ORAZIO ANTONIO BOLOGNA
MANFREDI
DOPO
LA MORTE
Per
avere un’idea di quanto sia successo a Manfredi dopo la sconfitta, bisogna
necessariamente ripercorrere alcune tappe fondamentali della sua storia
piuttosto travagliata, a partire dalla morte da prode sul campo di battaglia.
Federico II prima e, successivamente, il figlio Manfredi non godettero i favori
dell’alta gerarchia ecclesiastica: il papa, i cardinali, i vescovi e, in parte,
il clero ebbero sempre il dente avvelenato contro la dinastia degli Svevi; e
non si lasciarono sfuggire occasione per le scomuniche e, in modo particolare,
per calunnie di ogni genere. Questo atteggiamento si protrasse almeno fino alla
metà del XVI sec., come attestano fonti letterarie.
1. La
battaglia di Benevento e sepolture di Manfredi
Sulla
battaglia di Benevento, avvenuta non lontano dalla città il 26 febbraio del
1266, sono giunte diverse redazioni, viste da angolazioni e punti di vista
differenti. Ma, tra i tanti scrittori nessuno, al di fuori di Dante, ha detto
dove fu sepolto il re svevo, sconfitto e ucciso durante il combattimento. Al riguardo,
però, si ha la sola, e unica, testimonianza di Carlo d’Angiò. Il quale, dopo il
rinvenimento di Manfredi, il riconoscimento e la sepoltura del cadavere, scrive
al Papa Clemente IV e dice espressamente:
Ego
itaque, naturali pietate inductus, corpus ipsius cum quadam honorificentia sepolture,
non tamen ecclesiastice, tradi feci.[1]
La
lettera reca in calce la data precisa:
Datum
in castro apud Beneventum, primo mensis martii, R(egni) n(ostri) a(nno) I.[2]
Carlo d’Angiò spedisce la
lettera dall’accampamento, dislocato nei pressi di Benevento, il primo marzo
del 1266, nel primo anno del suo Regno. È ovvio che l’Angioino, dopo la
vittoria, si insediò nel Regno, strappato allo Svevo con le armi.
La sepoltura, avvenuta non
lontano dal luogo dello scontro, non si ricava dalla relazione dell’Angioino,
il quale, per celare, ma non troppo, il suo comportamento poco umano e cavalleresco,
che i presenti avevano certamente notato, non a caso, nella missiva a Clemente
IV aggiunge un significativo inciso cum quadam honorificentia.
Tanto il mittente quanto il destinatario conoscono bene il valore e il
significato da attribuire al quadam, messo lì non a caso dall’estensore
della cancelleria angioina.[3]
Sul modo, nel quale Manfredi fu sepolto dipende unicamente dall’esatta lettura
del quadam, al quale molti e illustri storici non porgono la necessaria
attenzione e non conferiscono la dovuta importanza. Tutto l’inciso, inoltre,
considerato il carattere dell’angioino e, in modo particolare, del destinatario,
potrebbe essere stato messo per acquietare e tranquillizzare il Papa Clemente
IV, l’iroso capo della Chiesa.
In
un recente studio si legge: «… il nuovo sovrano, rispondendo alle sue
inclinazioni di pietà umana, cristiana e, soprattutto cavalleresca, diede disposizioni
per l’onorevole sepoltura del suo pur sempre scomunicato avversario e, quindi,
con onori cavallereschi».[4] Questo giudizio non è pienamente condivisibile,
perché Carlo d’Angiò non ha mai nascosto il suo odio profondo verso gli Svevi,
né la sua ferocia verso i loro seguaci.[5]
A conferma della spietatezza dell’Angioino, si riporta la seguente lettera, uscita,
come le altre dalla sua cancelleria:
Karolus
etc. Pandolfo de Fasanella etc. Intelleximus quod multi Theotonici Lombardi et
Tusci, ghibellini, ignorantes adhuc casum quondam Manfredi olim Principis
Tarentini, in Regnum nostrum Siciliae per mare veniunt, sub intentione
auxiliandi dicto Manfredo contra nostre excelentiam Maiestatis. Ideoque
(idelitate) t(tue), sub pena amissionis gratie nostre, …mandmus quatenus, …
omnem adhibes dilgentiam … ut omnes portus et cuncta litora decrete tibi
provincie sic … tam de nocte quanm de die, adhibitis custodibus observentur,ut
Theotonici Lombardi Tusci et quicumque alii alenigene … non effugiant manus nostras,
sed capiantur et diris catenis mancipentur. Sciturus quod … huiusmodi negotium
plurimum insidet cordi nostro. Volumus ut rescribas Nobis frequenter quicquid
super hoc duxeris faciendum. Datum Dordone XIIII martii, VIIII ind(itione),
R(egni) n(ostri) a(nno) I.[6]
Manfredi, a differenza degli
altri cadaveri lasciati all’ingiuria del tempo e dei rapaci, fu sepolto alla
buona, senza onorificenza alcuna. A meno che con il termine honorificentia
non si intenda un’affrettata e dimessa sepoltura, come testimonia il Villani.[7]
Pochi
giorni dopo la lettera del sovrano angioino al Papa, il notaio Martino de Maurellis,
nel redigere un documento nei primi di marzo, pochissimi giorni dopo la
battaglia e pienamente informato sugli accadimenti seguiti al 26 febbraio, con
cognizione di causa, scrive:
Cum Carolus victoria Manfredi potitus esset prope
Beneventum ad Salices, Manfredique cadaver sepultum secus Caloris flumen ad
Pontem, Caroli victoria ebrius seviter Beneventum est populatus …[8]
Questa breve, ma significativa
annotazione, ricorda due eventi di particolare importanza: il primo è ad
Pontem, che Dante, pur non conoscendo il documento di persona, rievoca nel
suggestivo verso in co’ del ponte presso a Benevento. [9]
La prep. ad, in latino, indica una vicinanza molto stretta, contatto
fisico. Esemplare, a riguardo, è la favola di Fedro, Lupus et agnus. Non
a caso l’autore latino scrive: Ad rivum eundem lupus et agnus venerant …
superior stabat lupus longeque inferior agnus …[10]
Il testo dice che dallo stesso
ruscello, dove si erano recati, bevevano il lupo e l’agnello, i quali, per
dissetarsi, toccavano fisicamente l’acqua: erano con i piedi in immediato contatto
con l’acqua, sì che il lupo dice: cur … turbulentam fecisti mihi aquam
bibenti?.[11] A
queste parole, l’agnello, che stava al di sotto, giustamente obietta: Qui
possum - quaeso - facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor.[12]
L’acqua si può intorbidare, perché sono entrambi a contatto con lo stesso
ruscello, ad rivum eundem. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Il secondo è dato da secus,
che può essere reso con: greto, riva, al lato, lungo, ai
