A L M
A P O E S I A
Nel piccolo, ma interessante,
volume si concretizza in tutta la sua ampiezza l’esperienza poetica di quattro
personalità non ignote al mondo della cultura e, soprattutto, della poesia
contemporanea. Il libellus, di catulliana memoria, al lettore aduso a
navigare tra spazi poco accessibili al comune modo di comporre, e sentire in
modo particolare, la poesia offre spazi, riflessioni, meditazioni, riflessioni
tali da immergerlo immediatamente in un mondo nuovo, inesplorato. I Poeti
suscitano emozioni sopite con il miracolo della Poesia.
I nostri quattro Poeti,
nonostante tutto e la loro diversa, poliedrica personalità, trattano argomenti
alla portata di tutti, fatti che si svolgono sotto gli occhi di tutti;
evidenziano realtà, e verità, che nessuno ignora, ma sulle quali pochi fermano
l’attenzione e ne considerano la portata. È, questo, il compito, meglio, la
missione del Poeta, cui è demandato un magisterium, che pochi riescono o
sanno espletare nel modo dovuto, perché non di rado il verseggiatore è privo o
non possiede o non sfrutta debitamente la doctrina, necessaria per
veicolare concetti che nascono dalla semplice osservazione di quanto accade,
giorno dopo giorno.
Il poeta, come dice, e
giustamente, Carducci, non è solo un artiere, un funambolo delle parole,
ma, in modo particolare, una mente pensante, che offre al lettore di tutti i
tempi il frutto della ricerca interiore. La Poesia, infatti, è un frutto interiore,
che viene proiettato all’esterno e offerto ai lettori dopo un’accurata scelta
delle parole, idonee a trasmette con i loro suoni e la disposizione dei singoli
lessemi il senso e il significato, che solo la mente pensante può decriptare e
rivivere a livello spirituale e sociale.
Alla base di ogni poesia, e i
Nostri ne danno chiara testimonianza, insieme con la simplex apprehensio,
c’è una costante ricerca estetica e contenutistica, che non devono essere
minimamente trascurate dal lettore in cerca di un quid, che solo il
Poeta può offrire. E i nostri quattro poeti offrono a piene mani un breve, ma
significativo, tratto di umanità e di di spiritualità, che l’Uomo di oggi cerca
attorno a sé, e finge di ignorare
Ciò
che caratterizza il volumetto, e lo rende unico oggi, è l’amicitia,
intesa in tutta la sua ampia, e complessa, estensione semantica. È davvero raro
trovare quattro poeti, che si stimano, si ammirano, si emulano. E ciò a un osservatore
comune, intento solo ai suoi interessi particolari e personali, è davvero
strano, perché oggi, più che nel passato, anche immediato, l’uomo è, per usare
un efficace sintagma plautino, homo homini lupus. L’Uomo, invece,
secondo una toccante lirica di Umberto Vicaretti, Il prezzo da pagare, è
il comes del comune viaggio verso l’unica meta, verso cui ogni uomo inesorabilmente
tende. Ed è, perciò, vero quanto si piega su se stesso e, co un barlume di
speranza, riflette:
Amico lieve che ci lasci
scrigni di parole adamantine
(noi qui ancora in viaggio
verso transiti nascosti),
anch’io
ho
grumi rappresi
di
memorie e un tarlo: se pena
di
scontare per ogni nuovo giorno
sono
gl’inesausti mostri
di questo aggrovigliato labirinto.
Già la virtus dell’amicitia
costituisce un valore tale, che basterebbe da solo a giustificare la
presenza del prezioso, aureo libretto. Ed è proprio questa fondamentale
caratteristica, che dovrebbe essere alla base della civitas odierna, a
dare il titolo alla silloge: Alma poesia. La grande, stimolante e feconda
amicizia tra Balestriere, Baroni, Pardini e Vicaretti è alimentata, sostenuta,
cementata dalla Poesia, dall’alma poesis, che affonda le radici nella
più pura e genuina tradizione classica.
La Poesia, per i suoi
intrinseci valori e i messaggi, che attraverso la parola trasmette al lettore,
in ogni tempo della storia umana, è stata alma, perché nelle menti più
nobili e negli animi più sensibili ha alimentato sentimenti propri dell’umana
convivenza. Il titolo, perciò, non è stato affidato al caso, ma è esso stesso
un sintagma pregno di significati, che si snodano nelle quaranta liriche, che
lo formano e gli conferiscono consistenza.
