Nazario
Pardini, I dintorni della solitudine,
Guido Miano Editore, Milano, 2019, pp. 103
Mi
è capitato in più di un’occasione di sottolineare il fatto che la ricerca
poetica di Nazario Pardini risulta caratterizzata da forti elementi di
continuità tanto in senso formale-stilistico che ideale-problematico.
Anche
nella silloge più recente, I dintorni
della solitudine, il riferimento alla natura si dimostra primario nella sua
dimensione di contesto privilegiato dell’espressione oggettivata degli stati
interiori, di àmbito dell’esplicitazione coinvolgente delle varie situazioni
sentimentali-morali:
Andiamo
lenti, Delia, il cielo è caldo,
lungo
è il cammino e ancóra in lontananza
la
brezza della foce. Guarda al lato:
le
chiome dei pinastri fanno attorno
ombre
rotonde olezzanti ragia
mista
al respiro fresco di marina.
E’
l’ora di nascondere le membra
fra i
rami del corbezzolo e il ginepro,
è
l’ora di dar quiete ai desideri
che
dentro noi si affacciano con impeto (…)
Sugli
aghi dei pinastri ormai ingialliti
riposeranno
il cuore e la passione (…)
Andiamo,
guarda, ora, si fa rosso,
l’orizzonte
ci chiama; camminiamo
sul
sentiero renoso, riprendiamo…( Verso la
foce, vv. 1-10, 14-15 e 21-23 )
Torna
in tali versi la sollecitazione vitalistica, il moto conativo e partecipativo
proprî, fin dai testi d’esordio, del discorso lirico pardiniano: l’acuto
desiderio d’immedesimazione si precisa come aspirazione panica, come un bisogno
di fusione, di “mescolanza” disindividualizzante, ad esempio dinanzi al fiume
Serchio in piena:
Piove
a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia
il suo letto (…)
Niente
risparmia l’acqua inferocita,
tutto
porta con sé, alla deriva.
Qui
dall’argine l’occhio si spaventa
a
mirare la potenza che sprigiona (…)
Mi
sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla
furia spaventosa della foce.
Tira
Tramontana, se Dio vuole,
fosse
Libeccio chissà che inondazione (…)
Odori di salmastro e d’acqua smossa,
di erbe trascinate contro voglia,
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un
ramoscello in mezzo al mare ( La piena
del Serchio, vv. 1-2, 6-9, 14-17 e 21-25, corsivi miei )
Ritengo
tuttavia centrale nella raccolta che ora ci occupa l’inclinazione metodica del
poeta a un interscambio intenso fra
realtà naturale e oggettiva, e umanità: alla strategia della naturalizzazione degli atteggiamenti
umani corrisponde, in significativa antitesi, la rappresentazione soffertamente
antropizzata dei paesaggi (“E’ lo stradone./ Ci passavano carri ed asinelli,/ con ceste di raccolti;/ era un viavai. Riflette su se
stesso,/ sulla sua solitudine./ Si sente abbandonato. Guarda i campi/
senz’anima vivente. Aspetta solo/ che qualcuno lo ricordi, ripercorra,/ magari
anche a piedi, il suo tragitto”, Lo
stradone, vv. 4-12), o tout court
degli animali, come il cane Pandoro (“Ha nella testa un volto che lo amò,/ un
volto che chiedeva compagnia,/ una mano lesta a stropicciarlo./ Per lui ad ogni
arrivo era una festa,/ ed è convinto che lo rivedrà”, Pandoro, vv. 7-11), e altresì degli oggetti, quali una vecchia giacca, una
casa, un aratro, una falce:
Nel
mezzo ai tanti attrezzi è lì un po’ triste
il
falcione che più profuma d’erba (…)
La
lama arrugginita pare cinta
da
un’aria d’abbandono. Nel cortile
l’ho
portato, all’aperto, fra i richiami
di
paperi e galline. Riluceva;
mi
sembrava felice; era una spera ( Il
falcione, vv.1-2 e 12-16 )
Gli
oggetti nell’elaborazione artistico-letteraria di Pardini si segnalano per la
loro concreta, empirica determinatezza, lontana dalle raffigurazioni di
ascendenza decadentistica e pascoliana, improntate alla vaghezza delle
situazioni d’assieme e proprio per questo cariche di indefinite suggestioni
emotive, di avvolgenti significazioni simboliche; nondimeno anche il loro
specifico delinearsi nelle pagine del moderno autore toscano è in funzione di
una chiara e coerente concezione della realtà: quest’ultima appare infatti
percorsa da un’intima dinamica energetica, da un élan espansivo, insofferente di ostacoli, argini, limiti
(“L’inquieto stare chiuso dagli scogli/ senza poter sfuggire oltre le sponde”, La
solitudine del mare, vv. 40-41, cors. mio), teso a prorompere e a dilagare:
…Ora
son qui
che
ti vivo appassito dentro gli argini
stanchi
di contenerti. Forse un giorno,
come
spesso hai tentato, romperai
la loro cocciutaggine.
