Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Su iniziativa del Circolo IPLAC "BOATI
DAL PROFONDO", DI PASQUALINO CINNIRELLA
Presentato a Roma, presso il Caffè Letterario Hora Felix "Boati dal profondo", recentemente edito da "The Writer", raccoglie quaranta composizioni poetiche di Pasqualino Cinnirella: un florilegio antologico del noto poeta siciliano, a partire dalle origini fino ad oggi, che documenta la maturazione costante della sua scrittura . Nativo di Caltagirone, dove vive, l'autore è noto da tempo al pubblico degli appassionati di Calliope, ma ancor più degli addetti ai lavori, tra cui inprimis Nazario Pardini, Ninnj Di Stefano Busà, Maria Grazia Ferraris, Pasquale Balestriere, Sandro Angelucci, Umberto Cerio, Maria Rizzi e molti altri che hanno dedicato attenzioni critiche ai suoi lavori.
Presentato a Roma, presso il Caffè Letterario Hora Felix "Boati dal profondo", recentemente edito da "The Writer", raccoglie quaranta composizioni poetiche di Pasqualino Cinnirella: un florilegio antologico del noto poeta siciliano, a partire dalle origini fino ad oggi, che documenta la maturazione costante della sua scrittura . Nativo di Caltagirone, dove vive, l'autore è noto da tempo al pubblico degli appassionati di Calliope, ma ancor più degli addetti ai lavori, tra cui inprimis Nazario Pardini, Ninnj Di Stefano Busà, Maria Grazia Ferraris, Pasquale Balestriere, Sandro Angelucci, Umberto Cerio, Maria Rizzi e molti altri che hanno dedicato attenzioni critiche ai suoi lavori.
La silloge rappresenta un
percorso poetico giocato sulla nostalgia per le irripetibili stagioni della
fanciullezza, di pari passo con le passate stagioni contadine, legate
alla sacralità della terra
e al sacrificio di generazioni di uomini e donne ad essa
consacrate, nella semplicità di principi etici purtroppo caduti in oblio. Non
si pensi tuttavia ad una poesia sociale, magari intrisa di satire e invettive.
No, questo è un canto pieno di tristezza
per l'aridità di un mondo che va smarrendo la diritta
via, camminando indietro come i gamberi nella scala valoriale. Un canto
che non punta il
dito contro nessuno,
ma che è
complessivamente e malinconicamente
rivolto ad una umanità che tradisce se stessa, sempre più votata ai miraggi di
uno scriteriato benessere materiale.
Un doloroso
rimpianto, in primis, per
la propria humanitas, per l'umanità di
se stesso, da cui l'autore sa e sente di essersi allontanato: "Remota
realtà fuggita e mai goduta tutta", scrive. E poi: "Ora non ho più sudore
sulla fronte come mio padre / e più non canto ai muli all'aratro; /
una penna, un tavolo, dei
fogli e pensieri / tanti pensieri non bastano ad alienarmi / dalla noia del
giorno sempre uguale. / Eppure sono stanco, come mio padre vecchio. / Ho sudore
freddo alle tempie, il palmo levigato / e fresca la barba di lametta; ma più
non canta / il cuore più non canta... e da tempo".
E ricorda ancora il padre,
l'autore, quando "stanco la sera, / con la schiena adagiata allo stipite
dell'uscio / elargiva in dono ai miei anni vivi dettami di vita. / Impartiva
alla mia coscienza, intatta allora, / il suo modo giusto di vivere da uomo /
con un amore che solo al ricordo mi commuove/perché domani, sperava, facessi
altrettanto". Invece adesso egli scopre la fatica di "impartire
stanco dopo cena, con la TV accesa / e il calore radiato fino al quinto piano,
/ massime e segreti perché domani anche loro / - figli
senza piume ancora nelle
ascelle - / sappiano del giogo che li attende / ... /e nel guardare negli occhi
i miei figli / ... / non so, non so proprio cosa dire".
