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sabato 1 giugno 2019

MARISA COSSU LEGGE: "I DINTORNI DELLA SOLITUDINE" DI N. PARDINI


Nota di Marisa Cossu



Marisa Cossu,
collaboratrice di Lèucade


Dove si collocano e che cosa sono “I dintorni della solitudine”? Essi fanno pensare a sentieri scavati nelle periferie dell’anima: ne scandagliano, infatti, lo spessore e la profondità, girano intorno a nuclei che seguono le orbite immutabili della vita; ma il   cuore   del   significato   è   nel   concetto   stesso   che   il   Pardini   attribuisce   alla solitudine,  il luogo dove egli sosta pacatamente per approviggionarsi di riflessioni, atmosfere   e   memorie,   per   non   “sentirsi”   solo.   La   solitudine   pardiniana   è restituzione di pezzi di vissuto nella compiuta immediatezza  della visione poetica.

“Sono solo e l’inverno mi percuote
coi suoi venti freddi e burrascosi ./
...  La solitudine /
mi fa pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti corpi immersi dentro me,
alle grazie di giovani fanciulle .../
(La solitudine del mare)

   Quasi un ossimoro, il non sentire il peso della solitudine in quei dintorni che offrono il necessario distacco in infinite sfumature di chiarori ed ombre, senza nulla rinnegare e senza nulla perdere dell’intensità della memoria. Quei tanti corpi che costituiscono l’intera umanità del poeta sono il segno non  di una voluta accumulazione, quanto di un ritrovamento in sé dell’umana vicenda attraversata; perciò ora è qui nel suo tutto spazio-temporale, nel tempo e le stagioni, negli oggetti guardati ed appercepiti, nel mare che è la vita nella concezione del Pardini.
Nel mare umano e disumano sfocia il viaggio e si versano i viaggi del poeta, non un novello Ulisse ma un uomo, per undas, dove non  si esauriscono il gusto della conoscenza e del ritorno, ma si va in cerca di poesia in ogni granello di realtà in un appagamento estetico e conoscitivo, oltre la forza del mito. È quella del poeta, un’immersione nelle trame della poesia, viva coscienza   pronta a fare i conti con i mondi dell’esperienza coeva unita alla nostalgia della bellezza. Per questi sentieri il Pardini parla a se stesso e ai lettori, avvolto nelle immagini ineffabili delle cose che finiscono per rivestirlo di umori panici, intorno ai quali ha costruito la vita, l’esperienza, imparando ad accogliere e ad amare. In questa “oggettivazione”, il soggetto   resta   attivo   creatore   degli   eventi   descritti,   lontano   da   una   critica destrutturante e spersonalizzata, sempre pregna di “scavo”, di classicità; è un discorso a volte aspro, realistico, razionale, che nulla concede a facili retoriche o a crepuscolari intimismi:

“La portava mio padre; e mio fratello
la ereditò la giacca di velluto
con dietro il tascapane. Fu mia madre
a ricavarne un brandello. Mi diceva:
“Profuma di persona, di stagione ...”

La giacca non è più un oggetto, un pezzetto di stoffa conservato gelosamente dalle mani materne, perciò già ricchissimo di significati emotivi, è profumo di una vita di affetti, vita vera, è poesia delle cose che irradiano luce all’interno delle ombre dell’anima, è un pezzo vivo di corpi, sangue, terra, tradizioni, parole e gesti indimenticabili. L’oggettivazione semantica è un istante conoscitivo ed emotivo, allo stesso tempo: rivivono in questa zona le immagini che si dipanano innanzi agli occhi del poeta che ora porta in sé i tesori un lungo viaggio per laghi, fiumi, mari nel segreto splendore delle cose, nella meraviglia dell’eterno che vive di ritorni, atmosfere, riflessioni. Così ne “L’aratro”:

“Sono un aratro stanco, malandato
ma più delle ferite corporali
mi dolgono i risvolti della vita:
questa fine fra aggeggi logorati,
fra attrezzi arrugginiti dall’età”

