Nota di Marisa Cossu
Dove si collocano e che
cosa sono “I dintorni della solitudine”? Essi fanno pensare a sentieri scavati nelle periferie dell’anima: ne scandagliano, infatti, lo spessore e la profondità,
girano intorno a nuclei che seguono le orbite immutabili della vita; ma il cuore
del significato è
nel concetto stesso
che il Pardini
attribuisce alla solitudine, il luogo dove egli sosta pacatamente per
approviggionarsi di riflessioni, atmosfere
e memorie, per
non “sentirsi” solo.
La solitudine pardiniana
è restituzione di pezzi di
vissuto nella compiuta immediatezza
della visione poetica.
“Sono solo e l’inverno mi
percuote
coi suoi venti freddi e
burrascosi ./
... La solitudine /
mi fa pensare al mondo, al
mio vagare,
mi fa pensare ai giorni
dell’estate,
ai tanti corpi immersi
dentro me,
alle grazie di giovani
fanciulle .../
(La solitudine del mare)
Quasi un ossimoro, il non sentire il peso
della solitudine in quei dintorni che offrono il necessario distacco in
infinite sfumature di chiarori ed ombre, senza nulla rinnegare e senza nulla
perdere dell’intensità della memoria. Quei tanti corpi che costituiscono
l’intera umanità del poeta sono il segno non
di una voluta accumulazione, quanto di un ritrovamento in sé dell’umana
vicenda attraversata; perciò ora è qui nel suo tutto spazio-temporale, nel
tempo e le stagioni, negli oggetti guardati ed appercepiti, nel mare che è la
vita nella concezione del Pardini.
Nel mare umano e disumano
sfocia il viaggio e si versano i viaggi del poeta, non un novello Ulisse ma un
uomo, per undas, dove non si esauriscono
il gusto della conoscenza e del ritorno, ma si va in cerca di poesia in ogni
granello di realtà in un appagamento estetico e conoscitivo, oltre la forza del
mito. È quella del poeta, un’immersione nelle trame della poesia, viva
coscienza pronta a fare i conti con i mondi
dell’esperienza coeva unita alla nostalgia della bellezza. Per questi sentieri
il Pardini parla a se stesso e ai lettori, avvolto nelle immagini ineffabili
delle cose che finiscono per rivestirlo di umori panici, intorno ai quali ha
costruito la vita, l’esperienza, imparando ad accogliere e ad amare. In questa
“oggettivazione”, il soggetto
resta attivo creatore
degli eventi descritti,
lontano da una
critica destrutturante e spersonalizzata, sempre pregna di “scavo”, di
classicità; è un discorso a volte aspro, realistico, razionale, che nulla
concede a facili retoriche o a crepuscolari intimismi:
“La portava mio padre; e
mio fratello
la ereditò la giacca di
velluto
con dietro il tascapane. Fu
mia madre
a ricavarne un brandello.
Mi diceva:
“Profuma di persona, di
stagione ...”
La giacca non è più un
oggetto, un pezzetto di stoffa conservato gelosamente dalle mani materne,
perciò già ricchissimo di significati emotivi, è profumo di una vita di
affetti, vita vera, è poesia delle cose che irradiano luce all’interno delle
ombre dell’anima, è un pezzo vivo di corpi, sangue, terra, tradizioni, parole e
gesti indimenticabili. L’oggettivazione semantica è un istante conoscitivo ed
emotivo, allo stesso tempo: rivivono in questa zona le immagini che si dipanano
innanzi agli occhi del poeta che ora porta in sé i tesori un lungo viaggio per
laghi, fiumi, mari nel segreto splendore delle cose, nella meraviglia
dell’eterno che vive di ritorni, atmosfere, riflessioni. Così ne “L’aratro”:
“Sono un aratro stanco,
malandato
ma più delle ferite
corporali
mi dolgono i risvolti della
vita:
questa fine fra aggeggi
logorati,
fra attrezzi arrugginiti
dall’età”
Il poeta vorrebbe che
qualcuno ricordasse che un tempo l’aratro sorrideva, si identifica con
l’oggetto, lo riporta in vita come fosse animato. È l’anima del poeta in
quell’attrezzo arrugginito, e anche qui il sentire è voce di quella solitudine
in cui anche gli oggetti sono posti ai bordi dell’abisso che si prepara. Il
linguaggio elegante è conseguenza di echi classici, a
volte vi si scorge un ritorno alle voci del simbolismo francese; ma tutto è
pardinianamente riconoscibile per la rara e netta chiarezza espressiva.