La scrittura, dolente e nostalgica, si presenta
ricca di giri metaforici sempre misurati, con una base metrico-ritmica intensamente
musicale, come balsamiche onde di una mite risacca sulle ferite dell'anima.
"Poetica condotta in endecasillabi liberi e ben strutturati, in uno stile
elegante che,
nella scelta accurata delle
parole, riesce a creare una fluente, gradevole musicalità": così Norma
Malacrida, esaminando questi versi di stampo tradizionale, equidistanti da
elucubrazioni intellettualistiche come da effetti speciali. Una scrittura che
parla di anima e che, musicale nell'impianto, ha
una preferenza
spiccata per "un
dire semplice, privo
di tutto quell'armamentario retorico
che caratterizza gran
parte della poesia contemporanea", dice Nazario
Pardini . Ne è prova il titolo espressamente tellurico dato alla silloge, Boati
dal profondo, con un chiaro riferimento, si al vulcanismo della terra sicula,
ma anche e in primo luogo a quelle verità che giacciono nel profondo e che esplodono
a dispetto di ogni mascheramento, di ogni ipocrisia, di ogni nostra mala volontà. I temi religiosi si incastrano,
nel ductus poetico, con un malinconico
esistenzialismo, sia pure mai disperato, giocato sui temidella perdita e della
privazione, dell'assenza e della precarietà: termine, questo, da cui non a caso
nasce preghiera. Attenzione però: c'è
una preghiera che si rivolge querula al divino, per implorarne favori, e c'è
una Preghiera atipica- così la definisce l'autore - che all'improvviso affiora
dal cuore dell'uomo per risvegliarne la sovrumanità.
Ed è la vera preghiera:
"Si apriranno sempre spazi infiniti / verso Te che rinverdisci la mia
essenza offesa: / ente proteso al poi / per godere senza limiti / dell'essere
vero nell'io Tua immagine". Come dire: aiutati che Dio t'aiuta. La vera
preghiera non è un pianto, ma un inno festoso: "Elevo piano le mie mani al
sole / e canto alla vita un inno, / un salmo – che invento dal profondo".
La falsa preghiera è quella che il poeta condanna in Pater noster del 3°
millennio, dove esplicitamente dice: "Padre nostro che sei nei cieli, /
per santificare il tuo nome quaggiù, / abbiamo chiuso Tuo figlio a più mandate
/ nelle chiese vuote e al buio, liberi così di fare, / come sempre, la sola -
nostra mala volontà".
Parole terribili, nate da
sincera e impietosa autocritica, che attribuisce la responsabilità dell' Eden disfatto esclusivamente alla nostra
accidia, alla nostra cattiva volontà. E' una descrizione impietosa di quanto
accade e continuerà ad accadere ad un'umanità che smarrisce il senso della fratellanza
e della comunione edenica, e non sembra riuscire a scrollarsi "dal dorso
doloroso / quel fardello che ha tarpato da sempre / l'anelito del volo, le ali
della speranza". Così, uscito dall'Eden, Adamo viene a trovarsi nella
"pena di esistere", in una "terra di subbugli",
"esule" e "straniero alla sua
casa". Né riesce
a sentire rimorso
per il "grido
del Golgota", annebbiato
com'è dal primordiale misfatto che "sulla zolla attonita stillò / il primo
sangue del giusto".
La speranza tuttavia non
muore per questo, seppure proiettata in un domani e in un altrove imprecisati.
Non sarebbe una chimera la speranza, né un miraggio nel deserto, se l'uomo
volesse davvero realizzare ciò che sogna, rimodellandosi secondo stampo originario,
secondo la sua vera natura: "Di profondi lunghi silenzi ho bisogno / nel
mio intorno - al mio
interno, / per riprendere
me stesso / che arranca ormai da tempo / al fine di rifarmi, nel mio giorno /
al crepuscolo, nuovi gli assetti". Ma la fragilità e la debolezza finiscono
per farla da
padrone: "è tenace
nell'addio la speranza / ma geme
consueta nella sera". Così, all'alba della vita si è ricchi di progetti e
carichi di voglia di fare, mentre al crepuscolo, si tirano le somme e si fanno
i bilanci, ahimè
sempre negativi, della
passata esistenza.