bordi, secondo la lezione dei classici: Ennio, traducendo la Storia di
Evemero, scrive: Iuppiter Neptuno imperium dat maris, ut insulis omnibus, et
quae locatae essent secus mare omnibus regnaret;[13]
in un’iscrizione si legge: ex
utraque parte secus viam cum aquaeductu.[14] Anche
nei testi giuridici secus è adoperato molto spesso. Il notaio era un uomo
di cultura e, frequentando la chiesa per la messa domenicale, certamente aveva
ascoltato, in canto gregoriano, i seguenti introiti, tratti dai vangeli: Caecus sedebat secus viam, transeunte Domino[15] e l’altro: Dominus
secus mare Galilaeae vidit duos fratres.[16]
Da quanto fin
qui detto si deduce che l’Angioino dispose per il nemico sconfitto una
sepoltura piuttosto misera e affrettata; e, se si accetta quanto fin qui detto,
si deve ritenere che il cadavere di Manfredi fu inumato nella sabbia vicino al
pilone del ponte, a contatto con la corrente del fiume, con la segreta speranza
che andasse subito in decomposizione e un’eventuale piena del fiume rimovesse
la copertura e ne disperdesse i resti. Queste attese, però, andarono deluse,
perché quell’anno il fiume Calore, per l’inverno non troppo piovoso, almeno
fino alla fine di aprile, non andò soggetto ad alcuna piena di considerevole portata
e il giorno dello scontro aveva «una discreta portata d’acqua».[17]
Dopo il
feroce saccheggio della città e le efferatezze perpetrate dagli Angioini in
seguito alla vittoria, i Beneventani rimpiansero Manfredi. Per cui il corpo fu
riesumato in fretta e in segreto e fu abbandonato, probabilmente insepolto,
lungo il Verde, come informa Dante. A ciò si aggiunge che Manfredi era morto
scomunicato e, come tale, non poteva restar sepolto in terra consacrata: Benevento
era città pontificia, quindi sacra. Perciò il cadavere doveva essere tolto da
quel luogo consacrato, non adatto per chi aveva preso le armi contro la
Chiesa.
La storicità di questo evento, poco edificante, anche perché
perpetrato per ordine di persone appartenenti alla Chiesa e all’alta gerarchia
ecclesiastica, è data dalla lettera che Clemente IV, l’8 maggio del 1266, invia
al cardinale Ottobono, Legato Apostolico in Inghilterra. Il Pontefice,
probabilmente deluso dell’atteggiamento di Carlo d’Angiò, scrive:
Carissimus Carolus Rex Sicilie illustris tenet pacifice totum
Regnum, illius hominis pestilentis cadaver putridum, uxorem, liberos obtinens
et thesaurum.[18]
Questa è l’ultima, e significativa testimonianza su quanto
capitò a Manfredi dopo la morte. Dove sia stato traslata la salma, a lume
spento,[19] quasi
lungo il Verde,[20]
non è dato sapere con precisione, perché molti luoghi nei tempi antichi, e
anche più recenti, per l lussreggiante vegetazione, avevano l’appellativo di verde.
Si è discusso a lung, e si discute ancora, sul Verde citato da Dante; e,
credo che la questione, nonostante alcune considerazioni di ordine pragmatico,
rimarrà aperta. Nonostante ciò, sulla scorta di qualche testimonianza tramandata
da cronachisti successivi, si può diradare la nebbbia, che avvolge questo
evento, molto increscioso, messo in atto da un alto prelato della Chiesa.
Il Verde, ricordato da Dante, secondo testimonianze e
tradizioni locali, che si perdono nella notte dei tempi, è l’ultimo tratto del
Tàmmaro, prima che sbocchi nel Calore, nei pressi del Ponte Valentino. Dalle
persone anziane di Pago Veiano, di Pietrelcina e di Paduli sino alla fine degli
anni Settanta del secolo scorso, era chiamato Foce Verde oppure il Verde,
perché è più profondo e l’acqua assume il colore verde. Non lontano da quel
tratto del Tàmmaro, chiamato Verde,
correva allora, e vi è rimasto fino all’Unità d’Italia, il confine tra il
territorio di Benevento, appartenente alla Chiesa, e il Regno di Sicilia. Lì
furono abbandonati i resti di Manffredi. Preziosa, a riguardo, è la testimonianza
di P. Girolamo da Paduli, il quale nel
tradurre una Cronaca di Ariano, afferma che Manfredi fu sepolto accanto
al fiume, chiamato oggi Tàmmaro, dagli antichi Verdemarino.[21]
Per dovere cronaca e di stima verso Dante, devo dire che i
suoi informatori gli avevano inviato notizie certe, attendibili. In mancanza di
altre testimonianze scritte, a questo punto subentra la tradizione orale, che
si è impadronita di Manfredi e lo ha radicalmente trasformato e tramandato
sotto il nome di Mazzamoréllo.
2.
Origine e diffusione del Mazzamaoréllo
Su questa leggenda, autentico mito dell’Italia
centro-meridionale, nessuno studioso ha dedicato l’attenzione, che meritava.
Oggi in molti centri è del tutto scomparso; ma qua e là, di tanto in tanto, si
cerca di riportarlo in vita e di coglierne il significato. Per comprendere lo
strano personaggio, che si cela dietro sotto questo nome, bisogna partire da un
dato storico, citato da Salimbene da Parma, che il cronista lo ha vissuto in
prima persona:
Poscia
fu mandato dal Papa, come Legato, un certo Cappellano, che coscrisse soldati da
ogni città in aiuto di Re Carlo contro Manfredi figlio di Federico. E pronti mandarono
i Lombardi e i Romagnoli buona quantità di armati, che nella battaglia
combattuta da Carlo e dall’esercito Francese riportarono vittoria contro Manfredi.
Essendo quel Legato venuto a Faenza per la leva dei soldati, convocò i frati
Minori e i Predicatori in una sala, ove era il Vescovo di Faenza co’ suoi
canonici; ed io pure fui presente […] Disse vituperi di Manfredi, e in nostra
presenza lo diffamò in molte maniere. Poi soggiunse che lo esercito Francese
veniva marciando a grandi giornate; e disse il vero, come vidi io co’ miei
occhi nella vicina festa del Natale di Cristo.[22]
L’alta gerarchia della Chiesa,[23]
per motivi puramente politici e materiali, non si è lasciata sfuggire occasione
alcuna per scagliare contro gli Svevi in generale e contro Manfredi in particolare
anatemi e, soprattutto, calunnie infamanti.[24]
Non c’è, infatti, lettera o documento della cancelleria pontificia che non
contenga anatemi, accuse, calunnie e offese molto gravi nei riguardi degli Hohenstaufen: Manfredi è sempre
accompagnato da spurius, illegittimo, con senso nettamente dispregiativo.
