
di
singhiozzo e carta di fazzoletto buono.
Continua
la luce ad umiliarsi con le parole
a
saziarsi la pelle con voci modulate anche bene,
mentre
fiacca a noi presenzia col suo mistero
l’uso
sull’orlo della nostra giacca sempre più liso.
(p.
30)
Le
esperienze selezionate nel ventaglio aperto del libro costruiscono così un
solido continuum nel reale presente, in cui – con le parole di
Umberto Eco – «si fonda la trasposizione metonimica» che procede da «contiguità
fattuale o empirica a contiguità di codice» o elemento funzionale allo schema
prescelto.
Nel
fondo del «secchio», con un piano di riflessi e riverberi, noi destinatari
intercettiamo uno status referenziale di metonimie e metafore
non in virtù di naturali parentele logico-causali, ma grazie a sintesi
logico-intuitive culturali in una rete di tòpoi estetici
coinvolgenti: perché a volte prefigurano un’urgenza di ordine
significazionale prima di essere legittimati, definiti e
fondati nel peculiare repertorio semiotico delle poetiche. Cerchiamo appunto
la sostanza dell’espressione e la forma del contenuto.
Nel
capitolo Sette interpunzioni strette (contenente altrettante
sestine a verso libero) leggiamo:
e
ci stava solo un frammento finito fra le fessure
un
luogo comune che ci costava fatica e respiro
il
fianco sciupato dalla piega sana del camice
e
la narice sottesa sui movimenti senza suono
ad
accogliere il rigore composto del nuovo corpo
il
foglio buono delle figure fitte ora affastellate
(p.
36)
Da
studentessa, frequentando l’ateneo romano La Sapienza, scorrevo le pagine di
Delmore Schwartz, scrittore statunitense di origini rumene, di rilievo degli anni
Cinquanta. Cito alcuni passi della poesia «Calmly We Walk through This April’s
Day» («Tranquillamente passeggiamo in questo giorno d’aprile»), dove alcuni
gruppi semantici del testo sembrano rievocare il viaggio di riconoscimento tra
quello che è o sarà, autentico Leitmotiv dell’antologia
di Francesco Lorusso:
What
will become of you and me
(This
is the school in which we learn …)
Besides
the photo and the memory?
(…
that time is the fire in which we burn.)
[…]
(This
is the school in which we learn …)
What
is the self amid this blaze?
What
am I now that I was then
Which
I shall suffer and act again,
[…]
The
children shouting are bright as they run
(This
is the school in which they learn …)
[…]
May
memory restore again and again
The
smallest color of the smallest day:
Time
is the school in which we learn,
Time
is the fire in which we burn.7
~
~ ~
Cosa
rimarrà di me e te
(Questa
è la scuola in cui impariamo …)
Oltre
alla foto e alla memoria?
(…
quel tempo è il fuoco in cui bruciamo.)
[…]
(Questa
è la scuola in cui impariamo …)
Qual
è il sé in mezzo a questo incendio?
Cosa
sono ora che ero anche allora
Per
cui dovrò soffrire e agire ancora?
[…]
I
bambini che strillano sono splendidi mentre corrono
(Questa
è la scuola in cui imparano…)
[…]
Che
la memoria continui a rinnovare
Il
colore più leggero del giorno più breve:
Il
tempo è la scuola in cui impariamo,
Il
tempo è il fuoco in cui bruciamo.
Cosa
rimarrà di noi, dopo queste strofe, tra l’una e l’altra, domato l’incendio
delle passioni, in fondo al contenitore delle notizie ripetute per difenderle e
non farle morire, nella scuola della vita da esse promossa? Rimarrà, può darsi,
quel «sé», o «self», garanzia della necessità delle informazioni ricavate, le
quali – una volta scoperte – arricchiscono di certo la nostra conoscenza in
giudizi fattuali o in divenire, riflessivi e auto-riflessivi, tipici di
un point of view del mondo aperto: dove
vari aspetti della cultura (in specie, musica e letteratura) sono esplicitate
dalla qualità di processi comunicativi dialettici, con spazio equamente
suddiviso tra coloro che parlano, ascoltano, meditano sulla sostanza
dell’espressione e sulla forma del contenuto.
Spalancato
così il sipario anche sulla parte delle Sette interpunzioni strette,
nel quinto brano percepiamo un’atmosfera adeguata a immergere il lettore in un
filo di respiro tra il vero e il falso, l’input onirico e di
coscienza, infine il target genuino e quello
condizionato:
in
un filo di respiro torna questo giorno impensierito
soccorso
sempre in un’aria solitaria che ti appartiene
imprecando
attraverso tutta la linea del tuo calendario
che
ti chiamava tra i tanti nomi e il vivace sorriso amato
mentre
un’acqua aspetta alla porta deserta e silenziosa
ma
il suono delle corde non pone più la mano sul tuo petto
(p.
39)
In
conclusione, però, tutto aveva avuto inizio con l’epigrafe, nelle parole
del Poema senza eroe di Anna Achmatova: «A quel che gli
specchi riflettono è meglio non pensare». Lorusso vi ritorna nella prima parte
del libro, descrivendo «specchi doppi oramai grigi di luce», tali da sembrare
«simili alle grinze che ci cuce la sorte». La sfida è strumentale: insieme al
nostro poeta, abbiamo così accolto in ogni rispecchiamento l’esortazione ad
afferrare lo scarto di differenza – generatore di poesia – tra rappresentante e
rappresentato.
(Aprile
2019)
(Ringrazio
Adriano Camerini per la collaborazione nella stesura del testo).
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