Verserai
il
tuo letto nei campi per disperdere
memorie
ormai sfuocate; per concederti
a
quella terra a cui donasti il sangue,
per
non lasciare a un mare senza fini
la
sacca dei tuoi anni; felice di non chiuderli
in
una immensità che ti rapina ( In una
immensità che ti rapina, vv. 20-30, corsivi miei )
Un
movimento siffatto non è comunque costante, poiché può conoscere momenti di
“caduta”, di ripiegamento, di pausa iflessiva, di solitudine meditativa: allora il recupero memoriale, la
riappropriazione intellettuale delle esperienze occorse costituiranno occasioni
preziose per riviverle, potenziandone magari, nel ricordo, il valore etico e
affettivo:
…Ed
il ricordo
l’ho
in saccoccia cogli altri (…)
…Ogni
tanto
me
ne riprendo uno come quando
si
gioca con i petali sui prati.
E’
come ripescare un angolino
della
vita. E’ come riviverla
col
supporto fecondo dei ricordi.
Allungarla?
Chissà… ( Vis à vis con la sorte, vv. 19-20 e 23-29, corsivi miei )
Altrove
sembra che lo scrittore affermi la superiorità di un episodio seducente della
vita a petto della memoria, per quanto deliziosa e confortante, del medesimo:
…E
se per caso
ti
trovi ad abbracciare una compagna
che
ti rende felice, vivi l’attimo,
non
ti chiedere altro; non pensare
alla
miseria umana, al suo degrado,
fingi che
quel momento sia per sempre.
E’
l’unico sistema per fregare
lo
scettro imperituro della sorte ( La
poesia si scrive, vv. 17-24, corsivi miei )
Non
vedo in questo un’apprezzabile contraddizione, data la caratteristica diadica e non dialettica della poesia di Pardini; questi, molto sensibile ai dati
contrastanti, alle antitesi che
contraddistinguono la vicenda naturale e umana, non è in egual modo predisposto
alla necessità della sintesi, pur nel
rifiuto convinto di una posizione ispirata a semplicistico, scontato
scetticismo.
E’ interessante al riguardo il componimento che sin
dal titolo rivela uno scoperto
impianto montaliano (“ Non domandarmi cose a cui è impossibile/ poter dare risposte;
non ce n’è”, Non chiedermi, vv. 1-2)
e una solida struttura gnoseologica e argomentativa, non priva di stimolanti
allusioni nietzschiane e heideggeriane:
…Non
chiedermi i perché
di
questa vita tanto imperscrutabile,
di
un cammino ridotto a brevi spazi,
di
un sentimento che ci rende tristi,
di
una solitudine che lega
il
nostro magro essere all’esistere
( ivi, vv. 14-19, corsivi miei )
A
differenza del grande poeta degli Ossi di seppia, il netto ridimensionamento
del quadro conoscitivo non implica nel “pensiero di un uomo troppo umano” come
l’autore de I dintorni della solitudine
esiti di conclamata negatività: costui perviene infine a un equilibrio fatto di
saggezza concreta e positiva:
Ti
posso dire solo delle cose
che
mi sono vicine e che hanno un corpo,
ma
non dei grandi spazi e dei tormenti
che
provo innanzi a notti senza fine
( ivi, vv. 26-29) Floriano Romboli
( ivi, vv. 26-29) Floriano Romboli
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Nota critica e analitica coinvolgente, acquisterò il libro del professor Pardini.
RispondiEliminaGrazie di questo regalo: affascinante esegesi!
RispondiEliminaRita Fulvia Fazio
Grazie di questo regalo: affascinante il linguaggio, l'espressività e la completezza dell'esegesi!
RispondiEliminaRita Fulvia Fazio