Ciò che è successo a Faenza si sarà necessariamente
verificato anche in altre zone dell’Italia, soprattutto nella parte
meridionale, nel Regno di Manfredi. Di ciò, al di fuori di quella riportata,
non si hanno altre testimonianze scritte, ma sono rimaste quelle orali, pallido
residuo della violenta predicazione messa in atto contro gli Svevi, per
indebolirli e renderli invisi agli occhi dei sudditi. Fu messa in atto
un’intensa e violenta campagna di predicazione e diffamazione contro gli Svevi,
che si aggiungeva alla scomunica. Questa, da sanzione puramente spirituale, da
qualche tempo in mano a pontefici spregiudicati e privi di scrupoli era diventa
un’arma temibile e terribile di ritorsione e di ricatto. La scomunica, misura
estrema adottata per difendere l’integrità della dottrina cattolica, anche se
sembra strano, era temuta più dai regnanti che dagli eretici: gli uni perché venivano
deposti e i sudditi erano sciolti dal vincolo di obbedienza; gli altri venivano
semplicemente allontanati dalla comunità ecclesiale, ma non subivano danni
materiali. I predicatori, spesso in maniera rozza e grossolana, non esitavano a
calcare le tinte, per impressionare i fedeli, per lo più semplici e non adeguatamente
indottrinati.
La campagna vessatoria contro gli Svevi si acuì con la
discesa in Italia di Corradino, deciso a rivendicare il possesso sul Regno di
Sicilia, usurpato da Carlo d’Angiò, il quale vi si era insediato con la
ratifica pontificia. In questa occasione, nella quale si paventava in Italia il
ritorno dell’aborrita dinastia degli Hohenstaufen, il Papa non attese inerte e inerme.
In un recentissimo studio si legge: «La spedizione di Corradino fece rinnovare
in Curia uno strumentario che era stato rodato con Federico II e poi perfezionato
contro Manfredi».[25]
Qui si prendono in esame due legende, messe in giro dai
predicatori di allora e vive ancora negli anni Sessanta del secolo scorso nei
paesi ad occidente di Benevento. La prima riguarda il Mazzamaoréllo e
l’altra, La leggenda del Tàmmaro, ricorda con particolari piuttosto
macabri La distruzione di Santa Tammella. Entrambe erano narrate dalle
persone anziane, per lo più analfabete, che ripetevano quanto avevano appreso
dai genitori o nei mesi estivi sulle aie, quando si spannocchiava il granoturco,
o nelle serate invernali davanti al camino, per intrattenere, spaventare o incuriosire
i bambini. Ma erano ascoltate volentieri anche dagli adulti, soprattutto se il
narratore era bravo e stimato.
Il Mazzamaoréllo, se si esamina bene la parola, è un
appellativo composto da mazza, riduzione di ammazzato, e maoréllo.
In altri termini, significa l’ammazzato alla Maorella. Nel dar vita a
questo nome composto, il parlante ha soppresso la prima e l’ultima sillaba di ammazzato
e, nell’unirla con Maorella, ha reso aggettivo il nome sia del ponte che dei
campi posseduti dal notaio de Maurellis. È un fenomeno che si verifica spesso
nelle parlate del centro-meridione d’Italia. Questo appellativo composto è stato
coniato dopo la sconfitta di Manfredi nei pressi di Benevento, quando, insieme
con il Regno e un’onorevole sepoltura, perse persino l’identità personale. Nella
predicazione piuttosto sommaria, ma efficacemente incisiva, lo sventurato e sconfitto
re di Sicilia non fu più chiamato più Manfredi; ma, per dileggio, fu indicato e
connotato sempre e solo come l’ammazzato alla Maorella.
Da notare che alla riprende la prep. ad latina,
della quale si è già discusso. In latino, nella bocca dei predicatori, il nome
di Manfredi dovette essere, probabilmente, sostituito con necatum ad
Maurellum (pontem) o, con più verosimiglianza, necatum ad arva Maurella.
Se si esprimevano in italiano, avranno certamente usato il sintagma, molto
efficace, l’ammazzato alla Maorella,[26]
che i parlanti, col tempo, hanno reso e tramandato con Mazzamaoréllo.
Nel dialetto di Pago Veiano le persone molto anziane
solevano chiamare l’arrotino con il significativo molafróffece, dato da ammòla,
affilare, con aferesi della prima sillaba e fróffece, forbici; un altro
esempio potrebbe essere conzacaodàro, composto da acconza, aggiusta,
con caduta della prima sillaba, e caodàro, caldaio. Altri esempi non
mancano.
Il nome del folletto, però, a seconda del luogo e della sua
parlata, è andato incontro a non poche modifiche fonetiche. Qui se ne accenna solo
a qualcuna: a Dentecane, in prov. di Avellino ma molto vicino Benevento, è chiamato
ora Mazzamauriéllo ora Mazapuriéllo; a Grisciano, in prov. di
Rieti, è detto Mazzapurìgliu; a San Giorno la Molara è detto Mzzamaoréddo;
a Pago Veiano, Molinara e San Marco dei Cavoti Mazzamaoréllo. Ho sentito
anche Cazzapauriéllo, Scazzamauriéllo, Scazzamurìllo. Si
può, grosso modo, dire che ogni paese ha la sua dicitura.
Manfredi, scomunicato per non aver restituito il Regno di Sicilia
al Papa e sconfitto da Carlo d’Angiò, come punizione da parte di Dio, con la
morte andò incontro alla damnatio memoriae, per cui sulla bocca di tutti
non fu più Manfredi, ma l’ammazzato alla Maorella, un folletto costretto
ad abitare all’aperto, in luoghi impervi, nelle stalle. Non entrava mai in
casa, ma si aggirava nelle vicinanze, se era ben accolto e rispettato. Nella
narrazione, però, rimanevano fissi e inalterati i connotati reali, come la corona,
il mantello rosso, i bottoni d’oro, scarpe eleganti, la bellezza e la nobiltà
del viso. In alcune zone si narrava che colui, il quale aveva la fortuna di
incontrare il Mazzamaorello e metterglisi di fronte, riceveva
addirittura monete d’oro.[27]
Il narratore insisteva molto su questi particolari di importanza primaria e
oggi molto utili per l’identificazione del personaggio.