Gli autori, uniti da fraterna
e sincera amicizia, resa salda da molti anni di intense e feconde esperienze
poetiche, condividono senza riserve, pur con sfumature diverse, una
spiritualità, che solo pochi spiriti eletti riescono a cogliere nella sua
immensa grandezza. Oggi, più che nei tempi passati, si avverte, si tocca con
mano un becero materialismo, fondato solo sull’appagamento degli istinti più
bassi, cui i mediatori culturali forniscono e condiscono con l’accorta e
continua somministrazione del più basso egoismo. Alla fraternità e alla
comprensione dell’altro, del diverso, hanno lentamente introdotto un modo di
pensare criminale, che si credeva estinto da tempo. Non c’è attimo, nel quale
non si sentono blasfemi rigurgiti razzisti, celati ora dietro una pseudo
libertà di pensiero e di una cultura acciabattata nei bassifondi più tetri, ora
giustificati da una mistificata sottrazione di beni e di ricchezze a danno del
proprio ego pusillanime. L’amico , come ha scritto Vicaretti, è l’altro,
senza differenza di latitudine.
Toccante,
a riguardo, è la bella e intensa lirica Stabat mater, nella quale ancora
Vicaretti riflette con amarezza un crimine contro l’Umanità, perpetrato nel
silenzio e nell’indifferenza: la lapidazione di Aisha, una bambina di appena
tredici anni. La riflessione su pochi versi, invita l’Uomo di oggi a riflettere
sulla propria esistenza, su se stesso, sul proprio cammino verso il futuro,
verso il quale deve proiettare la memoria del passato, perché il presente sia
migliore:
Ragazza mia che non hai memoria
del fiume attraversato a piedi nudi,
chiare le pietre amiche e levigate
a carezzare il passo tuo gentile
in
volo dolce verso Chisimaio.
Quanti uomini, poveri e infelici, oggi vengono lapidati in modo diverso, ma non meno cruento, in nome di un egoismo e un materialismo sempre più imperante. Di ognuno di questi Vicaretti, come per Aisha, dice:
Ora che il tempo, tutto, è consumato,
di te ci resta questo tuo sorriso
fiorito sulle labbra un po' arrossate
(più grandi, e appena più perduti, gli
occhi).
Di te ci resta questo tuo silenzio,
lama
di fuoco a mutilare i sogni.
Nei quattro poeti netto è il rifiuto, e la condanna, della violenza, come traspare dai pochi versi citati. Davanti alla ferocia dell’Uomo anche la Natura sembra ribellarsi mediante le imprevedibili e incontrollabili catastrofi naturali, tra le quali i terremoti costituiscono la punizione più grave. Mediante le scosse sismiche, con i disastrosi sussulti, l’alma Terra punisce i figli ingrati, che così generosamente, e indistintamente, nutre. Questo grido di dolore è colto da Carla Baroni nella lirica La terra trema, che ricorda il terremoto che nel maggio del 2012 sconvolse Ferrara e distrusse molti centri abitati:
Saranno ancora giorni di dolore
Nati dalle bestemmie del destino.
S’affronta il dio terrore, l’ansia appesa
Alla lampada che a tratti vacilla,
allo schermo che all’alba già diffonde
il tam tam di notizie disastrose.
I sussulti della terra spaventano, non permettono sonni tranquilli, per cui l’uomo, per sfuggire alla morte, pensa e dice con la poetessa:
anche stasera dormirò vestita,
la
luce accesa, la borsetta pronta …
Nonostante i continui moniti, l’Uomo continua a vivere nella sua protervia, alimentata da una cultura rabberciata ai crocicchi e negli angiporti e, nella migliore delle ipotesi, da faziose e devianti informazione diffuse dai mezzi di massa. L’Uomo, oggi, purtroppo, vive un’aberrante solitudine, come giustamente nota Giuseppe Balestriere nella lirica È morto ieri …piena di intensa, umana partecipazione:
È morto ieri il barbone tra due
fioriere, stanza da letto di Piazza
Marina. È morto il gigante barbone
nel suo cappotto-bara tra gelati
soffi (saranno paghi i farisei
della turistica immagine, sgombro
il
porto della sua presenza).
Questa breve, ma pregnante pericope, è, nello stesso tempo, grido dell’umanità ferita e denuncia del cinico comportamento dell’Umanità, che ignora l’altra Umanità, schiacciata dalla povertà e dal disagio.
L’Uomo, però, dall’esperienza quotidiana
dovrebbe capire che anche lui tende verso il punto, da dove non si torna più
indietro. E il Balestriere, nella lirica Quando passaggi di comete acutamente
annota:
… Ormai è tempo
di sotterrare il seme
per noi senza primavera;
perché potremmo
acuti canini snudare
e trascinarci pendenti alle spalle
mandrie di stelle a illuminare tatari
infecondi per il nostro
estremo cammino
di
puntigliosi taciti beduini.