In quei “dintorni” il poeta dispone le liriche
della silloge in un modo circolare in modo che il lettore possa condurre ad
unità un percorso nella natura, cioè nella vita, intesa come luogo di tutte le
espressioni spirituali, umane e paesaggistiche che ispirano le composizioni. In
questa visione il Pardini dà voce ad una poesia della “contemporaneità”, un
vissuto pensato nel presente, come se le varie suggestioni della memoria e il
sentire attuale del poeta fossero disposti su piani temporali coincidenti. Il
tempo del Pardini è coscienza umana e sofferta, ciò di cui egli è fatto come
persona e riverbera nella sua poetica. Egli occupa, con sempre rinnovata armonia,
una concezione del mondo che sfugge a
definizioni semplicistiche, a mode o a correntismi; è un poeta universale, non
un politico, non un filosofo; è ciò che
il suo canto
esprime chiaramente nei
temi più cari
e nella generosa
e affascinante versificazione. Ed
ecco l’aprirsi alla
poetica degli autunni
conpoderosi endecasillabi:
“L’ultimo
autunno che vivremo assieme
Sarà per
impolparci dei colori
Della nostra
stagione. Verrà il mare
Con le sue
inquiete onde a raccontarci
Storie di antichi
approdi ...”
(L’ultimo
Autunno)
È nel
termine “impolparci” che
l’amore per la
vita dolcemente potente,
si manifesta: fare
il pieno delle sensazioni, abbracciarsi, iniziare dove tutto sembra finire,
provare ancora e sempre gli stessi fremiti, resi più forti dalla consapevole riflessione
sulla morte:
“È arrivato
l’autunno magro e stento,
ha spento ogni
fulgore dell’estate
ricoprendo la
sorte di un sudario
di languore e
di morte ...”
“Il fulgore
dell’estate”, la “morte”,
sono, in
una cauta accettazione delle metamorfosi
della vita, gli opposti che si ricompongono in una ciclica alternanza. Una forte
e disincantata nostalgia, la
tristezza per le meraviglie
trascorse, il presagio; ma,
infine, una domanda apre al pardiniano guardare oltre il simbolo, oltre
l’immagine metaforica, per chiedersi con velata speranza: “ ... Spunteranno/i nuovi
bocci chiusi dentro l’anima/ dei rami sonnolenti?...”. La solitudine, il tempo,
gli oggetti, la morte, la terra di Toscana, gli affetti, il mare, i fiumi, sono
temi ricorrenti in questa e in altre sillogi del Pardini: tutto torna a compimento
nella visionaria rapina che sottrae le memorie. Il pretesto è il fiume sacro al
poeta perché ha vissuto le stagioni care tra sponde misteriose su cui si materializzano
ancora le figure del padre e della madre:
“... Ora son
qui
che ti vivo
appassito dentro gli argini
stanchi di
contenerti. Forse un giorno,
come spesso hai
tentato, romperai
la loro
cocciutaggine. Verserai
il tuo letto
nei campi per disperdere
memorie ormai
sfocate ...”
(In una
immensità che ti rapina)
Il fiume è
restituzione d’acqua alla terra, l’orgogliosa tensione a non disperdere in un mare
sconfinato, le memorie sinestetiche del poeta che a sua volta restituisce valore
e senso alla” lentezza”del tempo di cui la società contemporanea ha bisogno per
ritrovare il piacere dell’alterità, dell’amicizia e dalla condivisione.
Ritrovare se stessi recuperando una visione del mondo che origina dai bisogni
fondamentali dell’uomo, significa dare risposta a quanti prefigurano la morte
della poesia, la sua inutilità epocale, al tempo della crisi. Quella del
Pardini è poesia senza tempo, che parla il verbo dell’oggi comunicando con
profonda chiarezza il senso della sua presenza in
quest’epoca dura, è
poesia della restituzione che si
rivolge all’intelligenza umana:
“Non solo
davanti al rifiorire
di gemme a
primavera. Non solo
davanti a un
orizzonte che ti annulla,
o a un
sentimento d’amore o di morte,
si scrive
poesia. Ma si scrive
davanti ad una
chiesa solitaria ...”