Attenzione particolare bisogna dedicare al lessema Maorella.
Con questo nome veniva designato il ponte che univa, non lontano da Benevento,
le due sponte del Calore: sulla destra si estendeva l’attuale Pezza Piana e
sulla sinistra Crocella Pacchiana. Manfredi era sulla sponda sinistra e
attraversò questo ponte per affrontare Carlo d’Angiò, schierato sulla destra
del fiume, nei campi del notaio de Maurellis, dai quali prendeva il nome il ponte.
La consuetudine di nominare ponti o tratti di fiume con il nome dei confinanti
è ancora viva tanto a Benevento quanto in provincia. Nel tenimento di San Giorgio
la Molara, fino alla fine degli anni Cinquanta del sec. scorso, c’era il ponte
o passatùro[28]
de li Vellla: il luogo di attraversamento del fiume prendeva il nome dal
possessore dei campi limitrofi. Così nel territorio di San Marco c’era lo passaturo
di Quattocalli e a Pago Veiano quello di Magliése.
Il ponte, al contrario di quanto sostengono alcuni, non
prese il nome da mora, il cumulo di pietre gettate sul corpo di
Manfredi, per considerazioni di ordine linguistico. Il dittongo au delle parole latine nei dialetti
locali si muta in ao. Così Laurentius passa in Laorénzo, laurus in làoro, causa in càoza, auricola in aorécchje, cautus in càoto. Allo stesso modo Maurellis passa nei dialetti della zona
in Maorella. Perciò Ponte della
Maorella deve essere inteso il ponte che è lambito dai terreni della famiglia
De Maurellis.[29]
C’è, però, da osservare che nei dialetti, come quello Napoletano e Beneventano,
nei quali la e tonica si sviluppa in ie, rimane la u di
Maurellis; in quelli, invece, nei quali la e tonica non subisce alcun
mutamento, come nel dialetto di Pago Veiano, San Marco dei Cavoti e San Giorgio
la Molara, la u per apofonia passa in o, come negli esempi
addotti. Per cui il nome corretto presenta due diciture: Mazzamaoréllo e
Mazzamauriéllo.
3. La
leggenda del Tàmmaro
Nel
tenimento di Pago Veiano, lungo il Tàmmaro, c’è la contrada Casalini, dove nel
XII-XIII secolo sorgeva un importante centro abitato, intorno a un castello di
notevoli dimensioni. La sua struttura, completamente diversa dai manieri e
fortezze militari esistenti nella zona, è particolare, e interessante, perché gli
architetti hanno dovuto adattare le mura perimetrali orientali al ciglio del
fiume, su cui insistono. Oltre a tracce di incendio, in diversi ambienti, oggi
coltivati a vigneti e orti, sulle pareti si conservano ancora consistenti
tracce di intonaco originario. In questo castello, che insieme con il centro
abitato era chiamato Tàmmaro, alloggiò “per quattro giorni il Re Ruggiero nel
1138, quando questi, dopo aver distrutto Tocco, entrato in Benevento e presa
Apice, si accinse a dar l’ultimo colpo a suo cognato re Rainulfo”.[30]
Nell’accorta
e appassionata cronaca, che abbraccia gli anni 1102-1140, Falcone Beneventano,
a breve distanza dall’epoca in cui si svolsero i fatti, scrive:
[1138.6.2] … rex ipse ad castellum diebus quatuor moratus est.
[1138.6.3] Prefatus
autem dux, exercitu congregato, prope civitatem Arianum venit custodiens, ne
rex ipse quoquo modo eam invaderet; et sic rex ipse et dux adinvicem laborabant.
[1138.6.4] Et
his decursis, predictus rex a Tamaro illo castello discedens circa Melfitanos
fines festinavit; et inde procedens castellum Sanctae Agathes valde munitum
suae obtinuit potestati, et alia castella ibi contigua”.[31]
L’attuale
denominazione Casalini è subentrata alla più antica e nota Tàmmaro dopo che questo
centro fu distrutto e ridotto a un cumulo di macerie, sulle quali, in tempi
successivi, furono costruiti alcuni casali, da dove venne a tutta la contrada
detto appellativo, in uso ancora oggi. Con l’appellativo Tàmmaro, però, si
designa il tratto di fiume, che parte da poco più a valle della contrada
Casalini.
L’esistenza
d’un centro abitato denominato Tàmmaro, dal nome del fiume, è attestata «nella
cronaca di Montecassino, cap. 14, lib. I».[32]
l’abitato con i territori circostanti “era possedimento di un nobile
beneventano chiamato Vaccone, il
quale lo donò al monistero di Montecassino nell’ottavo secolo”.[33]
Dopo
vari passaggi nelle mani di diversi proprietari, Guglielmo I il Malo lo
sottrasse al potere di Montecassino. Con la distruzione di Terraloggia, dove
ancora si vedono cospicui ruderi di due castelli normanni, anche Tàmmaro fu
ridotto a casale di poco conto. Divenuto proprietà dei Caracciolo prima e dei
Mansella poi, in seguito a rovesci di vario genere, intorno al 1496
dell’abitato non si hanno più testimonianze: “Certo, non v’è più parola nella numerazione
del 1452, la prima che venne eseguita durante il governo vicereale”.[34]
Nella
contrada Casalini, dove attualmente sorge la chiesetta di Santa Maria a
Tammèlla, ai tempi di Federico II, sorgevano ancora l’abitato e il castello. In
mezzo al fiume Tàmmaro su una roccia si leva ancora un possente pilone di ponte
medioevale e, poco discosto sulla destra del fiume, si vedono ancora
consistenti ruderi del castello, distrutto in seguito a terremoti e soprattutto
alle guerre con i principati vicini. Anche intorno a questo castello sono sorte
leggende, soprattutto di ladri e di briganti. Nei suoi sotterranei, oggi scomparsi
e, probabilmente, mai esistiti, trovavano rifugio demoni e streghe, briganti,
fuorilegge e gente di malaffare.
Con
l’arrivo di Carlo d’Angiò e la sua vittoria su Manfredi, cambiò radicalmente
l’assetto politico di tutta la zona, che passò alle dirette dipendenze della
Chiesa e dell’Angioino. La morte di Manfredi diede immediatamente la stura
all’avversa propaganda sia della Chiesa sia dei dignitari angioini contro gli
Svevi: Federico II divenne il demonio e i suoi soldati, fra i quali c’erano
moltissimi saraceni, furono ridotti al rango di formiche nere; il figlio, morto
sul campo di battaglia presso Benevento, divenne Lo Mazzamaorello.
