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giovedì 16 maggio 2019

SANDRO ANGELUCCI LEGGE: "F. D'EPISCOPO. LA POESIA DI I. TOGNACCI"


FRANCESCO D’EPISCOPO E LA SERENA INQUIETUDINE
DI IMPERIA TOGNACCI

Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade


“[…] Ogni poeta ha le sue vite, le sue storie, i suoi autori e, se il linguaggio risente inevitabilmente di una serie di inconsce influenze, che il critico non può che provare ad indovinare, egli resta un’isola in un grande arcipelago di forme e contenuti, che non conviene mai, alla maniera crociana, definire categoricamente ora felici ora infelici.
       Nel caso specifico in esame, la Tognacci, pur risentendo, dichiaratamente, di particolari suggestioni, prima fra tutte quella pascoliana, che avrebbe potuto rischiare di diventare, sulla scia degli studi di Edoardo Sanguineti, crepuscolare, non cede a questa non trascurabile tentazione e si inventa una sorta di universo sauvage, tutto suo, controllato tuttavia da una sempre scaltrita conoscenza tecnica della poesia contemporanea. Lontana dalle neo-avanguardie, ne crea una, tutta personale, fatta di parole e cose familiari ma anche universali, nelle quali potersi riconoscere integralmente, sinceramente, umanamente […]”.
       Il secondo capoverso - tratto dal Post-scriptum dell’autore - è integralmente e opportunamente riportato in quarta di copertina dell’edizione, che Genesi ha dato alle stampe, della monografia che Francesco D’Episcopo ha dedicato alla poesia della Scrittrice romagnola.
       Ho inteso iniziare da qui (e, per la ragione che esporrò, ho ritenuta appropriata la scelta dell’Editore) perché sono convinto che nel lacerto si possono contemporaneamente rinvenire tanto il valore della scrittura esegetica quanto quello della poetica dell’Autrice presa in considerazione.
       Per quanto concerne lo studio del Saggista (consapevole del fatto che non è mai semplice intervenire criticamente su testi che si propongono lo stesso fine sull’opera creativa) mi sento, tuttavia, spinto a farlo data la competenza e la non comune capacità interpretativa dello stesso, convenendo su quanto si legge in bandella di quarta: “Il suo metodo critico si contraddistingue per una sorta di ri-creazione dell’opera attraverso la conoscenza di tutto ciò che è stato propedeutico all’opera stessa, per arrivare a un giudizio complessivo equo e articolato.”. Una procedura sistematica che ritengo ineludibile e conditio sine qua non  per il corretto e non prevaricante avvicinamento al mondo interiore di un autore e di un poeta in modo particolare; non un’ingerenza, dunque, ma un’interposizione volta unicamente a fornire un proprio e onesto contributo alla comprensione ed alla introiezione.
       Imperia Tognacci è nata a San Mauro di Romagna (così si chiamava il suo paese prima che il nome fosse cambiato in onore del grande poeta cui, come alla Nostra, dette i natali). Bene fa, dunque, il Curatore a prendere le mosse dalla “matrice pascoliana” presentandoci per prime due opere - una del 2002 e l’altra del 2006 - che, indubbiamente, fanno da apripista alla completa comprensione della Weltanshauung della destinataria del saggio monografico.
       Dalla prima, Giovanni Pascoli. La strada della memoria, un racconto in prosa poetica, parafrasando lo stesso D’Episcopo, si evince che anche per la poetessa - come accadde per il suo conterraneo - “la morte si combatte con la vita”: Imperia ripercorre la sua storia e riesce nel tentativo di trasformare la morte reale dei suoi cari in qualcosa di assolutamente vivo raggiungendo un appagamento, un risarcimento da parte di quella “ineliminabile inquietudine interiore” - che è, poi, Inquietudine dell’infinito (come recita il sottotitolo della monografia) - tipicamente ascrivibile al poeta.