(La poesia si
scrive)
Si scrive
perché il vissuto possiede una carica trascendentale, come dice M. Miano nella
prefazione all’edizione del libro, ma anche per scoprire limiti, contorni, trincee
di se stessi. Si scrive perché soltanto la parola può cogliere e restituire l’attimo
fuggente, riportarlo a noi quando ne avremo bisogno, quando l’esigenza della
memoria sarà irrevocabile:
“Siamo
arrivati, Delia, respiriamo
l’aria
selvaggia che attorno ci liscia;
respiriamo la
sera, e il suo mantello
che la notte
rapisce e tutto miete
meno la tua
bellezza che più viva
si mischia agli
incantesimi silvani ...”
( Verso la
foce)
Con Delia si va verso il
mare, si cammina lungo le sponde del Serchio lentamente fino alla foce che
profuma di salmastro. La bellezza di Delia risplende nella sera. L’approdo è
una bàttima d’amore, è il mare, la vita. Con Delia si torna a casa. Nella
seconda parte del libro il poeta immagina un dialogo tra la Storia e Leonida. I
due personaggi rivendicano le proprie
ragioni: la Storia
dichiara la sua incontrovertibile eternità
fatta di guerre,
sangue rivoluzioni ma
anche di civilizzazione, Leonida
espone le ragioni del suo orgoglio di condottiero. Per B. Croce L’uomo è
compendio della storia universale e Leonida ne rappresenta una parte che ha
lasciato traccia, non solo in senso materiale, ma anche nello spirito del divenire
umano. La storia eterna è sempre contemporanea, presente, e non può fare a meno
dell’uomo, delle sue opere, delle sue creazioni, del suo sangue. La violenza
non è mai da ritenersi vincente perché essa in realtà esprime debolezza, può
distruggere, lasciare pietre e macerie, ma non può essere forza creatrice. La gloria
è cultura, bellezza, arte, libertà:
“Tutto sarà passato dai
miei filtri:
la libertà, la morte, la
gloriosa,
vicenda dei persiani, la
sconfitta,
le vittorie: tutto sarà
scritto
sul mio registro fino a che
avrà vita
la storia degli umani. ...”
Conclude questa corposa silloge una lunga e
densa lirica che riprende i temi fondativi della poetica del Pardini: il
viaggio verso la luce, gli ostacoli , i dubbi e qualche barlume che lascia
prevedere l’arrivo. Si può ricostruire la propria vita con l’aiuto delle persone
care che con noi camminano sebbene già rapite dalla morte? E come farlo se non riportando
a galla le memorie, immersi nell’ambiente naturale, conoscitivo ed affettivo
evocato! Non resta che proseguire il cammino, sorretto dalle voci che indicano valori,
poesia, bellezza:
“... forse non era luce,
forse non era,
quella che io bramavo,
ma pur sempre la luce,
quella chiare,
quella di casa mia.
Chi dice che non fosse
Quella che io cercavo.”
Di certo è parola
efficace e illuminante quella
di Nazario Pardini; musica
e riflessione a un tempo, si fa amare per la carica emotiva e per la sua
forza comunicativa.
Marisa Cossu
E' vero, quella di Pardini è una poesia senza tempo... una poesia che tocca l'anima oggi e lo farà domani perchè le cose belle e i sentimenti santi ed i pensieri onesti non si inquadrano in un certo periodo..sono eterni e sono validi, ieri, oggi e sempre. L'armonia del verso, la ricchezza del lessico, i colori, gli oggetti legati a ricordi dell'infanzia ci avvincono, ci guidano sui passi del Poeta lungo le strade della memoria, ad incontrare i suoi luoghi, i suoi affetti, a conoscere le sue emozioni . Marisa Cossu è poetessa sensibile e critico esperto e bellissima è l'analisi che fa di questo libro raffinato e semplice che parla a tutti perchè ha il pregio non trascurabile di una lingua pulita e chiara. La poesia di Pardini è custode di memorie, è tempio degli affetti che hanno forgiato lo spirito del Poeta, quegli affetti in cui ognuno di noi ritrova i propri, affetti che non ci lasciano mai, che possiamo sentire sempre vicini, come una forza , come una luce che ancora ci illumina oltre il buio.