DA PERIPTERO. Letteratura e dintorni in Grecia
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Dal logos al
mithos, un inverso cammino
La memoria della
civiltà greco-romana viene generalmente e restrittivamente associata ai fasti
del mondo classico, ponendo in sott'ordine il ricco substrato culturale
precedente, da cui, non senza strappi traumatici, presero avvio i variegati
tracciati razionalistici della storia posteriore fino ai nostri giorni. Le
culture più arcaiche furono misteriche, non razionalistiche, e stanno lì, in
quel remoto passato, molto più che nelle astrazioni e negli artifici successivi, le nostre più
feconde e originarie radici. Il razionalismo, nel corso dei millenni, ha finito
per inaridire l'aspetto numinoso del creato, le voci intelligenti della natura
e della vita, lavorando ad un progetto di affrancamento dalle leggi elementari
che ha indubbiamente prodotto molte cose positive, ma che oramai è logoro,
esaurito, e mostra crepe e lacune.
Le nostre origini
culturali andrebbero pertanto rimeditate attentamente, spingendo lo sguardo
verso quel bagaglio spirituale più profondo, dove è attestato un rispetto per tutto
il vivente, oggi non più di moda. Animiste
vengono definite quelle culture, consapevoli delle forze numinose operanti
nel creato e nel cosmo, dell'energia intelligente e indistruttibile diffusa
dovunque dalla creazione universale e insita in ogni singolo ente. Si dirà che
ciò fu vero per i Greci, ma non per i Romani che, presi dal pragmatismo e dalle
cure dello Stato, non coltivarono mai interessi realmente misterici. Che dire
tuttavia di Giano Bifronte, corrispettivo mitologico della filosofica armonia
dei contrari? Intorno a quel mito si costruì la weltanschauung dei Latini e di molti popoli italici prima ancora
della nascita di Giove e degli olimpici dèi. Il che lascia pensare a origini
mitico-sapienziali anche per quella cultura.
Ad ogni modo la
dichiarazione di guerra promossa dal razionalismo fu sconvolgente e alimentò
l'intero tragitto della cultura occidentale fino ai nostri giorni, inseguendo
l'insano principio della divisione del logos
dalla physis per stabilire la
superiorità dell'intelligibile sul sensibile, la vittoria della ragione (tra
l'altro confusa con lo spirito) sulla cosiddetta materia bruta. Perché "insano principio"? perché la presunta
fallibilità della carne, la sua
supposta dipendenza dai bassi istinti, non è che un comodo escamotage della mente per nascondere le proprie colpe e mascherare
i propri errori. I cosiddetti inganni
sensoriali, e finanche i famigerati peccati
della carne, non sono attribuibili alla carne, sempre alleata dello spirito,
bensì alla mente che interrompe e devia l'allineamento tra i due poli. Soltanto
la mente, infatti, può mentire, e mentire in primis a se stessa, come testimonia la radice (mens) che i due termini hanno in comune.
I sensi non hanno,
né possono avere colpe di alcun genere. Allineati con le leggi cosmiche, seguirebbero
istinti infallibili cui non è consentito sbagliare. Così nell'uomo come
nell'intero vivente. Tuttavia il pregiudizio, una volta costituito, si è
consolidato nel tempo fino a diventare luogo comune, destabilizzando il
precedente primato del mithos che invece
sapeva tenere uniti i due poli - materia e spirito fusi in un solo respiro - regalando
al mondo (alla visione che l'uomo ha del mondo) quella pregnanza inestimabile
di sensi e d'anima poi miseramente smarrita. L'animismo originario (da non
confondere con il feticismo che imperversa dovunque, finanche nell'attuale
cultura tecnologica) veniva così sacrificato sull'altare della dea Ragione,
riducendo gli spazi del sacro al
languido, astratto e arido campo di una spiritualità disincarnata, devitalizzata.
