Orazio Antonio Bologna
Riflessioni su una lirica di
Milica Jeftimijević
Lilić
Orazio Antonio Bologna, collaboratore di Lèucade |
L’incontro con la poetessa serba Milica Jeftimijević Lilić è
recente ed è stato casuale. Mi trovavo a Edimburgo, per trascorrere le feste di
Natale con mia figlia. Una sera, mentre il gelido freddo proveniente da polo
tagliava il viso, entrai in un locale, per prendere una bevanda calda. I
tavolini erano tutti occupati e una ressa di ragazzi affollava la sala
piuttosto angusta.
Seduta a un tavolino addossato alla parete di pietra viva c’era
una distinta signora, che sorbiva lentamente il suo tè. Con la tazza di tè in
mano, le chiesi di sedermi di fronte a lei, sull’unica sedia libera. Con un
sorriso appena accennato, col gesto della mano, mi invitò ad accomodarmi,
tirando il tavolino a sé, per facilitarmi l’accesso. Dopo qualche secondo, la
signora mi chiese: «Italiano?». Le dissi di sì e mi parlò subito delle sue
frequenti visite in Italia con un linguaggio abbastanza corretto e spedito. Tra
l’altro, come per caso, mi disse che era poetessa e viveva a Belgrado, in
Serbia.
Senza molti indugi, le chiesi di parlarmi della sua poesia. Ma
il frastuono era tale, che comunicavamo a sento. Uscimmo. Mi parlò della sua
poesia con accenti molto caldi, mentre gelide folate di vento si perdevano
lontano, nei lunghi viali alberati.
«Il poeta», disse, «sente la profonda esigenza di divulgare il
proprio essere, le proprie verità, il dramma profondo che vive dentro di sé». Si
percepiva, mentre profferiva queste parole, che era profondamente segnata da
eventi molto tragici.
Il discorso era diventato interessante, quando, all’improvviso,
mi disse: «Io abito qui, da un’amica. Buona notte. Ti manderò alcune poesie
tradotte in italiano». Scomparve dopo una stretta di mano piuttosto fredda.
Le poche poesie, che mi ha mandato qualche giorno dopo il suo
rientro, rivelano lo stato d’animo di una persona che ha vissuto in tutta la
sua drammaticità gli orrori della guerra, dalla quale è uscita viva per
miracolo. I dolorosi eventi hanno lasciato ferite indelebili nel suo animo,
profondamente segnato. Nei luttuosi eventi, causati da una guerra fratricida e
assurda, la poetessa attinge la materia prima del suo canto, che si spiega
limpido con tutte le sfumature risvegliate e dettate dal dolore, dai tragici
eventi dei giorni più cupi e terribili.
Sensibile
interprete dell’animo umano, Milica coglie e mette in evidenza quanto già Omero
prima e Archiloco successivamente avevano espresso sui drammi della guerra, che
lei, donna, ha vissuto sotto gli aspetti più dolorosi e brutali. Nella
rievocazione di quei momenti terribili, che hanno inferto profonde ferite al
suo animo, sogna e auspica un periodo di tregua, di tranquillità, di pace.
Rimembra il tragico passato, volge uno sguardo fugace al futuro ancora incerto
e scrive:
Ieri ancora potevi bussare
e si apriva.
Potevi inviarmi un ramo di olivo,
con una colomba
e
la bandiera bianca si spiegherebbe.
Durante la vita tranquilla prima del
confitto, che per lunghi anni ha sconvolto e martoriato la Iugoslavia dopo la
morte di Tito, l’uomo aveva fiducia del proprio simile, non si chiudeva in sé:
apriva la porta e accoglieva chiunque bussasse, senza pregiudizi o timori. La
porta aperta, infatti, è simbolo di pace, di serenità, di ospitalità, di
tranquillità, di accoglienza in senso
sia reale che metaforico. Il passato, visto dalla poetessa come un felice
periodo edenico, è debitamente rievocato e messo in risalto da un lessema
apparentemente banale: ieri.
L’avverbio
incipitario condensa in sé tutto il dramma interiore dell’uomo travolto dalla
tragica attualità della guerra, durante la quale non si deve, e non si può,
aver fiducia di nessuno. La poetessa vive, rievoca e rimpiange i giorni felici,
che, probabilmente, non torneranno più. L’intenso e accorato lirismo evoca
gemiti di eventi reali e spinge l’animo a elevarsi verso livelli alti, eterei,
spirituali. Mediante il simbolismo biblico, incarnato nella colomba e nel ramo
d’olivo, Milica si allaccia e converge con forza sulla tradizione religiosa e
popolare e lancia un messaggio inequivocabile: il ritorno della pace,
richiamato da un altro simbolo tratto dalla Bibbia: l’arcobaleno, che suggellò
la pace tra l’uomo e Dio. La poetessa, però, non utilizza banalmente un dato
accolto dalla tradizione scritturistica, ma, da donna viva e pregna di
sentimenti repressi con la forza, vi aggiunge una riflessione struggente,
apparentemente dissacratoria:
La risata miracolosa
dell’arcobaleno brillerebbe
dopo
la tempesta.