La meditazione sul tempo che scorre, nella raffinata cultura del Poeta, dovrebbe condurre l’Uomo a riflettere con Orazio fugit invida hora o con l’ovidiano fugit irreparabile tempus che tutti sono chiamati a rendere conto alla Natura del proprio operato, secondo i canoni di una natualis religio, presente in ogni essere umano. Il Balestriere, per esprimere quanto gli urge nel petto, non esita a ricorrere a lessemi di rara bellezza e raffinatezza, come Nel tramonto a Paestum non esita a scrivere:
A baciare templi ed erbe, del cielo
si
piegano le labbra azzurrorosa.
In questa brevissima pericope l’hapax contribuisce a creare un’immagine di grande efficacia evocativa: azzurrorosa, infatti, conferisce al tramonto un momento di estrema vicinanza alla realtà, osservata, e cantata, con occhi incantati.
Amareggiato nell’animo, invece, quando alla
notizia che un barbone era deceduto tra l’indifferenza, e con la segreta gioia
degli isolani, che vedevano in lui solo il miserando spettacolo, che offriva,
una un’immagine di rara bellezza ed efficacia:
… Eppure
gli bastava che la luna stillasse
per lui viniferi grappoli di luce
e
di calore, …
Nell’animo amareggiato e affranto dell’Uomo, che medita sulla sventura del fratello, sul compagno di viaggio, anche gli elementi naturali, simbolo, una volta, di amore e di pietà, hanno perduto quanto li caratterizzava, e li mitizzava. Anche la Natura, secondo la pregnante dicitura leopardiana, è diventata matrigna.
Come Madre benigna e benevola, invece,
incontrastata domina nella Poesia di Nazario Pardini. Il colto e raffinato
allievo delle Muse, con la ritmica scandire del verso, si ferma, a lungo, a
soppesare il monema, il lessema, il sintagma. Nella controllata e armonica
disposizione dei suoni, Pardini riversa una rara sensibilità e coinvolge il
lettore sia quando gli pone davanti le assolate distese di vigne, sia quando lo
proietta nelle strade deserte della campagna e della vita. Nella raffinata
lirica, Lo stradone di scuola, oltre a meditare sul fluire inesorabile
del tempo, invita il lettore a ripiegarsi sulla sua vita e riflettere:
Sono i solchi carrabili sbilenchi
che incidono il tuo corso anche se pieni
delle spighe giallastre di settembre.
Lo stradone della scuola. Eppure perdi
le verdi scaglie come un serpe obliquo
in
cuore alla campagna e mi dilati
i cigli luccicanti di rugiada
per rivestirmi il seno del fruscio
della
carta di un libro.
Nell’uomo, come nella natura, nella quale vive e della quale è parte non secondaria, lo scorrere inesorabile del tempo lascia tracce indelebili. L’ardita e ben costrutta similitudine incipitaria pone l’essere umano di fronte a se stesso e lo invita a riflettere sui profondi solchi, che, inesorabilmente scavati dall’età, gli ricordano il trascorrere del tempo e il trapasso, anche se ignoto, è imminente. Sembra che Pardini voglia ricordare e incidere nell’animo dei lettori il senecano cotidie morimur. L’Uomo ogni giorno vive le spighe giallastre di settembre. Questa ardita metafora, costituita da un forte ed eloquente adynaton pone sotto gli occhi del lettore poco avvezzo ai vibranti voli della Poesia e alla meditazione la brevità e la fugacità della vita: ogni giorno si muove sulla terra come le spighe avvizzite di fine estate. Le spighe, turgide e verdi e vigorose a primavera, a settembre, in autunno, sono giallastre, hanno impresso sulla loro fisionomia l’immagine della fine imminente.
La
spiga con la sua ricca e pregnante estensione semantica è in diretto rapporto
con il seno turgido della donna, quando, nel fiore degli anni, offre
all’uomo le gioie dell’amore e ai figli il frutto del suo amore. Anche il seno,
come la spiga, in autunno avvizzisce e preannuncia la fine.