Il poeta vorrebbe che qualcuno ricordasse che un tempo l’aratro sorrideva, si identifica con l’oggetto, lo riporta in vita come fosse animato. È l’anima del poeta in quell’attrezzo arrugginito, e anche qui il sentire è voce di quella solitudine in cui anche gli oggetti sono posti ai bordi dell’abisso che si prepara. Il linguaggio elegante è conseguenza di echi classici, a volte vi si scorge un ritorno alle voci del simbolismo francese; ma tutto è pardinianamente riconoscibile per la rara e netta chiarezza espressiva.
 In quei “dintorni” il poeta dispone le liriche della silloge in un modo circolare in modo che il lettore possa condurre ad unità un percorso nella natura, cioè nella vita, intesa come luogo di tutte le espressioni spirituali, umane e paesaggistiche che ispirano le composizioni. In questa visione il Pardini dà voce ad una poesia della “contemporaneità”, un vissuto pensato nel presente, come se le varie suggestioni della memoria e il sentire attuale del poeta fossero disposti su piani temporali coincidenti. Il tempo del Pardini è coscienza umana e sofferta, ciò di cui egli è fatto come persona e riverbera nella sua poetica. Egli occupa, con sempre rinnovata armonia, una   concezione del mondo che sfugge a definizioni semplicistiche, a mode o a correntismi; è un poeta universale, non un politico, non un filosofo; è ciò che   il   suo   canto   esprime   chiaramente   nei   temi   più   cari   e   nella   generosa   e affascinante   versificazione.   Ed   ecco   l’aprirsi   alla   poetica   degli   autunni   conpoderosi endecasillabi:

“L’ultimo autunno che vivremo assieme
Sarà per impolparci dei colori
Della nostra stagione. Verrà il mare
Con le sue inquiete onde a raccontarci
Storie di antichi approdi ...”
(L’ultimo Autunno)

È   nel   termine     “impolparci”   che   l’amore    per  la   vita   dolcemente   potente,   si manifesta: fare il pieno delle sensazioni, abbracciarsi, iniziare dove tutto sembra finire, provare ancora e sempre gli stessi fremiti, resi più forti dalla consapevole riflessione sulla morte:

“È arrivato l’autunno magro e stento,
ha spento ogni fulgore dell’estate
ricoprendo la sorte di un sudario
di languore e di morte ...”

“Il   fulgore   dell’estate”,   la   “morte”,   sono,   in   una   cauta   accettazione   delle metamorfosi della vita, gli opposti che si ricompongono in una ciclica alternanza. Una  forte  e disincantata  nostalgia,  la  tristezza   per le  meraviglie  trascorse,  il presagio; ma, infine, una domanda apre al pardiniano guardare oltre il simbolo, oltre l’immagine metaforica, per chiedersi con velata speranza: “ ... Spunteranno/i nuovi bocci chiusi dentro l’anima/ dei rami sonnolenti?...”. La solitudine, il tempo, gli oggetti, la morte, la terra di Toscana, gli affetti, il mare, i fiumi, sono temi ricorrenti in questa e in altre sillogi del Pardini: tutto torna a compimento nella visionaria rapina che sottrae le memorie. Il pretesto è il fiume sacro al poeta perché ha vissuto le stagioni care tra sponde misteriose su cui si materializzano ancora le figure del padre e della madre:

“... Ora son qui
che ti vivo appassito dentro gli argini
stanchi di contenerti. Forse un giorno,
come spesso hai tentato, romperai
la loro cocciutaggine. Verserai
il tuo letto nei campi per disperdere
memorie ormai sfocate ...”
(In una immensità che ti rapina)

Il fiume è restituzione d’acqua alla terra, l’orgogliosa tensione a non disperdere in un mare sconfinato, le memorie sinestetiche del poeta che a sua volta restituisce valore e senso alla” lentezza”del tempo di cui la società contemporanea ha bisogno per ritrovare il piacere dell’alterità, dell’amicizia e dalla condivisione. Ritrovare se stessi recuperando una visione del mondo che origina dai bisogni fondamentali dell’uomo, significa dare risposta a quanti prefigurano la morte della poesia, la sua inutilità epocale, al tempo della crisi. Quella del Pardini è poesia senza tempo, che parla il verbo dell’oggi comunicando con profonda chiarezza il senso della sua presenza     in   quest’epoca   dura,   è   poesia   della restituzione che   si   rivolge all’intelligenza umana:

“Non solo davanti al rifiorire
di gemme a primavera. Non solo
davanti a un orizzonte che ti annulla,
o a un sentimento d’amore o di morte,
si scrive poesia. Ma si scrive
davanti ad una chiesa solitaria ...”
(La poesia si scrive)