Pensiamo alla
ricchezza di un mondo dove tutto è ritenuto divino (l'acqua, la roccia, i
vegetali, gli animali, il sole, gli astri, la luna, le stelle) e poniamo a
confronto questa ricchezza con il povero e desolato pianeta che ci hanno
lasciato le sconsiderate filosofie successive, nate e cresciute all'insegna
della separazione tra materia e spirito. Da qui il corpo maltrattato, quello
femminile principalmente (stante la relazione della materia con la mater), ma
in modi indiretti anche quello maschile, ovviamente collegato. Per non parlare
della terra inquinata, dei mari e dei cieli, ma soprattutto degli animi. Si è
dibattuto a lungo, e si dibatte ancora in sede antropologica, sulla valenza e
sulla reale portata del matriarcato. Non è chiaro se sia realmente esistita una
forma di dominio femminile che abbia comportato la sudditanza del sesso forte.
Il mito amazzonio
sembrerebbe confermarlo, ma ciò che più conta, in questa sede, è il riferimento
più o meno storico, ma senza alcun dubbio archetipo, ad un'età dell'oro di pacifica convivenza tra i due poli, così come
documentano le culture native di ogni tempo e luogo. Si pensi all'abbraccio Yin-Yang del taoismo orientale. Si pensi
agli Indiani d'America, come pure, in area mediterranea, all'abbraccio fra
Madre Terra e Padre Cielo. Non si confonda tuttavia questo abbraccio con il panteismo
che schiaccia il divino nel mondo. Qui si parla di relazione, non di identificazione, tra i due poli. Fu il razionalismo a
stravolgere la visione sorgiva ed armonica dei greci arcaici, come di ogni altro
popolo nativo, aperto ai venti della natura e del cosmo. Così gli uomini
iniziarono a pensare al proprio autonomo destino non più in sintonia, ma in
antitesi alla natura e alle sue leggi.
E fu l'antropocentrismo:
l'avvio ossia di quella cultura che considera l'universo al servizio dell'uomo,
anziché pensare all'uomo quale "custode dell'Eden" (così si dice nel Genesi), filialmente devoto nei
confronti del cosmo intero. Di certo la polis
greca non può essere paragonata alle metropoli dei nostri tempi, ma il
greco classico, contrariamente al greco arcaico che si sentiva avviluppato nei misteri
del creato, dovette maturare, in virtù del suo fiero razionalismo, visioni
trasgressive e inedite, labirintiche e tragiche, di separazione dagli elementi.
Più o meno fino al quinto secolo, il pensiero greco fu sintonizzato sul mondo
della natura e non avvertì differenze tra quel mondo e l'universo umano. Fu
quella la cosiddetta età della sapienza, interrotta dall'avvento dell'età della ragione dove gli uomini iniziarono
a prendere le distanze dalla physis,
dalle leggi primigenie del creato.
Interessante, in
tale passaggio, la posizione dei sofisti che dichiararono la sconfitta della physis di fronte al nomos, legge arbitraria e disperata delle poleis, dove trionfano gli incontrastati particolarismi umani. La
posizione di Socrate, al riguardo, è degna della massima attenzione. La verità comune di cui egli parla coincide
con la verità individuale, con la
verità del daimon che, attraverso
l'autocritica, conduce alla concordanza universale. Il che cos'è socratico (ti esti?)
non è la premessa dell'attività teoretica, come si è equivocato, ma è la
domanda che l'intelletto pone al proprio daimon
interiore. Socrate invita i suoi interlocutori a fare autocritica, a
interrogare se stessi, il proprio faro interiore, prima di fare qualsiasi
affermazione. I suoi sforzi pertanto sono tutti indirizzati verso
l'abbattimento dell'arroganza intellettuale, ed è un grave torto attribuirgli
il ruolo di fondatore dell'attività teoretica, come è stato fatto a partire da
Platone.
La sua sapienza non
è concettuale, ma spirituale, ed il suo impegno pubblico non è che l'invito ad
una convivenza fondata sulla presa di coscienza di se stessi. Socrate, vero
spartiacque nella storia del pensiero, viene solitamente indicato come
antesignano del razionalismo dialettico, trascurando la sua figura di geniale compitore
del pensiero misterico, con lui giunto alle profondità del "conosci te
stesso". Molto più che precursore dei post-socratici, egli fu in realtà
l'ultimo dei pre-socratici, dei quali sunteggia e conclude magistralmente il pensiero.
