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martedì 14 maggio 2019

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "BOATI DAL PROFONDO" DI P. CINNIRELLA


Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Su iniziativa del Circolo IPLAC "BOATI DAL PROFONDO", DI PASQUALINO CINNIRELLA 

Presentato a Roma, presso il Caffè Letterario Hora Felix "Boati dal profondo", recentemente edito da "The Writer", raccoglie quaranta composizioni poetiche di Pasqualino Cinnirella: un florilegio antologico del noto poeta siciliano, a partire dalle origini fino ad oggi, che documenta   la   maturazione   costante   della   sua   scrittura  .   Nativo   di Caltagirone,   dove   vive,   l'autore   è   noto   da   tempo   al   pubblico   degli appassionati di Calliope, ma ancor più degli addetti ai lavori, tra cui inprimis Nazario Pardini, Ninnj Di Stefano Busà, Maria Grazia Ferraris, Pasquale Balestriere, Sandro Angelucci, Umberto Cerio, Maria Rizzi e molti altri che hanno dedicato attenzioni critiche ai suoi lavori.
La silloge rappresenta un percorso poetico giocato sulla nostalgia per le irripetibili stagioni della fanciullezza, di pari passo con le passate stagioni contadine,  legate  alla  sacralità  della terra   e al  sacrificio  di generazioni di uomini e donne ad essa consacrate, nella semplicità di principi etici purtroppo caduti in oblio. Non si pensi tuttavia ad una poesia sociale, magari intrisa di satire e invettive. No, questo è un canto pieno di tristezza  per  l'aridità di  un  mondo  che va smarrendo la  diritta  via, camminando indietro come i gamberi nella scala valoriale. Un canto che non   punta   il   dito   contro   nessuno,   ma   che   è   complessivamente   e malinconicamente rivolto ad una umanità che tradisce se stessa, sempre più votata ai miraggi di uno scriteriato benessere materiale.
Un   doloroso  rimpianto, in   primis,  per  la  propria humanitas,  per l'umanità       di se stesso, da cui l'autore sa e sente di essersi allontanato: "Remota realtà fuggita e mai goduta tutta", scrive. E poi: "Ora non ho più sudore sulla fronte come mio padre / e più non canto ai muli all'aratro; /
una penna, un tavolo, dei fogli e pensieri / tanti pensieri non bastano ad alienarmi / dalla noia del giorno sempre uguale. / Eppure sono stanco, come mio padre vecchio. / Ho sudore freddo alle tempie, il palmo levigato / e fresca la barba di lametta; ma più non canta / il cuore più non canta... e da tempo".
E ricorda ancora il padre, l'autore, quando "stanco la sera, / con la schiena adagiata allo stipite dell'uscio / elargiva in dono ai miei anni vivi dettami di vita. / Impartiva alla mia coscienza, intatta allora, / il suo modo giusto di vivere da uomo / con un amore che solo al ricordo mi commuove/perché domani, sperava, facessi altrettanto". Invece adesso egli scopre la fatica di "impartire stanco dopo cena, con la TV accesa / e il calore radiato fino al quinto piano, / massime e segreti perché domani anche loro / - figli
senza piume ancora nelle ascelle - / sappiano del giogo che li attende / ... /e nel guardare negli occhi i miei figli / ... / non so, non so proprio cosa dire".
La  scrittura, dolente e nostalgica, si presenta ricca di giri metaforici sempre misurati, con una base metrico-ritmica intensamente musicale, come balsamiche onde di una mite risacca sulle ferite dell'anima. "Poetica condotta in endecasillabi liberi e ben strutturati, in uno stile elegante che,
nella scelta accurata delle parole, riesce a creare una fluente, gradevole musicalità": così Norma Malacrida, esaminando questi versi di stampo tradizionale, equidistanti da elucubrazioni intellettualistiche come da effetti speciali. Una scrittura che parla di anima e che, musicale nell'impianto, ha
una   preferenza   spiccata   per   "un   dire   semplice,   privo   di   tutto quell'armamentario   retorico   che   caratterizza   gran   parte   della   poesia contemporanea", dice Nazario Pardini . Ne è prova il titolo espressamente tellurico dato alla silloge, Boati dal profondo, con un chiaro riferimento, si al vulcanismo della terra sicula, ma anche e in primo luogo a quelle verità che giacciono nel profondo e che esplodono a dispetto di ogni mascheramento, di ogni ipocrisia, di ogni nostra  mala volontà. I temi religiosi si incastrano, nel ductus poetico, con un  malinconico esistenzialismo, sia pure mai disperato, giocato sui temidella perdita e della privazione, dell'assenza e della precarietà: termine, questo, da cui non a caso nasce  preghiera. Attenzione però: c'è una preghiera che si rivolge querula al divino, per implorarne favori, e c'è una Preghiera atipica- così la definisce l'autore - che all'improvviso affiora dal cuore dell'uomo per risvegliarne la sovrumanità.
Ed è la vera preghiera: "Si apriranno sempre spazi infiniti / verso Te che rinverdisci la mia essenza offesa: / ente proteso al poi / per godere senza limiti / dell'essere vero nell'io Tua immagine". Come dire: aiutati che Dio t'aiuta. La vera preghiera non è un pianto, ma un inno festoso: "Elevo piano le mie mani al sole / e canto alla vita un inno, / un salmo – che invento dal profondo". La falsa preghiera è quella che il poeta condanna in Pater noster del 3° millennio, dove esplicitamente dice: "Padre nostro che sei nei cieli, / per santificare il tuo nome quaggiù, / abbiamo chiuso Tuo figlio a più mandate / nelle chiese vuote e al buio, liberi così di fare, / come sempre, la sola - nostra mala volontà".
Parole terribili, nate da sincera e impietosa autocritica, che attribuisce la responsabilità dell'      Eden disfatto esclusivamente alla nostra accidia, alla nostra cattiva volontà. E' una descrizione impietosa di quanto accade e continuerà ad accadere ad un'umanità che smarrisce il senso della fratellanza e della comunione edenica, e non sembra riuscire a scrollarsi "dal dorso doloroso / quel fardello che ha tarpato da sempre / l'anelito del volo, le ali della speranza". Così, uscito dall'Eden, Adamo viene a trovarsi nella "pena di esistere", in una "terra di subbugli", "esule" e "straniero alla sua   casa".      riesce   a   sentire   rimorso   per   il   "grido   del   Golgota", annebbiato com'è dal primordiale misfatto che "sulla zolla attonita stillò / il primo sangue del giusto".
La speranza tuttavia non muore per questo, seppure proiettata in un domani e in un altrove imprecisati. Non sarebbe una chimera la speranza, né un miraggio nel deserto, se l'uomo volesse davvero realizzare ciò che sogna, rimodellandosi secondo stampo originario, secondo la sua vera natura: "Di profondi lunghi silenzi ho bisogno / nel mio intorno - al mio
interno, / per riprendere me stesso / che arranca ormai da tempo / al fine di rifarmi, nel mio giorno / al crepuscolo, nuovi gli assetti". Ma la fragilità e la debolezza   finiscono   per   farla   da   padrone:      tenace   nell'addio   la speranza / ma geme consueta nella sera". Così, all'alba della vita si è ricchi di progetti e carichi di voglia di fare, mentre al crepuscolo, si tirano le somme   e   si   fanno   i   bilanci,   ahimè   sempre   negativi,   della   passata esistenza.
La promessa di vita e di ardori vitali, propri della giovinezza, viene puntualmente delusa da una realtà ladra di sogni, pronta ad elargire mali d'ogni   sorta   e   natura.   Si   va   dall'alba   al   tramonto,   dalla   primavera all'autunno, dai verdi anni agli anni senili, con una progressione inesorabile che volge dall'esultanza alla tristezza, dall'accensione allo spegnimento, dall'inizio alla fine. Eppure il poeta sa che nessuno vieterebbe al vecchio, volendo, di essere e restare ancora bambino. Se ciò accade, e non c'è dubbio che possa accadere, allora si può ancora credere nell'uomo, giacché tutto è demandato alle sue scelte, alla sua voglia di vivere anziché di lasciarsi vivere, alla sua ricerca di un paese innocente: "il bene è con noi/ in quel mare di fango che ci annega / - basta tenerci per mano -".
Da qui inni all'amore, all'unione, alla concordanza universale. Da qui gli affetti familiari, insostituibili. E meravigliosa l'intesa con la propria donna: "Coglieremo nella quiete, / nell'angolo in penombra sul sofà / grappoli di sogni appesi alla memoria / tra pampini d'attesa / e brilleranno le iridi che sanno ogni cosa / del mio travaglio a vivere". Struggente il ricordo dello zio cieco, per non parlare di quello del bimbo mai nato: "Addio mio piccolo marinaio / saremmo stati tanto bene insieme". Accettato rudemente, senza lacrime, il dolore diviene propellente di gioia e amore. "Parlare quindi di polemos degli opposti, di memoria eraclitea non è certamente sbagliato, dacché sono proprio le contrapposizioni dell'essere e dell'esistere a dare forza a quest'opera", come acutamente osserva Nazario Pardini.