La fine della guerra arreca gioia e
spensieratezza, riporta la gioia di vivere e gli uomini possono ritornare a
godere i piacevoli eventi della vita. Il canto, che sgorga dall’anima provata,
si spiega sempre più in alto, fino a toccare livelli spirituali molto elevati,
fino a sfiorare l’ignoto. È, questo, il mistero della Poesia, che permette a
Milica di creare quadretti naturali con squisita spontaneità e sensibilità
tutta femminile.
La metafora racchiusa nei versi
citati avvince anche il più distratto dei lettori e lo immerge nella cruda
realtà, che la poetessa, essere umano, vive e attraversa con coraggio, con lo
sguardo rivolto a futuro, alla scrosciante risata dell’arcobaleno, che dopo la tempesta,
annuncia la sperata quiete. La poetessa nel vergare questa breve e pregnante
pericope, ha certamente presente La quiete dopo la tempesta di Giacomo
Leopardi, cui sottilmente allude.
Nel messaggio veicolato dal
simbolismo biblico Milica coglie le attese e le speranze della sua gente, di
quella parte dell’umanità ferita dalla violenza e dalla crudeltà di un altro
uomo, dal proprio simile, dal connazionale, col quale qualche giorno addietro
si condivideva il destino della Nazione e si tendeva uniti verso un’unica meta,
un unico destino. La cattiveria, unita alla sete di potere a alla crudeltà di
pochi, ha causato dolori e drammi irreparabili a un numero incalcolabile di
uomini e di donne. Per questi esseri umani, nelle tristi condizioni causato dl
conflitto, si è spento per sempre festosa la risata dell’arcobaleno, la gioia
insita in un simbolo, in un segno naturale e, nello stesso tempo, misterioso.
La poetessa evoca il suo dramma interiore con versi corti, misurati dal soffio di un fiato. Raramente adopera versi un po’ più lunghi e mostra con
questa tecnica raffinata che anche lei, come tanti poeti suoi coetanei e
conterranei, sviluppa la sua idea, elude e aggira in maniera magistrale
l’impressione iniziale.
Decisamente
più lunghi ed espressivi sono i versi, che occupano la posizione centrale della
lirica, con la quale la poetessa, rivolgendosi al suo interlocutore ideale,
all’io riflesso e custodito nel suo intimo, con una punta di nostalgia e
un accorato e amoroso rimprovero, non esita a ricordagli:
Potevi col vento inviare un
messaggio
e svegliare orchidee addormentate
e tutto poteva brillare di bellezza.
Potevi, se solo avessi saputo
che l’attimo di dubbio fu
irrecuperabile.
Intanto
ancora eravamo girati indietro.
La poetessa, come ogni essere
vivente, è attaccata alla vita, della quale avverte i fremiti e la dolcezza,
pur nella lontananza del suo amore, che, probabilmente, si trova sul fronte,
con le armi in mano. In questa breve, ma densa, pericope l’attenzione si posa
subito sul significativo ed emblematico lessema orchidee, non a caso
collocato al centro del verso. La soffusa vena di sensualità, che pervade la
strofa, viene smorzata dal doloroso richiamo del tragico momento, che incombe
sul suo capo: la guerra, che ha reso, e rende, quell’attimo irrecuperabile. La
guerra, con la sua dolorosa e ingombrante presenza, spesso costringe a guardare
indietro e rievocare i giorni della pace, durante i quali sereno e spensierato
fioriva l’amore, ora sopito, schiacciato, annichilito dal tragico fragore delle
armi e dalla presenza continua della morte. L’animo della poetessa non si
proietta più verso il futuro, ma si volge triste al passato, che con la
serenità svanita per sempre riapre ferite difficilmente rimarginabili.
All’affiorare dei ricordi, i versi
erompono sonori, pregni di ricordi, e danno vita a un tessuto narrativo
avvincente; rinvigoriscono le scelte lessematiche e sintagmatiche molto
efficaci, penetranti, evocative. Con la pura essenzialità essi creano
situazioni e suscitano sensazioni di volta in volta nuove e vere, come
l’accorata richiesta d’un messaggio, che aiuti a superare le angosce che
incombono minacciose e turbano la serenità della vita. La richiesta di aiuto,
però, non è frutto di ansia cristallizzata, ma diviene un pensiero costante e
fruttuoso, che proietta il suo animo verso un futuro nuovo, caratterizzato
dalla pace e dalla serenità, che solo l’orchidea schiusa riesce a
offrire. È, questa, una verità e un augurio comune a tutti, applicabili a
tutti, sempre, in ogni luogo e situazione.