Il concetto del tramonto, l’attesa dell’ultimo
viaggio, che tutti gli esseri viventi sono chiamati ad affrontare, è ancora
presente, e più netto, nell’accorata lirica, D’autunno i falò. Qui, per
ovvi motivi, si ferma l’attenzione solo sui versi incipitari per la loro
peculiarità e i riferimenti agli auctores, che alimentano la dotta e raffinata
poesia di Pardini:
Pian piano qui declinano le pavide
ombre d’autunno e alle finestre verdi
di paese sanguigni si appendono
i gerani. Ogni novembre
fremono all’aria smossa dei rondò
dei cipressi irridenti. Il traboccare
di foglie sul viale variopinto
nel suo corso di rame intenerisce
all’ora
meridiana,
Nei primi versi il Poeta, la doctrina del quale e l’eruditio emerge in ogni parola, in ogni verso, richiama il ben noto sintagma oraziano: umbra sumus. E l’umbra, dopo il ridente periodo della primavera, dopo la febbrile attività dell’estate, nella quale l’Uomo cerca di realizzare e dare senso alla sua esistenza, diventa inquietante. In autunno le foglie, avvizzite, assumono sfumature più tenui, presaghe della fine imminente. Con i loro diversi, variopinti colori cospargono il viale. Il Poeta con un’efficace ipallage richiama l’attenzione non tanto sulle foglie, quanto sul viale, che alla fine della vita rende al viandante la breve esistenza più ricca di brevi, ma intense esperienze.
Da quanto fin qui accennato sembra che Pardini
veda la vita e il suo fluire con tristezza e pessimismo. La riflessione
sull’Uomo, sul suo destino, sulla sua vita costellata, forse, più di dolori che
di gioie, non è mai pessimismo. La riflessone diventa tale, quando il cuore
dell’uomo, in preda alla disperazione, perde di vista la meta verso la quale è
diretto. Il Poeta crede nella Natura, che gli offre aspetti e gioie impagabili,
come canta nella lirica Era settembre:
Era settembre quando dai balconi
brillavano i gerani alla tua festa
ed
i roseti.
In questa brevissima pericope, che prelude ancora una volta una mesta e paradigmatica riflessione sull’autunno, si avverte l’esplosione della vita. I gerani, anche se perdono subito i fiori, sui balconi e sulle finestre, a prima vista danno il senso della giovinezza, del vigore, della bellezza. È quanto coglie il Poeta nel pacato riferimento che l’autunno porta via anche quei colori rigogliosi, peni di vita e sensualità. Frequenti in questa lirica sono i richiami alla lirica di Leopardi, A Silvia, anche se non mancano riverberi dell’altra, e non meno nota, Il passero solitario. Nella produzione lirica pardiniana, come in quella di tutti coloro, che si possono definire Poeti, la lectio degli auctores è sempre presente, attuale, vitale. E i richiami sono, necessariamente, a volte chiari, a volte velati, a volte sottesi.
Sulla brevità della vita, con accenti diversi,
ma non meno realistici, si piega anche Balestriere con un’intensa lirica, il
titolo della quale è tratto da Ovidio: Labuntur anni:
Il nichelino che ancora ci resta
da spendere è moneta ormai da niente
che a valutare sonante t’ostini.
Presto, roche lucerne, abdicheranno
al soffio d’aia ch’ora ci appartiene,
che svanirà d’incanto per comporsi
in
nuove incarnazioni e sentimenti.
Con l’efficace richiamo al nichelino, del quale oggi si è perduto del tutto il ricordo, il Poeta riflette, e invita a riflettere, sul poco tempo che all’uomo, giunto ormai a maturità, ancora rimane. Nell’icastica immagine della monetina, nel richiamo alla lucerna e alla breve durata della luce, che dirada le tenebre della notte, invita a mediare sull’imminente trapasso verso un mondo e una realtà diversa, nuova. L’esemplarità degli stilemi classici conferisce al componimento la gravitas necessaria per scuotere l’uomo dal torpore e incitarlo a spendere bene il poco di vita, che ancora rimane. Accanto a immagini tratte dal mondo classico non manca la presenza dell’insegnamento e del messaggio biblico.
Il
breve e dotto libricino, Alma poesia, oltre a questi messaggi, appena
sfiorati, contiene anche altri, e più numerosi, spunti di riflessione, che
l’accorto e sagace lettore saprà cogliere, introiettare, realizzare. A questa fatica
non si può non aggiungere l’augurio che Catullo rivolgeva al suo libellus:
plus uno maneat perenne saeclo.
Orazio
Antonio Bologna
Grazie, carissimo Antonio; la tua è una vera lectio magistralis che dovrebbe fare da esempio per chi si accinge a cimentarsi con l'arte dell'esegesi; con la ardua quanto mai impegnativa ars scribendi. Un vero capolavoro...