Ricostruire
la storia del luogo e dei tragici avvenimenti, che si verificarono in quei luoghi,
sulla scorta del La leggenda del Tàmmaro,
come sul mito del folletto, è un azzardo non privo di rischi. Ma si sa che le
favole e le leggende poggiano su verità, che, sommerse da elementi fantastici,
con il passar dei secoli, sono andate perdute. Questi due eventi, svanito il nucleo
storico, sul quale poggiavano, sono stati considerati invenzioni della fantasia
e, come tali, di nessun credito.
Mi
è capitato di sentire la Leggnda del Tàmmaro da tre persone diverse: la
prima era una zia di mio padre, Rosa, di 97 anni, a San Giorgio la Molara, nel
mese di maggio del 1972; le altre due persone, di Pago Veiano, quando ero ragazzetto,
intorno al 1954. Queste persone, oggi non più in vita, erano: D’Antonio
Nicolangelo, allora ultranovantenne e denominato, per l’età, lo vécchjo antìco;
l’altro si chiamava Mercuri Michele, un eccellente affabulatore, anche lui ultraottantenne.
Le tre versioni, ad eccezione di pochi dettagli di scarsa considerazione, coincidono
nel nucleo e nella sostanza.
La
leggenda del Tàmmaro è un altro frammento di cultura proprio di Pago
Veiano, San Giorgio la Molara e, probabilmente, di Molinara. Oggi in questi
centri, se si conservano sparute tracce del Mazzamoréllo, la Leggenda
del Tàmmaro è del tutto scomparsa, perché, sopraffatta da una diversa
cultura e considerata un’anticaglia inutile, non è stata più narrata. Alla sua
scomparsa ha decisamente contribuito la mancanza di una persona colta, in grado
di raccogliere e mettere per iscritto quanto era nelle tradizioni popolari.
Io
ho cercato di ricostruirla sull’onda della memoria. Tutti i narratori erano
concordi nel dire, con evidente esagerazione, che Santa Tammèlla era un grosso
paese, con migliaia di abitanti, e fu distrutto da enormi formiche nere,
guidate da Lucifero. Il demonio, per vincere i conti e i re, che si opponevano
alla sua conquista, si incarnò in un re, che veniva da un paese lontano, ai
confini con l’Africa. Tutti i cristiani, quando venivano a sapere contro quali
nemici dovevano combattere, si rifiutavano di arruolarsi. A ogni rifiuto seguiva
il massacro dei parenti più cari; famiglie intere venivano sterminate. Ma il
demonio, aiutato dalle fate, che teneva al suo servizio nell’Inferno, li trasformava
subito in formiche, perché non fossero catturati dai nemici. Le formiche erano
feroci e aggressive, grandi come giganti. Per effetto del Maligno, le formiche
di giorno diventavano uomini neri e brutti; ma la sera, appena imbruniva, riprendevano
la forma di formiche e scomparivano dalla faccia della terra, per apparire come
uomini il giorno successivo.
Comandate
da Lucifero, avevano attraversato mari e terre; giunte a Santa Tammèlla, la circondarono
e nel giro di poco tempo la distrussero dalle fondamenta. Durante il lungo assedio,
saccheggiavano le chiese, bruciavano i santi, calpestavano il sacramento, picchiavano
i monaci, spogliavano dei beni i preti, seviziavano uomini e donne. Mandavano
via dalle chiese, a chiedere l’elemosina, tutti i preti, che non avevano ucciso.
Molti monaci erano diventati schiavi. Le suore venivano violentate e, se erano
vecchie, vendute schiave o costrette a portare acqua e preparare cibo alle
formiche, giorno e notte. Le suore giovani e belle dovevano soddisfare le
voglie delle formiche, giorno e notte. Quante violenze erano costrette a
subire, in silenzio.
Il
re non si fermò neppure davanti alle preghiere del vescovo di Benevento. Anche
a lui tolse tutto; e disse che, se non la smetteva e non gli dava tutto l’oro
delle chiese, lo avrebbe impiccato, arso vivo.
Il
vescovo di Benevento era ricchissimo, aveva un feudo sconfinato e abitava un
palazzo lussuoso, con oro, argento, pietre preziose e diamanti. Tanto era ricco
e potente che fece venire le porte di bronzo per il suo palazzo dall’oriente, e
le fece portare dalle fate. Il re gli tolse il feudo e tutte le ricchezze e il
vescovo divenne così povero, che chiedeva l’elemosina.
Il
cattivo re picchiò e tenne in prigione un cardinale, inviato dal Papa, per
persuaderlo a restituire il feudo al vescovo, con tutto l’oro e l’argento; a rispettare
le suore, i monaci e i preti. Ma il re, consigliato dal diavolo, divenne peggiore
di Lucifero: saccheggiò tutti i paesi vicini, rase al suolo anche il castello,
dove ora sorge la chiesa di S. Michele, e parte della Torre: si credeva forte e
potente e portava sempre con sé tutte le sue mogli, tutte donne bellissime,
rubate dovunque passava. Ne aveva cento.
Ma
Dio, dopo tanti avvertimenti lo colpì seriamente. Quando decise di tornare a
casa, fu punto da uno scorpione e stava per morire tra dolori atroci. Un brutto
male lo aveva attaccato allo stomaco, e non poteva né mangiare né bere. La
febbre bruciava e il re non trovava pace né di notte né di giorno. In così grandi
supplizi bestemmiava Dio, la Madonna e i santi; gridava, piangeva, invocava Lucifero,
perché lo guarisse. Ma Dio non glielo permise, perché è più potente. Un
mattino, poco prima di morire, si presenta a lui un monaco, che gli dice:
“Pentiti, altrimenti vai all’Inferno. Il giudizio di Dio è vicino. Dio è
disposto a perdonare tutti i tuoi peccati, se lasci libere le suore, i preti e
i monaci; se restituisci tutto quello che hai rubato alla Chiesa. Se fai tutto
questo, Dio ti perdona e non andrai all’inferno”.
Il
re, spaventato, si confessò, si comunicò. Le formiche divennero uomini,
all’improvviso; ma erano neri, come il carbone. Lucifero li aveva resi tutti
neri, perché erano stati suoi servitori, nell’Inferno, dove si erano coperti di
fuliggine. Il re restituì tutto alla Chiesa, liberò i monaci e le suore, e
tornò a casa. Ma i guai non finirono, e dopo poco tempo morì disperato.
Il
re aveva un figlio, che, alla sua morte, prese il regno. Non era molto grande,
ma era bello, biondo, con gli occhi di gatto[35].