Si scrive perché il vissuto possiede una carica trascendentale, come dice M. Miano nella prefazione all’edizione del libro, ma anche per scoprire limiti, contorni, trincee di se stessi. Si scrive perché soltanto la parola può cogliere e restituire l’attimo fuggente, riportarlo a noi quando ne avremo bisogno, quando l’esigenza della memoria sarà irrevocabile:

“Siamo arrivati, Delia, respiriamo
l’aria selvaggia che attorno ci liscia;
respiriamo la sera, e il suo mantello
che la notte rapisce e tutto miete
meno la tua bellezza che più viva
si mischia agli incantesimi silvani ...”
( Verso la foce)

Con Delia si va verso il mare, si cammina lungo le sponde del Serchio lentamente fino alla foce che profuma di salmastro. La bellezza di Delia risplende nella sera. L’approdo è una bàttima d’amore, è il mare, la vita. Con Delia si torna a casa. Nella seconda parte del libro il poeta immagina un dialogo tra la Storia e Leonida. I due personaggi rivendicano   le   proprie   ragioni:   la   Storia   dichiara   la   sua incontrovertibile   eternità   fatta   di   guerre,   sangue   rivoluzioni   ma   anche   di civilizzazione, Leonida espone le ragioni del suo orgoglio di condottiero. Per B. Croce L’uomo è compendio della storia universale e Leonida ne rappresenta una parte che ha lasciato traccia, non solo in senso materiale, ma anche nello spirito del divenire umano. La storia eterna è sempre contemporanea, presente, e non può fare a meno dell’uomo, delle sue opere, delle sue creazioni, del suo sangue. La violenza non è mai da ritenersi vincente perché essa in realtà esprime debolezza, può distruggere, lasciare pietre e macerie, ma non può essere forza creatrice. La gloria è cultura, bellezza, arte, libertà:

“Tutto sarà passato dai miei filtri:
la libertà, la morte, la gloriosa,
vicenda dei persiani, la sconfitta,
le vittorie: tutto sarà scritto
sul mio registro fino a che avrà vita
la storia degli umani. ...”

  Conclude questa corposa silloge una lunga e densa lirica che riprende i temi fondativi della poetica del Pardini: il viaggio verso la luce, gli ostacoli , i dubbi e qualche barlume che lascia prevedere l’arrivo. Si può ricostruire la propria vita con l’aiuto delle persone care che con noi camminano sebbene già rapite dalla morte? E come farlo se non riportando a galla le memorie, immersi nell’ambiente naturale, conoscitivo ed affettivo evocato! Non resta che proseguire il cammino, sorretto dalle voci che indicano valori, poesia, bellezza:

“... forse non era luce,
forse non era,
quella che io bramavo,
ma pur sempre la luce, quella chiare,
quella di casa mia.
Chi dice che non fosse
Quella che io cercavo.”

Di certo  è parola  efficace  e illuminante  quella  di Nazario  Pardini;  musica  e riflessione a un tempo, si fa amare per la carica emotiva e per la sua forza comunicativa.

Marisa Cossu



1 commento:



  1. E' vero, quella di Pardini è una poesia senza tempo... una poesia che tocca l'anima oggi e lo farà domani perchè le cose belle e i sentimenti santi ed i pensieri onesti non si inquadrano in un certo periodo..sono eterni e sono validi, ieri, oggi e sempre. L'armonia del verso, la ricchezza del lessico, i colori, gli oggetti legati a ricordi dell'infanzia ci avvincono, ci guidano sui passi del Poeta lungo le strade della memoria, ad incontrare i suoi luoghi, i suoi affetti, a conoscere le sue emozioni . Marisa Cossu è poetessa sensibile e critico esperto e bellissima è l'analisi che fa di questo libro raffinato e semplice che parla a tutti perchè ha il pregio non trascurabile di una lingua pulita e chiara. La poesia di Pardini è custode di memorie, è tempio degli affetti che hanno forgiato lo spirito del Poeta, quegli affetti in cui ognuno di noi ritrova i propri, affetti che non ci lasciano mai, che possiamo sentire sempre vicini, come una forza , come una luce che ancora ci illumina oltre il buio.

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