FRANCESCO D’EPISCOPO E LA SERENA INQUIETUDINE
DI IMPERIA TOGNACCI
Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
“[…]
Ogni poeta ha le sue vite, le sue storie, i suoi autori e, se il linguaggio
risente inevitabilmente di una serie di inconsce influenze, che il critico non
può che provare ad indovinare, egli resta un’isola in un grande arcipelago di
forme e contenuti, che non conviene mai, alla maniera crociana, definire
categoricamente ora felici ora infelici.
Nel caso specifico in esame, la Tognacci, pur risentendo,
dichiaratamente, di particolari suggestioni, prima fra tutte quella pascoliana, che avrebbe potuto rischiare di diventare,
sulla scia degli studi di Edoardo Sanguineti, crepuscolare, non cede a questa
non trascurabile tentazione e si inventa una sorta di universo sauvage, tutto suo, controllato tuttavia
da una sempre scaltrita conoscenza tecnica della poesia contemporanea. Lontana
dalle neo-avanguardie, ne crea una, tutta personale, fatta di parole e cose
familiari ma anche universali, nelle quali potersi riconoscere integralmente,
sinceramente, umanamente […]”.
Il secondo capoverso - tratto dal Post-scriptum dell’autore -
è integralmente e opportunamente riportato in quarta di copertina
dell’edizione, che Genesi ha dato alle stampe, della monografia che Francesco
D’Episcopo ha dedicato alla poesia della Scrittrice romagnola.
Ho inteso iniziare da qui (e, per la ragione che esporrò, ho
ritenuta appropriata la scelta dell’Editore) perché sono convinto che nel
lacerto si possono contemporaneamente rinvenire tanto il valore della scrittura
esegetica quanto quello della poetica dell’Autrice presa in considerazione.
Per quanto concerne lo studio del Saggista (consapevole del
fatto che non è mai semplice intervenire criticamente su testi che si
propongono lo stesso fine sull’opera creativa) mi sento, tuttavia, spinto a
farlo data la competenza e la non comune capacità interpretativa dello stesso,
convenendo su quanto si legge in bandella di quarta: “Il suo metodo critico si
contraddistingue per una sorta di ri-creazione dell’opera attraverso la
conoscenza di tutto ciò che è stato propedeutico all’opera stessa, per arrivare
a un giudizio complessivo equo e articolato.”. Una procedura sistematica che
ritengo ineludibile e conditio sine qua
non per il corretto e non
prevaricante avvicinamento al mondo interiore di un autore e di un poeta in
modo particolare; non un’ingerenza, dunque, ma un’interposizione volta
unicamente a fornire un proprio e onesto contributo alla comprensione ed alla
introiezione.
Imperia Tognacci è nata a San Mauro di Romagna (così si
chiamava il suo paese prima che il nome fosse cambiato in onore del grande
poeta cui, come alla Nostra, dette i natali). Bene fa, dunque, il Curatore a
prendere le mosse dalla “matrice pascoliana” presentandoci per prime due opere
- una del 2002 e l’altra del 2006 - che, indubbiamente, fanno da apripista alla
completa comprensione della Weltanshauung della destinataria del saggio
monografico.
Dalla prima, Giovanni
Pascoli. La strada della memoria, un racconto in prosa poetica, parafrasando
lo stesso D’Episcopo, si evince che anche per la poetessa - come accadde per il
suo conterraneo - “la morte si combatte con la vita”: Imperia ripercorre la sua
storia e riesce nel tentativo di trasformare la morte reale dei suoi cari in
qualcosa di assolutamente vivo raggiungendo un appagamento, un risarcimento da
parte di quella “ineliminabile inquietudine interiore” - che è, poi, Inquietudine dell’infinito (come recita
il sottotitolo della monografia) - tipicamente ascrivibile al poeta.