Fu peggiore del padre e spogliò di nuovo tutte le chiese dei dintorni, come il
padre; anzi fu peggio del padre. Il Papa lo scomunicò, come aveva fatto con il
padre, e chiese aiuto a un re straniero. Questi venne in aiuto del Papa, e non
lontano da Santa Tammèlla combatté con il giovane re, lo vinse e lo uccise.
Dopo
la morte, Dio punì severamente il giovane re, che si era mostrato più cattivo
del padre. Il vescovo di Benevento, però, per tutte le malefatte che il re
aveva commesso, siccome non si era pentito, ordinò di dissotterrare il suo corpo
e di abbandonarlo sul greto del fiume, non lontano da Santa Tammèlla, che aveva
saccheggiato e distrutto. Dio per punizione lo trasformò in Mazzamaoréllo.
Questo diavoletto si aggira ancora lungo il fiume e si nasconde nelle boscaglie
per non farsi vedere. Non è cattivo, ma non vuole essere visto, molestato,
deriso e preso in giro.
A
Pago Veiano, però, come in altri paesi sul Mazzamaoréllo correvano anche altri
particolari, molto interessanti.[36]
4. Le
calunnie di Paolo Emilio Santoro
Gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica continuarono
per secoli a inveire contro Manfredi. L’ultimo epigono, del quale si ha testimonianza
scritta è l’arcivescovo Paolo Emilio Santoro, nato a Caserta nel 1560 e morto a
Urbino nel 1635. Fu un umanista felice e fecondo: Manuzio, in una missiva a Pietro
Pisone Soazza, «ne l’ultimo del 1586»,[37]
loda lo stile, l’accuratezza, la lepidezza, la forbitezza dell’opera Ex
Lib(ris) III Historiarum Regni Neapolitani, dalla quale trascrive solo la parte
dedicata al Regno di Napoli del Duecento e, in particolare, ai Conti di Caserta.
Nell’ampio frammento, tramandato dal Manuzio, il dotto
arcivescovo descrive con dovizia di particolari e uno stile forbito gli incestuosi
amori di Manfredi con la sorella Violante, contessa di Caserta. L’astioso
storico, come se avesse davanti agli occhi la bella contessa, parla di una
donna affascinante, formosa e, soprattutto, famosa; eppure di Violante,
chiamata per disprezzo Syligaitha,
nelle antiche cronache si trovano solo pochi cenni.
Anche se non sarebbe il caso, si riporta, tuttavia, qualche
brano, per dimostrare quanto rancore covava ancora, a distanza di tre secoli e
mezzo dalla battaglia di Benevento, all’interno della gerarchia ecclesiastica
contro Manfredi e la sua famiglia.
Che Manfredi non fosse un santo è più che certo; ma che
giungesse a commettere siffatte nefandezze solo non è provato, ma esula dalla
formazione umana e cristiana, nonché teologica del principe svevo. Dante,
infatti, non a caso, gli mette in bocca un verso di particolare efficacia, orribil
furon li peccati miei,[38]
dove umanità e spiritualità convivono in maniera pregnante nel penitente,
sicuro di godere, un giorno, la felicità riservata agli eletti di Dio.
Per appagare la curiosità del lettore, tra
tutte le calunnie e le diffamazioni messe in atto dal dotto arcivescovo, si riportano
solo un paio di stralci, sufficienti per fornire un’idea abbastanza chiara del
clima avvelenato, che ancora si respirava. L’arcivescovo doveva provare un
certo e compiaciuto piacere nel narrare, con mirabile fantasia, così profonde
laidezze ed inverecondie. Tutto il racconto, puramente immaginario, tingerebbe
di vergogna il boccaccesco Bandello nonché il triviale Pietro Aretino de Sonetti lussuriosi e dubbi amorosi. I due
brani, che seguono, dimostrano che il rancore negli alti prelati della Chiesa
era più che mai vivo:
Erga sororem acerbae faces et cupido: furentem
represserat genitoris maiestas, patrisque respectus, queis veneno sublatis,
rursus scelus volvere et anhelare, atque in erudita et delicata sororis facie
transcendere naturae artisque leges.[39]
Dopo qualche riga lo storico calca volutamente
e, voluttuosamente, le tinte. Nel delineare la bellezza della donna
l’arcivescovo non ha nessuna remora; ma da fine psicologo e abile narratore
mostra Violante in tutta la sua carnalità e le arti squisitamente femminili per
accalappiare il fratello, che si lascia irretire:
Forma erat augusta, florentissima aetas, procerum
corpus, vivida caro, praefulgens oculorum acies, venustate amictuque suo
mortalium animos devinciens, flava ac demissa caesaries, in cincinno torto
crine, frons Regia: ad haec naturae dona, comis sermo, multi lepores, acre
ingenium mira eque artes accedere … Quibus veluti telis percussus Manfredus aestuare
spe, metuque, diversa agitare, modo libidine insanire, modo furore compesci:
forma, libido, Regia potestas, mulierum animum mollis, praebita commoditate,
cupidissime Veneri succumbens: decus inde regium, sororia juga, viri dignitas,
diu noctuque inter se pugnare, nec capere cibum aut gustare somnum nomine sinebant;
sed animum, maioribus flagitiis imbutum, vicit impotens atque incestuosa
libido. Quamobrem pudore perfusus, tremulo alloquio aperit sorori cupiditatem,
precatur ignosci sibi, Veneri impotenti cuncta vi tribuenda, mori se, cum
lacrimis, ne succurratur, sororem obtestatur, simulque omens libidine, preces,
imperium, vimque in unum miscet”.[40]
Fin qui la calunnia e la
maldicenza. Lo storico tace. Il lettore, se vuole appagare la morbosa curiosità,
può trovare il resto da sé: nei riguardi dei defunti la pietas impone anche sul comportamento morale tenuto in vita riverenza
e rispetto. Per quanto depravato possa essere stato, non è credibile che
Manfredi sia giunto a commettere azioni così turpi. La Storia non dice, se non
per il tramite di menti malate, quanti e quali peccati, quale e quanto male il
nemico sconfitto abbia commesso in vita.
I veri motivi, che hanno
fomentato l’astio più laido e le calunnie più invereconde nella gerarchia
ecclesiastica, vanno cercati in due fattori di capitale importanza. L’alta gerarchia
della Chiesa, a cominciare dal trattato di Sutri, aveva completamente dimenticato
la sua vera missione e si era rivolta unicamente al potere terreno, che cercava
di mantenere e ingrandire con ogni mezzo. Là dove non potevano le armi,
arrivava la scomunica, un deterrente molto temuto soprattutto dai regnanti,
perché il Papa con quell’atto, puramente spirituale, nello stesso tempo
deponeva l’imperatore e liberava i sudditi dall’obbligo dell’obbedienza.