Franco Campegiani


2 commenti:

  1. Franco Campegiani, nel corso della serata dell'undici maggio ha affrescato l'opera del carissimo Pasqualino Cinnirella, finalmente ospite a Roma, con vibrante, calda passionalità. Ha messo in luce le tematiche care all'Autore: la saudade, il confronto tra i tempi passati e la modernità, l'attesa, il desiderio di vivere il dolore 'senza lacrime, come propellente di gioia e amore' e di coniugare il bene e il male all'interno dei giorni che ci sono dati in dote e, soprattutto di noi stessi. Ci ha incantati, come sempre. Le poesie di Pasqualino si prestavano a interpretazioni così profonde e dense di Romanticismo e, d'altronde, il nostro amico ha letto Leopardi, Foscolo e tutti i romantici e ha poi espresso la sua predilezione per Ungaretti. Un evento molto bello che Franco ha reso sublime! Grazie di cuore a lui, a Pasqualino, a Federica, a Massimo e naturalmente a Nazario!
    Maria Rizzi

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  2. Subito dopo le indimenticabili presentazioni del mio "Boati dal profondo" a Pisa e a Roma sto soggiornando a Torino, e non è stato facile reperire un PC per leggere e/o commentare ogni cosa di quanto avvenutomi, ma soprattutto per ringraziare di cuore e come dovuto tutti, dico tutti, coloro che hanno reso possibile queste presentazioni che, certamente rimarranno indelebili nella mia memoria, a partire da Serenella M. Edda C. Maria R. Franco C. Federica S. Massimo C. Silvana L. Per quanto mi riguarda è stata una esperienza che in termini di gratificazione mi ha dato molto ma molto poiché impensabile ed insperato in retrospettiva al mio passato. Ma tutto ciò lo debbo anche a Leucade nella persona del caro prof. Pardini che sin dal mio timido e trepidante ingresso su Leucade ha voluto credere nella mia poesia accogliendomi con e come Suo solito con copiosa magnanimità e disponibilità oceanica. Pasqualino Cinnirella.

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