La promessa di vita e di
ardori vitali, propri della giovinezza, viene puntualmente delusa da una realtà
ladra di sogni, pronta ad elargire mali d'ogni
sorta e natura.
Si va dall'alba
al tramonto, dalla
primavera all'autunno, dai verdi anni agli anni senili, con una
progressione inesorabile che volge dall'esultanza alla tristezza,
dall'accensione allo spegnimento, dall'inizio alla fine. Eppure il poeta sa che
nessuno vieterebbe al vecchio, volendo, di essere e restare ancora bambino. Se
ciò accade, e non c'è dubbio che possa accadere, allora si può ancora credere
nell'uomo, giacché tutto è demandato alle sue scelte, alla sua voglia di vivere
anziché di lasciarsi vivere, alla sua ricerca di un paese innocente: "il
bene è con noi/ in quel mare di fango che ci annega / - basta tenerci per mano
-".
Da qui inni all'amore,
all'unione, alla concordanza universale. Da qui gli affetti familiari,
insostituibili. E meravigliosa l'intesa con la propria donna: "Coglieremo
nella quiete, / nell'angolo in penombra sul sofà / grappoli di sogni appesi
alla memoria / tra pampini d'attesa / e brilleranno le iridi che sanno ogni
cosa / del mio travaglio a vivere". Struggente il ricordo dello zio cieco,
per non parlare di quello del bimbo mai nato: "Addio mio piccolo marinaio
/ saremmo stati tanto bene insieme". Accettato rudemente, senza lacrime,
il dolore diviene propellente di gioia e amore. "Parlare quindi di polemos
degli opposti, di memoria eraclitea non è certamente sbagliato, dacché sono
proprio le contrapposizioni dell'essere e dell'esistere a dare forza a
quest'opera", come acutamente osserva Nazario Pardini.
Franco
Campegiani
Franco Campegiani, nel corso della serata dell'undici maggio ha affrescato l'opera del carissimo Pasqualino Cinnirella, finalmente ospite a Roma, con vibrante, calda passionalità. Ha messo in luce le tematiche care all'Autore: la saudade, il confronto tra i tempi passati e la modernità, l'attesa, il desiderio di vivere il dolore 'senza lacrime, come propellente di gioia e amore' e di coniugare il bene e il male all'interno dei giorni che ci sono dati in dote e, soprattutto di noi stessi. Ci ha incantati, come sempre. Le poesie di Pasqualino si prestavano a interpretazioni così profonde e dense di Romanticismo e, d'altronde, il nostro amico ha letto Leopardi, Foscolo e tutti i romantici e ha poi espresso la sua predilezione per Ungaretti. Un evento molto bello che Franco ha reso sublime! Grazie di cuore a lui, a Pasqualino, a Federica, a Massimo e naturalmente a Nazario!
RispondiEliminaMaria Rizzi
Subito dopo le indimenticabili presentazioni del mio "Boati dal profondo" a Pisa e a Roma sto soggiornando a Torino, e non è stato facile reperire un PC per leggere e/o commentare ogni cosa di quanto avvenutomi, ma soprattutto per ringraziare di cuore e come dovuto tutti, dico tutti, coloro che hanno reso possibile queste presentazioni che, certamente rimarranno indelebili nella mia memoria, a partire da Serenella M. Edda C. Maria R. Franco C. Federica S. Massimo C. Silvana L. Per quanto mi riguarda è stata una esperienza che in termini di gratificazione mi ha dato molto ma molto poiché impensabile ed insperato in retrospettiva al mio passato. Ma tutto ciò lo debbo anche a Leucade nella persona del caro prof. Pardini che sin dal mio timido e trepidante ingresso su Leucade ha voluto credere nella mia poesia accogliendomi con e come Suo solito con copiosa magnanimità e disponibilità oceanica. Pasqualino Cinnirella.
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