Il primo segnale a scatenare
l’odio del Papa fu la risolutezza di Manfredi di riunire sotto la corona sveva
tutte le terre in potere della Chiesa, calcando le orme di Arechi, principe di
Benevento. A questo piano, davvero geniale,
se ne unì un altro: si paventò l’attuazione di un’originale intuizione
di Enrico VI, che consisteva nella concessione di una grande somma agli ecclesiastici
in cambio della cessione dei loro privilegi.
Come Enrico, anche Manfredi
mirava a riconoscere e a imporre la sovranità statale; a offrire un adeguato
compenso a quanti assolvevano determinati compiti nell’ambito della comunità
politica; a determinare prebende e redditi annui al Papa, ai cardinali, ai
vescovi e, secondo i gradi, ai cappellani e ai chierici.
Questi provvedimenti,
ovviamente, non compensavano, nella situazione sociale del tempo, né la
libertà, né i diritti fino ad allora goduti dal clero. Il programma mise
all’erta il Papa, che, davanti alla risoluzione di Manfredi, non trovò altro rimedio
se non revocargli l’investitura, ricorrere alla calunnia e alla scomunica. La
quale, dettata e redatta con tutti i crismi, era inficiata dalle cause
obiettive, addotte come movente: inflitta per motivi terreni, dal punto di
vista giuridico e morale davanti a Dio non aveva alcun valore. Dante attacca
duramente il provvedimento con il sintagma per lor maledizion,[41]
che, in rapporto alla gravità, non sortisce gli effetti stabiliti dai canoni
ecclesiastici.
Anche nei secoli successivi,
Manfredi per la gerarchia ecclesiastica e per i fedeli è uno scomunicato e, con
gli effetti di così grave provvedimento, tutti potevano infangarne il nome e la
memoria.
5. Conclusione
Con il
presente lavoro si è voluto gettare nuova luce sulla fine, cui andarono incontro
le misere spoglie di Manfredi e, in modo particolare, sulle voci sinistre, che
circolavano sul suo conto. Lungi dal porre un punto di conclusione, questo
lavoro vuole essere il primo, un punto di partenza, per invogliare gli studiosi
a cercare quanto giace sia nei fondi degli archivi sia nelle tradizioni, radicate
nelle zone, nelle quali il giovane principe svevo detenne il potere. Non è
stato un cammino facile, perché nel bacino, dal quale ho attinto, quanti
potevano essere di aiuto sono ormai scomparsi. Quando si analizza una leggenda
o un mito, bisogna sempre porre molta attenzione a non lasciarsi trascinare verso
conclusioni affrettate o, peggio, azzardate. In base a quanto è emerso, il
corpo di Manfredi, dopo il riconoscimento, fu sommariamente sepolto vicino al
pilone del ponte della Maorella, da dove, circa due mesi dopo, fu abbandonato,
probabilmente insepolto, sulle sponde del Verde, l’ultimo tratto del Tàmmaro,
prima di sfociare nel Calore.
[1] I
registri della cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la
collaborazione degli archivisti napoletani, I, II ed, Napoli 1963, p. 17:
«Io pertanto, spinto da naturale senso di pietà, diedi ordine di seppellirne il
corpo, per così dire, con onore, ma senza il conforto religioso» (le traduzioni
dei testi latini, ove non altrimenti indicato, sono dello scrivente).
[2] Ibid.
«Data nel campo presso Benevento, il primo marzo, nel I anno del nostro Regno».
[3] Per la
complessità dell’argomento si confronti O. A, Bologna,
Manfredi di Svevia. Impero e Papato nella concezione di Dante, Roma
2013, pp.153-158.
[4] G. Iorio, Carlo I d’Angiò re di Sicilia,
Roma 2018, p.52. Sotto il titolo l’Autore, in modo significativo, aggiunge: Biografia
politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli.
[5] F. Cannacini, 1268. La battaglia di
Tagliacozzo, 2019, pp.113 ss.
[6] I
registri della cancelleria angioina, cit., pagg. 18-19: «Carlo … a Pandolfo
di Fasanella … Siamo venuti a sapere che molti Teutonici, Lombardi e Toscani,
ghibellini, non ancora a conoscenza della morte di Manfredi, una volta Principe
di Taranto, per mare vengono nel nostro Regno di Sicilia, con l’intento di
venire in soccorso del suddetto Manfredi contro l’eccellenza della nostra
Maestà. Pertanto, con la pena di perdere il nostro favore, … ordiniamo grazie
alla tua fedeltà … di porre tutta la tua diligenza … perché tutti i porti e
tutti i lidi della provincia a te affidata con opportuni posti di guardia siano
sorvegliati tanto di giorno quanto di notte sì che i Teutonici, i Lombardi e i
Toscani e chiunque altro straniero … non sfuggano dalle nostre mani, ma siano
catturati e incatenati con durezza. Sappi che questo affare ci sta a cuore
moltissimo. Vogliamo che ci scriva di frequente sui provvedimenti da adottare
in simili frangenti. Dato a Dordona il 14 marzo, durante la nona indizione, nel
I anno del nostro Regno». Si è ritenuto opportuno riportare il documento per
intero, per offrire un’informazione più completa ed esauriente sulle misure
repressive adottate da Carlo d’Angiò.
[7] Nuova
cronica di G. Villani, Parma
1991, Tomo II, 8-9: «Appiè del ponte di Benevento fu seppellito e sopra la sua
fossa per ciascuno dell’oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di
sassi»
[8] F. Ughelli, Italia sacra, Venezia
1721, tomo VIII, p.138: «Quando Carlo conseguì la vittoria su Manfredi ai
Salici, presso Benevento, e il cadavere di Manfredi fu sepolto nel greto del
fiume Calore nelle immediate vicinanze del Ponte, l’esercito di Carlo,
imbaldanzito per la vittoria si abbandonò con ferocia al saccheggio di Benevento…»
[9] Purg.,
III, 128.
[10] Phaedr. I,1: «Il lupo e l’agnello si
erano sulla riva dello stesso ruscello … al di sopra stava il lupo e molto più
giù l’agnello»
[11] Ibid.,
«Perché mentre bevo mi intorbidi l’acqua?» Chi ha visto bere gli animali al
fiume o a un torrente sa bene che le bestie pongono i piedi se non nell’acqua,
almeno nelle immediate vicinanze.
[12] Ibid.,
«Ma come posso, dimmi, fare ciò di cui ti lamenti, o lupo? L’acqua scorre dalle
tue alle mie fauci».