Dopo di lui la supremazia del logos sulla
physis divenne luogo comune
attentando agli equilibri dell'armonia dei contrari. Per capire ciò che accadde
può giovare una breve analisi di quel movimento spirituale che va sotto il nome
di Orfismo, dove si riassume il senso catastrofico della sconfitta e
dell'impotenza, trascinando ineluttabilmente la metafisica negli orizzonti
della tragedia classica.
Il metafisico e
melico Orfeo ben rappresenta la cultura della perdita e dell'assenza. Egli, che
ha conosciuto un bene poi smarrito irrimediabilmente, precipita nella
disperazione totale quando si accorge di aver perduto per sempre Euridice. E'
il modello dell'uomo che pretende una vita tutta rose e fiori. Nella sua follia e nei suoi ingannevoli incanti c'è
davvero anticipata tutta intera la vicenda del razionalismo occidentale, dalle tronfie
premesse metafisiche alle conseguenze nichiliste dei nostri tempi, dove
l'umanità è definitivamente uscita dalle arcigne e vivide armonie edeniche. Non
più contento, l'uomo, di sfidare gli elementi, sta oramai sovvertendo ogni
elementare legge del creato, rintanando in un astratto mondo di plastica che
vorrebbe far passare per mondo reale.
E' questo purtroppo
il desiderio dell'odierno homo sapiens
sapiens, ed è una speranza che non può sopravvivere, dacché non può esserci
spazio, nel creato, per progetti che attentano alla salute del creato stesso. Occorre
pertanto, e davvero, scoprire la sapienza
di cui ci fregiamo, invertendo il cammino che dal mithos ha condotto nel logos,
separando diabolicamente ciò che è unito e unito deve restare. Bisogna tornare
alla sophia non ancora decaduta a
sofismo saccente e disperato. A quella sophia
che - così certificano Pitagora e Platone - aveva preceduto la philo-sophia al tempo in cui gli uomini
erano ammessi alla presenza degli dèi: età dei miti, che non erano fiabe o giuochi
di gratuita fantasia, bensì svelamenti dei
segreti e del senso profondo della vita, affiorati nel clima confidenziale dell'umano
col divino.
Poi il sospetto, la
sfiducia, la sfida... la caduta. Zeus - per gelosia o altro - nascose il fuoco
(della sapienza) agli umani e Prometeo lo rubò a sua volta agli dèi per farne
di nuovo dono all'umanità. Inutile gesto magnanimo. Gli uomini, a grande
maggioranza, non sentirono proprio quel dono e lo vissero come usurpazione,
sfruttandolo maldestramente, ignari dei rischi e della pericolosità. Così, da sapienti, si trasformarono in imitatori,
in amici della sapienza (più tardi in
detrattori plateali) e in ciò consiste la philo-sophia,
ben diversa dalla sophia di cui erano
stati depositari nei mitici tempi in cui erano vissuti a contatto con la
divinità. La filosofia s'impadronì del campo, convinta che la ragione, da sola,
possa bastare, rendendo l'uomo monocorde, unidimensionale, assolutamente non
problematico, contrariamente a quanto si è sempre voluto far credere.
L'interruzione del
dialogo interiore comporta un blackout
che offusca nell'uomo l'equilibrio, la padronanza di sé: quel buon senso, o sesto senso (divino), in tutto simile
all'istinto animale, che nessuna scuola può insegnare e che attende che l'uomo torni
a se stesso, alle proprie radici universali. Ben vengano tutte le scuole e
tutte le conoscenze. I libri sviluppano l'intelletto, ma la sapienza succhiata
insieme al latte materno è un'altra cosa. Presente dalla nascita, la si
dimentica durante la crescita, ma la si riconquista crescendo in quella fede in
se stessi che è paradossalmente dubbio profondo e macerazione interiore. L'orizzonte
della sapienza sta qui, per cui il sapiente non va confuso con il saccente, con
il verbivendolo, con lo sputasentenze: "colui che sa non parla e colui che
parla non sa", avverte Lao Tze.