E l’errore più macroscopico in cui si possa cadere è quello di
pensare ad una pedissequa imitazione di un modello. Tutt’altro che passiva è la
scelta. Nel momento in cui ripercorre la storia del “suo” Pascoli, “grazie ai
racconti e ai ricordi dei suoi compaesani”, la Tognacci ha il merito
d’immergersi totalmente nella “sua Romagna” e, conseguentemente nella vicenda delle
“sue” stagioni (“[…] Tutto questo - scrive dopo aver parlato del mare, del
Sole, del cielo dei suoi luoghi -…è vita e resta vita. Non ci sono più le
lavandaie al fiume…o gli aratri, ma è sempre viva l’immagine sottratta al
tempo…e resiste nella precarietà del tutto”).
Nella seconda, a mettersi in evidenza sono passi poetici
ontologicamente rilevanti che mi piace riportare così come ha fatto il Saggista:
“L’essere è un dono, non del tutto / la vita t’appartiene. Non vedi?” (Dalle Sirene); “Non c’è confine nel
sangue umano / che circola, né nella linfa che scorre // nel fiore nato ai
piedi di lapide gelida.” (Nel vento, nel
sole); “Sei carne di vergine terra che attende / carezze di vento che
polline / porti per aprire il suo grembo // al dinamico incontro. Sei voce / di
seme disperso nel solco / che vive nel canto del grano.” (Zvanì. Canto per la tessitrice, I). “Una ‘tessitura’ allitterativa
di rara finezza espressiva”. “Una lezione di libertà e umiltà, - dirà
D’Episcopo, concludendo il capitolo - che affonda le radici…in una democrazia
dello spirito che resta l’unica e insostituibile forma e forza dell’essere e
della sua sostanza più elementare ed esemplare.”.
Lo Studioso passerà poi ad esaminare Le singole sillogi, nell’analisi delle quali, ai temi già esposti,
si aggiungerà quello del rapporto uomo-Dio. Confronto che la Poetessa vive da credente
ma non senza tormento: “Ho poco tempo dinnanzi ai miei passi, // Padre, la
croce, la pietra sepolcrale, / la resurrezione, falle aspettare. (…)” (Falle aspettare). “Notazioni di non
scarso rilievo, che mirano a sottolineare la densa e intensa umanità del
Cristo” - scriverà ancora D’Episcopo -inserendo in tutto ciò la natura, il suo
esserGli ed esserci Madre primigenia in “una corrispondenza d’amorosi sensi” e
nel dramma del matricidio “in cui l’uomo mostra di aver tradito il patto
d’amore con chi lo ha partorito”.
Ma non si può terminare senza fare parola del capitolo-chiave:
contenuto ne La svolta poematica: Nel bosco, sulle orme del pastore
rappresenta - anche a detta dell’Autore della monografia - la partecipata
accoglienza della terra della “serena inquietudine” della nostra Imperia. Con i silenzi e lo stormire delle foglie tra
gli alberi, nei boschi , la “selva intricata” del suo cuore “si scioglie al
calore / di fiaccole ardenti di nenie / e di speranze antiche”.
“[…] La Tognacci, in qualche modo, ripropone i termini di un
destino, che sa di autunno ma sogna la primavera. […] Il bosco diviene metafora
di una natura che ti protegge con la sua potenza e di cui l’uomo si sente
orfano, immerso com’è in una dimensione innaturale che non gli appartiene.”,
ancora l’esimio Saggista.
Il dialogo, le domande e le risposte di Aristeo - il pastore -,
svelano definitivamente l’essenza di questa poetica: “E tu, non senti l’energia
/ che proviene da sconosciuto fulcro / e che ogni filo d’erba invade?”; “io
sono solo energia / pensante nel chiarore astrale…”
Ecco: questa è l’unica via d’uscita; il misterioso magnetismo
ci attrae e ci respinge e, come Aristeo, non ci dobbiamo curare di non avere
più l’agnello sulle spalle e dello staio vuoto, nostro fine è innamorarci
dell’infinito mistero di cui facciamo parte ed essere consapevoli di un amore
ricambiato sempre, anche quando non sembrerebbe, anche quando la nostra ombra -
divenuta enorme - ne copre il fulgore.
Sandro Angelucci
Francesco D’Episcopo. La poesia di Imperia Tognacci. Genesi Editrice. Torino. 2019. Pp.96 €
11,00
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