La lirica di Milica sgorga pura e si
snoda serena per l’innato senso delle proporzioni e dell’equilibrio
psicologico, che la poetessa custodisce e alimenta con continui apporti tratti
dall’esperienza e dal contatto con la vita quotidiana. La forma è sempre
limpida, incisiva, tagliente, penetrante. Il linguaggio scarno, asciutto,
ridotto all’essenziale, per il continuo e assillante lavoro di ricerca e di
riflessione. In ogni parola, in ogni verso, in ogni strofa della lirica Milica
mette in evidenza il cratere di una donna forte, combattiva, ma capace di
controllare gli impulsi e i sentimenti, dai più semplici ai più violenti e
aggressivi. È, questa, una dote innata, che padroneggia e controlla con estrema
intelligenza e acuto spirito critico, associato a una sentita spiritualità, che
l’accompagna in maniera sensibile alla scoperta del soprannaturale e le
permette di inchinarsi verso la conoscenza di sé stessa. Da questo connubio
fecondo la poetessa tende verso l’essenza del linguaggio, che affina e
arricchisce giorno dopo giorno: Milica, infatti, cerca e persegue a tutti i
costi la perfezione, e nella poesia pone la sua prima e vera professione.
In questa professione, nella quale
crede ciecamente, la poetessa trova il rifugio del suo spirito piuttosto
inquieto per le avverse traversie della vita, che l’hanno amaramente
allontanata dalle contingenze pragmatiche di donna, di sposa, di madre. Queste,
invece, come la provvida sventura di manzoniana memoria, l’hanno portata
con forza nel ricco e complesso mondo delle lettere, nelle quali coglie quei
frutti negati dalla drammaticità del destino segnato dalla guerra. La poesia
per Milica diventa il rifugio dello spirito, ricerca di un’eternità mediante la
riflessione costante sull’esperienza, che la vita ancora le offre.
NB
La traduzione della lirica, riferita solo in parte, è di Biljana Biljanovska,
che ringrazio.
Splendida analisi, complimenti professore, ha colto tutta la forza e la bellezza della poetica di Milica, donna eccezionale che ho la fortuna di annoverare tra le amiche più care.
RispondiEliminaCaro Antonio, ho letto tutta la tua analisi fatta sulla poesia della poetessa di Belgrado. Una analisi molto attenta fatta verso per verso e sull' espressione di cosa la poesia emana, racconta i ricordi personali e di contesti in cui le cosa avvengono o sono avvenute. Tutto questo lo può fare solo un professionista come te, che hai tutte la qualità per farlo. Da me, come tu sai, puoi ricevere con tanta emozione, un, - bravo Antonio ! Complimenti anche alla poetessa che ha scritto quei versi. Mi dà, l' impressione di vedere la vecchia Jugoslavia . Un cordiale saluto, caio Antonio !
RispondiEliminaRICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaSono lieta di aver potuto leggere, tra le parole illuminanti di Orazio, la poetica di questa brava poetessa serba. Sì, l’arcobaleno è ridente, se non altro per quella sua forma grafica, ma lo è ancor di più per il significato biblico che lo collega alla sopravvivenza dopo il diluvio universale. Tale è la sensazione di chi sopravvive a una guerra? Capisco, attraverso le note di lettura di Orazio e i pochi e intensi versi, la tragica umanità che ne traspare. Mi toccano nel profondo poiché mia madre era una profuga istriana. Dire profuga non mi pare neppure il termine giusto poiché l’esodo giuliano-dalmata fu, a mio avviso, una diaspora. Orazio ha saputo cogliere e raccontarci il legame strettissimo che chiude in una morsa vita e poesia.
“Intanto ancora eravamo girati indietro”, dice la poetessa, e indietro si torna in memoria con l’evocazione simbolica della Bellezza, dell’amore sensuale e purissimo che viene da un’orchidea. Grazie per questa bella lettura. Patrizia.
Caro Antonio,
Eliminaho letto le tue riflessioni fatte sulla poesia di Melica, poetessa che hai incontrata per caso. La casualità è anche il posto dove l'hai incontrata, col freddo e col vento, già questo è un avvenimento poetico; la passeggiata col freddo gelido,la ricerca di riparo, un posto al caldo, l'unico posto libero difronte ad una persona in solitudine.
La tua analisi sulla poesia è ben fatta, proprio da professionista, come tu sei. Sei entrato nella profondità dell' animo di Melica e delle sue espressioni di una vita passata tra il sereno e gli orrori della guerra,la tempesta, e la ricerca dell'arcobaleno e del ramoscello di ulivo,che porti serenità e pace.
Io, con le mie modeste qualità letterarie, ti posso solo dire: bravo Antonio e tante congratulazioni.