Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
L’ultima fatica poetica e letteraria di N. Pardini.
Molti
lettori di grande gusto e competenza ne hanno ormai scritto e analizzato
con partecipazione il valore poetico,
quello letterario, storico ed umano, a
cominciare da R. Cerniglia, cui fa seguito S. Angelucci, F. Casuscelli, A.
Spagnuolo, L. Guerrieri…(sul blog
pardiniano). Lo stesso volume raccoglie inoltre nella parte finale un’antologia
essenziale della critica che riguarda la vasta produzione poetica. Rossella Cerniglia ha firmato la prefazione e ne sottolinea con grande competenza anche
tecnica i richiami storico-artistici culturali, le ascendenze poetiche, il
forte idealismo dell’Autore.
Il
tema d’amore che caratterizza la raccolta è infatti declinato in ogni sua
sfumatura e variazione, Bellezza,
Sentimento, Emozione, Idealità e Poesia,
passando attraverso le situazioni umane
più vaste, dall'amicizia, l'amore per la sua donna, a quello familiare alla partecipazione vitale al ciclo naturale, sottolineando potentemente l'amore
verso la natura, che si rinnova, varia, consolante e magnifica, malinconica ed appassionata,
fonte di pensiero ed emozione, sempre presente nella poesia del Nostro.
La
“Lettera ad un’amica mai conosciuta” apre l’opera, introducendo così la
dimensione comunicativa, quella epistolare, intima cordiale e generosa che
caratterizza la struttura del libro
insieme con l’invito a un’isola ideale, come quella di “Léucade, l’isola del bello, della poesia, dell’amore e
della pace”. Lèucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola
dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra
problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole…
“ Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti
sentono il bisogno di arrivare; carichi della voglia di approdare
all’isola immaginaria …” perché la
“Poesia è vita; … E che cosa è la vita se non che la memoria e il
sogno…”
Una
Lèucade che declina anche l’ambito poetico del Nostro, la sua poetica, quello
della ricerca costante della classicità, la bellezza incontaminata,
archetipica, ma che è pure ben
consapevole di trovarsi “…alla spiaggia dell’ombrata Versilia”, da dove può intravedere ..”il brulicare
d’isole affollate/ di miti, ninfe, dèi e antichi re… / Eterni i sorsi/ di
storie e di leggende…”, una favolosa Léucade che sfida, accetta ed include il
nuovo. Una Léucade grande aspirazione poetica, l’isola sognata che forse non
c’è, ma bello immaginare, punto di partenza ed approdo, poetico e vitale, di un
giovane ed entusiasta poeta, oggetto di sogni, rimpianto di corse e di favolosi
ardori, di storie leggendarie… Una Léucade che ormai, giunto il Poeta al termine della corsa
poetica, gli fa dire, sempre ben presente
al proprio itinerario di ricerca, a conferma ultima: “… Naufragare/ fu poi
superbo in onde di un icàrio/ pelago. Nei reconditi del mare/ i sarcofaghi di
un volo millenario.”
Alla tematica d’amore che apre la prima parte
della raccolta, fa seguito “Di vita, di mare, di amore”, e “Canzoniere pagano”
che nel contempo sottolineano le linee evolutive della poetica di Pardini. La
silloge si apre infatti con la grande metafora a lui cara, che ritorna spesso nelle sue
liriche, quella del fiume-vita: che
trascina, impetuoso insieme alle sue acque chiare, tutto ciò che incontra e
cattura sul cammino, fino al mare.
È
facile ritrovare nella prima parte- che
dà il titolo alla raccolta- lo schema amoroso catulliano delle Nugae, ma anche
la voce poetica del Petrarca e della più autentica letteratura italiana: “ Per mari ho navigato/ salito colli,/ strade
ho percorso,/guadato fiumi,/…con me ti porto sempre/ e non ho pace,/ tutto si
tace intorno/ e dentro rugge”…- versi che filtrano le emozioni più autentiche e le ascendenze
culturali del Nostro: “ fa infatti rivivere
le vicende della passione amorosa del poeta latino per Lesbia – e ci ricorda il
mito e il fascino della poetessa di Lesbo, Saffo, ma anche le
contraddizioni di un sentimento che si modifica nel tempo, mai uguale a se stesso,
e che la memoria tenta di afferrare.”
