Maria Luisa
Tozzi legge: I dintorni della solitudine. Di Nazario Pardini
Nell’avvicinare
la poetica di Nazario Pardini (che, da umanista, non ritiene morta alcuna lingua: né greca né
romana né etrusca), colpisce l’immediata profondità della parola, il suo significarsi immanente e diacronico, la sua
peculiarità semantica; e si è indotti a quell’indagine semiologica, che non
mette confini tra ricordo e realtà, tra affettività e filosofia di vita. Alla
classicità si unisce pertanto l’utilizzo di
termini famigliari, idiomatici, in quanto la separazione- del vissuto
dalla rimembranza, dell’adesso dal passato
- condurrebbe ad una
pericolosa solitudine.
Le parole sono ferme da secoli, ma ereditate
nella sacralità dell’azione fatta e detta, nell’intervento amorevole della loro
coltivazione. L’attualità che dimentica, il disincanto, dice Pardini, sono inconcepibili e già sconfitta.
Ecco dunque
la tradizione farsi bilancio per il lettore, mentre è deposta dal poeta nel suo ampio respiro necessario e
profetico; lo svolgersi lirico, fiero, robusto, che tuttavia coglie il tempo, ogni tempo, con o senza
rimpianti, fa della parola un romanzo esemplare.
Nell’opera di
Pardini le domande sulla solitudine sono superate da tempra e sicurezza; la
tenuta versale si arricchisce di lemmi
che trascinano la storia: egli cammina nel tempo senza
offenderlo; lo consacra attraverso il rito di voci, ripercorse dentro le
azioni, rese compatibili e poeticamente coincidenti con la vita. Il
coraggio del presente sa entrare in luoghi e tempi diversi,
con apparenti antinomie (tra lampi autunnali della fine e fremiti di fronde primaverili, fra voli di
uccelli che chissà dove andranno a morire e loro corse da donare
ancora al cielo: fra ferraglie abbandonate e loro ritorno alla lucentezza);
sussiste, esule dal ricordo passivo e
nostalgico: il poeta accenna, sì, al
mistero del passato o dell’oltre, ma, irremovibile, sta in leale rapporto con se stesso,
è uomo-aedo della vita e della
natura, dentro una lirica realissima, greca, aulica e melica a un tempo, dentro
la pienezza del giorno e della sua parabola, talvolta con angoscia, ma senza
voragini.
L’insidiosa
solitudine dei dintorni,
centripeta, vorrebbe entrare; tuttavia i recinti lirico-esistenziali
sono ben costruiti, e concretezza, sottesa razionalità danno significato a luoghi, fatti, cose di
cui ascoltare eco o
interrogativi, non all’isolamento.
La terra “tosca” appare nella sua grandezza
umana e storica, aspra e tollerante, concreta e profonda, onesta e costruttiva,
mai affettivamente ambigua. Il linguaggio poetico riporta quello della terra e del mare,
che comunicano simultaneamente memorie, suoni, riverberi di un passato nel
presente, con apparenti antifrasi, ma assenza
di artifici. Il ricordo non è crepuscolare; è fusione, accordo
speculativo e musicale con l’adesso, a
volte dolente, dalle cui vibrazioni si allargano fisicamente e liricamente onde di silenzi verso altri confini. E la fermezza
etrusca, toscana, carducciana, ma anche la bellezza di Foscolo (Vieni a
trovarmi nella mia Toscana,/o nella quiete fulgida dei santi,/ o nella ricca
terra dei sepolcri), l’interrogarsi metafisico di Leopardi ( Senza capire,
e mi tormento,/ quello che fuori esiste; e che mi è ignoto), il candore
pascoliano, la parabola delle stagioni di Cardarelli(... per correre
sentieri di cannelle/ fra beccheggiare di anitre e pivieri) sono lampi che abbagliano dall’ ossimoro
apparente (perché descrittivo e brachilogico) del lirismo pardiniano.
Il mare, il
vento, le battute di caccia, la casa e le sue pertinenze agresti, l’aria
assaporata nell’infanzia hanno totalmente impregnato, segnato la vita del Poeta; sono incancellabili,cioè
viventi, tanto che le scontate separazioni affettive paiono non essere
dissolte, ma dis-locate, aperte a nuovi cicli amorosi (struggente il lirismo in
“Le parole non dette”: Facciamolo da vivi [ comunichiamo], quando loro/ ti
guardano con ansia nell’attesa/di un qualcosa che tu e solo tu/ potrai donare).
In Pardini
colpisce la straordinaria, radicale capacità di non slontanamento dalla vita concreta, che ha da essere – sempre
– meritevole; non troviamo in lui un’avvilita crisi identitaria (linguistica e personale) e il suo
lirismo trova la contestualità in
un presente, che, pur occasionalmente mesto(Ma a pensarci/ sono tanti i
mortali sprofondati/ nelle mie cavità), utilizza la dimensione ottativa,
vitale del passato.
Questa
struttura umanistica di fondo, elaborata, reificata, che costringe alla
rimembranza dei vissuti nostri, culturalmente fragili, conferma che siamo alla
presenza di un Grande: il quale ha fatto il giro culturale del mondo,
conservando, con forza pudica, il ruolo solido, immutabilmente sacro
assegnato all’ uomo.
E se il suo periplo può affascinare con Simonide al compianto delle
Termopili, con la intuibile lectio rhetorica,con la fiera bellezza maremmana,
con la pittura macchiaiola e impressionista; con una lingua antica
(attualissima), che ha l’eco del canto delle generazioni, con meraviglia e turbamento si scopre una poesia vera, non
adulterata da scaltrezze intellettuali o
sentimentali: nella coscienza e certezza
nostre di un teorema, che si
dipana con basi liriche , filosofiche e sociali, imprescindibili per il futuro.
Splendida recensione per un Maestro
RispondiEliminaConosco la serietà e la competenza di Maria Luisa Tozzi, adesso conosco attraverso lei, la profondità di un Autore che conoscevo poco
Grazie a entrambi