Socrate conferma la
portata autoanalitica del vero sapere, per cui conoscere è ricordare, è conoscere
se stessi. Per diventare ciò che si è,
dice Ralph Waldo Emerson. Cosa accade invece ad Orfeo? Di ritorno dall'Ade, si
volta per guardare Euridice, separando il visibile dall'invisibile e cedendo
alle tentazioni della dea Ragione. La realtà si allontana dal sogno e lui, da
cantore dell'Essere, si fa aedo del Nulla. Così i suoi voli precipitano, come
quello di Icaro, in un franare rovinoso. L'Orfismo testimonia davvero il
passaggio dall'età fanciullesca e sapiente dei miti all'età della smaliziata e
disperata ragione. Se lo confrontiamo con i misteri di Eleusi, ci accorgiamo di
differenze abissali. Euridice e Persefone hanno un tratto in comune:
sprofondate entrambe nell'Ade, vengono entrambe risucchiate alla luce.
Dove però Persefone
emerge dagli Inferi per portare la primavera, Euridice non riesce a tornare
alla vita e scompare definitivamente nelle nebbie dell'Ade. La discesa nella
profondità degli abissi mostra la propria fecondità solo se si riesce a risalire
in superficie rinnovati. La Sapienza sta lì, non possiamo trovarla nella
disperazione di Orfeo, anche se di quella disperazione colui che rinasce si
nutre. Orfeo, come Icaro, non risorge, ma precipita al suolo. Personaggi a una
sola dimensione, che pensano di poter sfidare le tenebre, mentre è soltanto
nelle tenebre che la luce può apparire. Icaro non sa che per poter volare
occorre restare ancorati al suolo. Non sa che per andare in alto bisogna
portare sulle spalle il peso di una croce. Sta qui l'Eden, qui il luogo della
sapienza e dell'alleanza, qui il luogo del dialogo fra spirito e ragione, fra
uomo e creato, fra Eva e Adamo, fra umano e divino.
Si può rinascere, è
questa la grazia che dona sophia.
Troviamo questa grazia in tutti i miti bifronti, sul modello dell'Araba fenice:
morte e rinascita, rinascita e morte in un'altalena infinita. Del mito c'è
estremo bisogno per superare l'impasse di
una cultura omologata e stantia, naufragata nel Nulla e priva di entusiasmi,
non più vogliosa di nuove avventure. Non sto parlando di mitologia ripetitiva e stanca, ma di mitopoiesi, di mito allo stato sorgivo. C'è bisogno di forti scosse
per abbandonare la rotta del razionalismo imperante, che tutto divide, e tornare
a navigare nelle acque arcigne e vivide dell'armonia dei contrari. Occorre dar
corpo a una reinvenzione possente del senso della vita. Orfeo non ce la fa a
rinascere dalle proprie sventure. Non riprende animo, come Ulisse, il
leggendario e omerico eroe. Odisseo, al contrario, è sempre nell'Eden.
Altalenante e
mutevole, vive nell'armonia dei contrari.
Non è certo immune dalle tragedie e ben conosce i fallimenti esistenziali. Fa
però tesoro di ogni insuccesso, cibandosi delle sue stesse delusioni. Non è un
eroe decadente, come il mitico e seducente cantore, ma di certo è anche un
perdente, uno cui il fato riserva un'infinità di sventure. E' molto spesso un
naufrago, cui tuttavia il naufragio occorre per ricostruire il vascello e
meglio orientare la prua. E' un eroe autocritico, allenato alla revisione
costante dei propri schemi mentali. Il suo scopo non è dominare sul mondo, ma
padroneggiare se stesso, giacché è di ciò che ha bisogno per potersi
confrontare con l'ignoto. La sua visione del mondo è agli antipodi di ogni
concezione statica o definitiva, per cui ogni fine corrisponde a un principio,
ogni nascita a una morte, e così via all'infinito.
Ulisse propone una
visione evolutiva e fluida, non statica o schematica della psiche. Ha una
personalità diametralmente opposta a quella di Orfeo che si dispera e si blocca
di fronte alla tragica scomparsa di Euridice. Omero ed Orfeo, i due mitici
padri della poesia, sono fautori di due diverse ed opposte concezioni del mito.