A un
buon lettore è facile trovare anche la contiguità con la grande poesia europea,
russa, in particolare con i Versi della bellissima donna, di A. Blok,
dedicati alla <donna gentile > che suscitarono l'entusiasmo dei circoli
decadenti e simbolisti della sua città e che rappresentano l’epifania dell’Eterno Femminino: una storia
d’amore, una specie di Vita Nova dantesca, un mistico innamoramento, dalla
potente melodia verbale, vicino al dettato di Verlaine, raffinato, colto, come
il nostro poeta che pure “cammina fra lo sporco agli angiporti..”
“Credo
che la mia Delia triste e sola/ aspetti me, i miei baci, ma s’invola/ con un uomo sopraggiunto dalla via./Tu piangi
e ti disperi, anima mia, mentr’ella va sparendo in allegria”.
Due
mondi che, attraverso l’opera poetica, dedicata a ciò che è vicino, fanno
trasparire ciò che è lontano. Eros declina la sua potenza.
La
freccia di Eros trafigge la prima volta:
gli sguardi, le timidezze, l’innocenza, le fughe….l’adolescenza lontana.
Nazario P. ricorda e conosce bene la forza indelebile della esperienza amorosa. L’innamoramento ricco e
favoloso, la notte magica sempre viva, eppure lontana , come ne Corri Delia!
: “Ti ricordi con quanta timidezza/ci guardavamo negli occhi./
Era il
tempo delle mele. Il tempo delle fughe..”.
L’immagine
è incancellabile: Delia che corre sulla spiaggia splendente, illuminata sotto
la luna , Eros, il protagonista, la forza cosmica, l’Amore è protagonista.
Si
scrive d'amore per cercare amore, per
ritrovarne il fascino abbagliante, lontano, e riviverne il sogno, l' elegia…per
ritrovare emozioni, fremiti, e ritrovarsi: alla ricerca di altre metamorfosi
affettive, per offrirgli un futuro. È la vita e il suo senso.
“Ma tu
ricordi?” La domanda inquietante, il
dubbio della corrispondenza davvero vissuta, dell’eternità della parola
comunicante, dell’esperienza vissuta-sognata che emerge dai particolari- l’onda
lenta, la canzonetta, il canto gioioso, il ricamo nella sabbia….- il dubbio è
quello che la vita abbia appannato, spento il ricordo, che l’oblio sia
diventato il vero protagonista.., ma senza dolore, senza sofferenza: l’attimo
felice può rivivere, rinascere trasfigurato. Eros è eterno e non muore.
Il
poeta canta le varie stagioni della vita, il tempo che diventa un suo
strumento, da lui accordato nella dimensione della memoria,come in Ottobre,
malinconica e intensa poesia: Ottobre con la vigna saccheggiata, i colori
spenti, <muti>( splendida sinestesia!) che ci danno l’addio: anche se non
perpetuo, giacché l’autunno che
avanza trabocca di ricordi che
purtroppo facilmente si dileguano, ma che pure sono indizio, segno di
ricchezza.
Le
immagini della morte si potenziano a vicenda creando paesaggi pregnanti, più
chiari di quelli luminosi della primavera: distese vane, palpiti languore,
marcio riflesso, sonnolenza, oscurità….Una notte che si avvicina… Una notte
ricca nondimeno, un frutto maturo: le valenze positive sanno contrastare quelle
oscure che le accompagnano. Forse una “nuova giovinezza”, nella convivenza di
rinnegamento e leggerezza, e la minuziosa autoascultazione che mostra una
maturità che va, in un certo senso, al di là della maturità.
E che
in Ignoto verso il mare, riprende
paesaggio, natura silente, ricordi, polifonia.
È il
silenzio del paesaggio tardo invernale, l’immobilità della natura di febbraio
in attesa: il mese che porta con sé la nostalgia, i ricordi che segnano la
distanza, la semplicità chiara e terribile, epifanica del loro apparire. È un
silenzio esteriore ed interiore che circonda il poeta, ( “tutto è fermo”) in
esso è immerso l’ultima parola poetica polifonica e le movenze lente di vita,
baluginanti e profonde che in N. Pardini
sono flessuose e naturali. Silenzi pensosi, suoni opachi, fessi, colori smorti,
in attesa dei gialli luminosi di mimose future: un contrasto che non è agonico,
un duello che diventa nel ricordo vita, danza, osmosi, accettazione, nel
trapasso delle immagini del perire in una musica più vasta, un perpetuarsi di
quel rapporto eterno con la natura, soggetto a costante metamorfosi.