       E l’errore più macroscopico in cui si possa cadere è quello di pensare ad una pedissequa imitazione di un modello. Tutt’altro che passiva è la scelta. Nel momento in cui ripercorre la storia del “suo” Pascoli, “grazie ai racconti e ai ricordi dei suoi compaesani”, la Tognacci ha il merito d’immergersi totalmente nella “sua Romagna” e, conseguentemente nella vicenda delle “sue” stagioni (“[…] Tutto questo - scrive dopo aver parlato del mare, del Sole, del cielo dei suoi luoghi -…è vita e resta vita. Non ci sono più le lavandaie al fiume…o gli aratri, ma è sempre viva l’immagine sottratta al tempo…e resiste nella precarietà del tutto”).
       Nella seconda, a mettersi in evidenza sono passi poetici ontologicamente rilevanti che mi piace riportare così come ha fatto il Saggista: “L’essere è un dono, non del tutto / la vita t’appartiene. Non vedi?” (Dalle Sirene); “Non c’è confine nel sangue umano / che circola, né nella linfa che scorre // nel fiore nato ai piedi di lapide gelida.” (Nel vento, nel sole); “Sei carne di vergine terra che attende / carezze di vento che polline / porti per aprire il suo grembo // al dinamico incontro. Sei voce / di seme disperso nel solco / che vive nel canto del grano.” (Zvanì. Canto per la tessitrice, I). “Una ‘tessitura’ allitterativa di rara finezza espressiva”. “Una lezione di libertà e umiltà, - dirà D’Episcopo, concludendo il capitolo - che affonda le radici…in una democrazia dello spirito che resta l’unica e insostituibile forma e forza dell’essere e della sua sostanza più elementare ed esemplare.”.
       Lo Studioso passerà poi ad esaminare Le singole sillogi, nell’analisi delle quali, ai temi già esposti, si aggiungerà quello del rapporto uomo-Dio. Confronto che la Poetessa vive da credente ma non senza tormento: “Ho poco tempo dinnanzi ai miei passi, // Padre, la croce, la pietra sepolcrale, / la resurrezione, falle aspettare. (…)” (Falle aspettare). “Notazioni di non scarso rilievo, che mirano a sottolineare la densa e intensa umanità del Cristo” - scriverà ancora D’Episcopo -inserendo in tutto ciò la natura, il suo esserGli ed esserci Madre primigenia in “una corrispondenza d’amorosi sensi” e nel dramma del matricidio “in cui l’uomo mostra di aver tradito il patto d’amore con chi lo ha partorito”.
       Ma non si può terminare senza fare parola del capitolo-chiave: contenuto ne La svolta poematica: Nel bosco, sulle orme del pastore rappresenta - anche a detta dell’Autore della monografia - la partecipata accoglienza della terra della “serena inquietudine” della nostra Imperia.  Con i silenzi e lo stormire delle foglie tra gli alberi, nei boschi , la “selva intricata” del suo cuore “si scioglie al calore / di fiaccole ardenti di nenie / e di speranze antiche”.
       “[…] La Tognacci, in qualche modo, ripropone i termini di un destino, che sa di autunno ma sogna la primavera. […] Il bosco diviene metafora di una natura che ti protegge con la sua potenza e di cui l’uomo si sente orfano, immerso com’è in una dimensione innaturale che non gli appartiene.”, ancora l’esimio Saggista.
       Il dialogo, le domande e le risposte di Aristeo - il pastore -, svelano definitivamente l’essenza di questa poetica: “E tu, non senti l’energia / che proviene da sconosciuto fulcro / e che ogni filo d’erba invade?”; “io sono solo energia / pensante nel chiarore astrale…”
       Ecco: questa è l’unica via d’uscita; il misterioso magnetismo ci attrae e ci respinge e, come Aristeo, non ci dobbiamo curare di non avere più l’agnello sulle spalle e dello staio vuoto, nostro fine è innamorarci dell’infinito mistero di cui facciamo parte ed essere consapevoli di un amore ricambiato sempre, anche quando non sembrerebbe, anche quando la nostra ombra - divenuta enorme - ne copre il fulgore.

Sandro Angelucci

Francesco D’Episcopo. La poesia di Imperia Tognacci. Genesi Editrice. Torino. 2019. Pp.96 € 11,00

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