Il primo è immerso nell'armonia dei contrari, imperniata sull'incontro
dell'umano col divino. Il secondo nasce nel segno della maledizione e della
cacciata, nel clima ascetico-iniziatico che separa l'anima dal corpo, la realtà
dal sogno, il bene dal male, il maschile dal femminile e l'umano dal divino. Dove
l'aedo ionico canta gli umani e i celesti in una familiarità mai interrotta o
abbandonata, il tracio tenta di catturare gli dèi con il canto perché se ne
sente (ingiustamente) abbandonato. Ed è
l'avvento della dea Ragione.
Franco Campegiani
BIBLIOGRAFIA
* Franco
Campegiani, "Ribaltamenti", "David and Matthaus" 2017;
* Mircea Eliade, "Lo sciamanismo e le
tecniche dell'estasi",
Edizioni Mediterranee 1974;
* Johann Jakob Bachofen, "Il
matriarcato", Einaudi 2016;
* Marija Gimbutas, "Il linguaggio della
dea", Venezia Edizioni 2008;
* Julius Evola, "Rivolta contro il mondo
moderno", Edizioni Mediterranee
1988;
* Giorgio Colli, "La nascita della
filosofia", Adelphi 1975;
* Ralph Waldo Emerson, "Pensa chi
sei", Donzelli Editore 2009;
* Frazer James George, "Il ramo
d'oro", Newton Compton 2016;
* Joseph
Campbell, "L'eroe dai mille volti", Guanda 2000;
* Esiodo, "Le opere e i giorni",
Garzanti 2008.
Periptero, la rivista che raccoglie contributi originali e anche divulgativi di cultura greca, pubblica una sintesi della meditazione filosofica di F. Campegiani, dopo il suo noto saggio Ribaltamenti, e ribadisce con convinzione filosofica e con consapevolezza documentaria (V. bibliografia) il pensiero critico originale dell’Autore. Una meditazione articolata esaustiva.
RispondiEliminaRiesce infatti a coinvolgere anche i filosofi contemporanei (come Antonio Gargano) ricordato da Cinzia Baldazzi nel suo saggio di commento: “ Emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo,…” , pensiero di origine kantiana, e anche la riflessione dello psicologo: “Abbiamo ragione di credere che inizialmente non esista alcuna distinzione tra il mondo interno e quello esterno. Stimoli e sensazioni appartengono tutti alla medesima categoria, e la differenziazione tra l’io e il mondo esterno avviene solo gradatamente, a mano a mano che l’io si sviluppa.” Non mancano gli spunti che interessano il letterato, tesi a sottolineare l’importanza della relazione, già intravista dal Leopardi che valorizzava il recupero del pensiero prelogico e antischematico degli avi…Agli storici-antropologi si offre la possibilità di riflettere sul matriarcato, sul mito amazzonio, il riferimento archetipo, “ ad un’età dell’oro di pacifica convivenza tra i due poli, così come documentano le culture native di ogni tempo e luogo”. Ai filosofi è data l’occasione di rivedere il contributo di alcune figure esemplari , decisive per il discorso di Campegiani: Socrate in primis, Eraclito, Platone, Emerson, Wittgenstein… Il tema della mitopoiesi ripropone poi il ripensamento su Giano bifronte, Prometeo, Orfeo, Euridice e Persefore, Ulisse, in termini nuovi e tutti da approfondire, fuori dai luoghi comuni delle letture omeriche scolastiche tradizionali, approfondendo il tema della sapienza, e riflettendo sull’ipotesi del percorso unitario, dal logos al mithos, che intende destabilizzare le pseudo certezze razionalistiche, auspicato dall’ Autore in questa coinvolgente ed esaustiva riflessione di rilettura critica.
Sono molto grato a Maria Grazia Ferraris per questo commento chiaro ed empatico, molto esplicativo. Da raffinata e profonda umanista, oltre che da amica, non poteva sfuggirle l'intento del mio scritto: quello di approfondire il tema della sapienza atavica, di contro alle "pseudo certezze razionalistiche" che da troppo tempo la fanno da padrone. Grazie per la condivisione.
RispondiEliminaFranco Campegiani