La poesia non conclude, e questa è forse la nuova dimensione poetica pardiniana- la consapevolezza melanconica di aver perso le sicurezze e le speranze giovanili.
La poesia non conclude, e questa è forse la nuova dimensione poetica pardiniana- la consapevolezza melanconica di aver perso le sicurezze e le speranze giovanili.
Non
può: sta al lettore cercarne il messaggio con rispetto e sospensione d’animo
(“ora è la voglia d’altro/ che mi riporta a un fiume/ e mi trascina ignoto
verso il mare”). È la ricerca del senso ultimo, senza sovrapposizioni né
enfasi, che ritorna più volte in questa raccolta poetica.
C’è in
quella barca, che chiude la seconda parte, “barca
che s’inarca al mare” tutta la forza solitaria e metaforica della
malinconia. C’è in nuce un saggio della sapienza poetica di Pardini.
Gli
aggettivi traducono “in crescendo” lo stato d’animo: remi stenti, mari indifferenti, carni deboli e insicure, rocce scure,
onde pellegrine… Musica, sinfonia.
Si diceva un tempo che la malinconia era l’accidia: un
torpore, un'assenza, una disperazione senza scampo, acuita dalla solitudine,
che produce mutismo, anzi «afonia spirituale»; quella che Marsilio Ficino
indicava come perdita eccessiva dello spirito sottile. La voce dell'anima che
non parla più. Ma per fortuna i poeti ci insegnano che non è così devastante né
catastrofica.
N. Pardini
ce lo comunica con il susseguirsi metaforico inquietante e contemporaneamente
affascinante: la barca –disfatta- che
s’inarca è in balìa del vento, azzarda fughe,vola, cerca un porto certo,
introvabile, un faro, un volo…e si
pente. Ritorna. Un Giano bifronte.
Per
cogliere quei malinconici doni poetici sono necessari due ingredienti, il talento,
se non il genio, e la sincerità senza alcun orpello narcisistico, l'amor del
profondo, dello scavo, l’autenticità. E la padronanza della forma poetica.
Toccano dolorosamente le radici del nostro essere,
fino a farci avvertire un vuoto “
metafisico”. Il baratro ci attrae mentre ci fa paura. Come se la storia avesse
perso la voce.
Clio,
colei che un tempo suonava la lira e cantava le gesta dei grandi, alla quale la
Musa pardiniana si affidava, è diventata
debole, come la più sciocca delle vecchie…
La tristezza sa aprire squarci che permettono
di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani.
Anche questo è un regalo delle Muse: ci fa
capaci di avventurarci nell’ignoto: con un più di poesia, di essere, di
quiete.
Del
resto il Poeta ne è ben consapevole: Chissà per quali mete…..
Spentisi
i girasoli, ammorbiditisi
i colori della mia campagna
resta
un canto che accompagna
i
rintocchi di una campana funebre.
Questo
rimane di un’intera stagione:
un
suono lento e peso
che
rinnova un trasporto;
seccumi
senza scricchi
per
assenza si sole;
viti
disabitate;
uccelli
che svolazzano nel vuoto,
immemori
di nidi.
E lo
riconferma nella terza parte, il suo Canzoniere pagano, che sembra
aprire a una poesia nuova, ancora
fremente, ma senza più illusioni, facili slanci lirici ed entusiasmi, pur
consapevole del suo lungo armonioso canto, dei regali della sua generosa
Musa: poesia sobria, limata, scura,
essenziale, tutta cose, potentemente commuovente, come quella “ casa del colle biondo dove si guardava/
dalla finestra sulla sua cimasa/ cesellarsi la luna…” o quella “zappa appesa al
filo del vitigno/ incolto e abbandonato…”
che alimenta ormai la gramigna o il rigagnolo, quasi secco, che brama di
scoprire una foce nella sua vana corsa e che dolcemente si tace…
E quel
fiume impetuoso, metafora della vita, che rifletteva i canneti e che correva
gioioso al mare tra il rampollare bisbigliante dei gorghi, diventerà forse –rigagnolo- “acqua sonnolenta e muta e
s’infosserà vana e scura, come spera/ di un cielo che è apparente e lascia il
vuoto”.
Una
grande consapevole poesia.
Maria Grazia Ferraris, agosto 2019
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