RispondiEliminaNazario
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaCarissimo Amico, io che invento spesso e vengo bacchettata per questo, nella poesia da te citata ho espresso la paura da me veramente vissuta nel maggio del 2012 quando il terremoto colpì Ferrara assieme a gran parte dell'Emilia Romagna. La scossa fu di magnitudo 7,1 anche se si preferì diffondere la notizia che era stata solo di grado 5,9 per non spaventare ulteriormente la popolazione. Ma quello che ci terrorizzò fu che la stampa scrisse che il scisma era stato previsto anche se non si era saputo stabilire con precisione quando sarebbe avvenuto e che altri sommovimenti tellurici si sarebbero succeduti a breve. Le migliori condizioni architettoniche di Ferrara hanno impedito un disastro come quello dell'Aquila.
“La terra trema” non è certamente una delle mie poesie migliori ma ebbe diversi premi appunto perché espressione di una esperienza abbastanza scioccante. E contraddice in toto quello che mi aveva insegnato Giuliano Manacorda, ossia che la POESIA deve essere atemporale, non trattare cioè mai fatti contingenti.
Per il resto le tue “Osservazioni” non sono solo acute e pertinenti ma sono anche intrise della tua enorme cultura che sa collegare antico e moderno, rivisitazioni e metafore.
Grazie, quindi, a nome dei miei “compagni di cordata”.
Carla Baroni
Cosa dire di questo prezioso, graditissimo (e inaspettato!...) dono di Antonio Orazio Bologna?
RispondiEliminaUn grazie davvero di cuore, Professore, per la fervida adesione critica alle poetiche proposte dai quattro amici di Alma Poesia. E bisogna sottolineare anche che si tratta di un’adesione e di una corrispondenza (semantica, estetico-contenutistica, sentimentale) che ci onora grandemente e ci rende, anche umanamente, più consapevoli e ricchi.
Come afferma Nazario Pardini, siamo stati destinatari (e con noi gli amici di Leucade) di una autentica lectio magistralis, nobilitata, voglio a mia volta sottolineare, da una rara capacità ermeneutica (uno straordinario e profondissimo intus-legere) e da una mirabile nettezza esegetica.
Sarebbero molteplici, e interessanti, gli spunti offerti in questa sede; mi limiterò qui a richiamare la nota di Carla Baroni circa l’assunto dell’ottimo Giuliano Manacorda, secondo il quale “la Poesia deve essere atemporale, non trattare cioè mai i fatti contingenti” (e qui la domanda: Poesia pura, o Poesia “impura”?...).
Bene ha fatto l’amica Carla a “disubbidire” al suo maestro. A contestare quell’assunto basterebbe ricordare come i grandi spiriti della Poesia di ogni tempo siano sempre stati sensibili alle vicende e agli accadimenti che hanno segnato la loro vita terrena; per tutti un nome (e, nel nostro piccolo, absit iniuria verbis!...): Dante Alighieri.
Grazie, grazie ancora, Professor Bologna.
Umberto Vicaretti.
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaCaro Umberto, spezzerò una lancia a favore di Giuliano Manacorda che non è mai stato molto tenero nei miei confronti ma mi ha dato suggerimenti preziosi. Intanto contestava la forma, troppo perfetta, non più in linea con i tempi. E qui non l'ho seguito. Invece l'ho seguito per i miei libretti anche se, conoscendolo, molti li disapproverebbe. Tuttavia il suo assunto riguardava la POESIA CHE RESTA. Riporto le sue parole in una lettera datata 4 dicembre 1979 indirizzata a mia madre che aveva scritto una lirica sull'esodo in Vietnam: “Altrimenti la vostra resterà la poesia buona e generosa e sincera di tutti i tempi, cioè di nessun tempo, proposta personale destinata a rimaner tale anche se apprezzata, giustamente, da qualche lettore.” E le sue parole risultano tanto più vere se lo stesso Orazio Antonio Bologna, nella sua nota successivamente corretta, non ricordava neppure più che a Ferrara c'era stato un violento terremoto - le cui ferite sono ancora aperte nei monumenti più importanti - svuotando in tal modo la lirica presa in esame di tutta la sua carica emotiva. Ci sarebbe da fare una lunga chiacchierata, che non ritengo opportuna in questa sede, sul perché io scriva poesie che in definitiva non mi piacciono. Qui volevo solo riportare quanto aveva espresso Giuliano Manacorda - critico molto noto, ordinario di Filologia Moderna all'Università “La Sapienza” di Roma - nel suo giusto ambito perché mi era sembrato fosse stato travisato.
Carla Baroni
Sono grato al prof. Orazio Antonio Bologna per il tempo e l'impegno a noi dedicato e per la qualità e l'acutezza della sua scrittura.
RispondiEliminaPasquale (non Giuseppe!) Balestriere