[13] Diod. 3, 56, in F. Bianchini, La storia universale
provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi, Venezia MDCCCV,
pag. 91: «Giove concede a Nettuno il potere sul mare e su tutte le isole, anche
su quelle situate lungo la riva».
[14] CIL XI, 3932: «da
entrambe le parti ai bordi della via insieme con l’acquedotto»
[15] Mc 10,
46: «Il cieco, al passaggio del Signore, sedeva ai bordi della via».
[16] Mt
4,18: «Il Signore sulla riva del mare di Galilea vide due fratelli». Da notare
che in entrambi i passi evangelici citati nelle edizioni critiche più recenti
al posto di secus si trova iuxta, con lo stesso significato.
[17] P. Grillo, L’aquila e il giglio. 1266:
la battaglia di Benevento, Roma 201, pp. 85.
[18] E.G. Leonard, Gli Angioini d Napoli,
Milano 1967. «Il nostro diletto figlio Carlo, l’illustre re di Sicilia,
possiede tutto il Regno, dopo averlo pacificato e ha in suo potere il cadavere
putrido di quell’uomo pestilenziale, sua moglie, i figli e il tesoro». Per
maggiori ragguagli cfr. O. A. Bologna,
cit., pagg. 169-172.
[19] Purg.
III, 132.
[20] Ibid.,
131.
[21] O.A. Bologna, cit., pagg. 169-172. Si
tengano presenti ancora: Memorie di
questo regno di Napoli e di nuovo
Compendio et annotamento raccolto da molti, che hanno scritto per memoria dei
posteri e delle cose, gesti, e fatti per gli antichi notati per molte Cronache,
pag. 332. E. G. Leonard, Gli Angioini
di Napoli, Milano 1967, p. 62: “Il nostro diletto figlio Carlo, l’illustre
re di Sicilia, possiede tutto il regno dopo averlo pacificato ed ha in suo
potere il cadavere putrido di quell’uomo pestilenziale, sua moglie, i suoi
figli e il suo tesoro”; G. Del Giudice,
La famiglia del re Manfredi, in «Archivio
Storico per le Province Napoletane», III (1878), pp. 3-80; IV (1879), pp.
35-110, 291-334; V (1880), pp. 21-75, 262-302, 470-547.
[22] Salimbene da Parma, Cronaca de’ fatti
occorrenti nei tempi suoi, Parma 2007, 16, 232.
[23] A
questo punto bisogna operare una netta divisione la l’alta gerarchia
ecclesiastica, costituita dal Papa, dai cardinali, dai vescovi e dai sacerdoti,
dalla Chiesa, che è costituita dalla comunione di tutti i battezzati. L’alta
gerarchia, anche se sono membri qualificati della Chiesa, non sono la Chiesa,
ma parte di essa. E la parte, secondo l’insegnamento scolastico medioevale, non
è il tutto, cioè la Chiesa. Contro gli Hohenstaufen, quindi, ha combattuto non
la Chiesa, ma il Papa e quanti appartenevano all’alta gerarchia. La Chiesa
intera, cioè la comunità dei battezzati, per quel che mi è dato sapere, non ha
mai combattuto contro gli Svevi; ma ha brandito le armi, come a Lepanto, per
difendere la sua esistenza e l’Occidente cristiano dall’invasione dei Turchi.
Si ponga, quindi, attenzione a non identificare il Papa con la Chiesa, per non
cadere nell’errore, nel quale sono incappati molti illustri intelletti. Dante
nella Divina Commedia tiene ben presente la distinzione tra Papato, di
origine divina, e il Papa come uomo, capo della Chiesa e vicario di Cristo. Le accanite
e violente lotte per il possesso dei beni terreni appartengono al singolo uomo,
anche se insignito di prerogative non comuni, non della Chiesa, intesa come
corpo spirituale. Per averne un’idea si legga Inf. XIX, 61-120.
[24] Per
comprendere la propaganda negativa contro Corradino, si può consultare il
documentato studio di F. Canaccini,
cit., pp. 58-71.
[25] F. Canaccini, cit., pag. 71.
[26] Negli
anni Sessanta del sec. scorso molte persone di Pago Veiano, quando minacciavano qualcuno, dicevano: «Te fazzo
fà’ la fina de l’annejàto a la Morgia de Fontanèlle», cioè: «Ti faccio fare la
fine dell’annegato alla Roccia delle Fontanelle», una località del Tàmmaro. Usavano
questo modo di dire, per non nominare il suicida, annegato in quel tratto di
fiume. È difficile dire se si comportavano così per rispetto o per disprezzo
verso il morto.
[27] O.A. Bologna, cit., pp.179-182.
[28] Con
questo termine, da passare, si indicava nei tempi passati una serie di
grossi macigni, messi in fila uno se seguito all’altro, là dove il Tàmmaro è
molto largo e la rapida non è violenta. Serviva soprattutto d’inverno, per passare
dall’altra parte del fiume. Si costruiva e curava questo tipo di passaggio,
perché i ponti erano molto distanti tra loro.
[29] Maorella è un neutro plur., cui è
sottinteso arva.
[31] Falcone
Di Benevento, Chronicon Beneventanum,
a cura di E. D’Angelo, Firenze 1998, relativamente all’anno 1138 si legge: “Il
Re dimorò quattro giorni nel Castello di Tàmmaro. Il suddetto Duca (Rainulfo),
raccolto l’esercito, venne presso la città, per difendere Ariano, perché il re
non la invadesse in nessun modo, e così il Re e il Duca si logoravano a
vicenda. Percorsi questi territori, il suddetto Re lasciò il castello di
Tàmmaro e si diresse verso il territorio di Melfi; e partendo di lì, ridusse in
suo potere il castello di S. Agata, ben fortificato, e molti altri che
sorgevano nelle vicinanze”.
[32] Ib.
[33] Ib.
[34] Ib., p. 158.
[35] È
un’espressione locale, che significa ‘occhi azzurri’, spesso usata per
dileggio.
[36] O.A. Bologna, cit., pagg. 179-182.
[37] A. Manuzio, Lettere Volgari, Roma 1592, pagg. 86 -88. Questo breve scritto,
pagg. 88-93, dovrebbe essere studiato con maggiore attenzione: il dotto
arcivescovo, infatti, raccoglie senza vagliarne la verità, quanto nei secoli passati
avevano seminato nella zona di Caserta i predicatori del passato con sfrontatezza
e spregiudicatezza avevano detto per gettare fango sia su Manfredi che su sua
sorella.
[38] Purg.
III, 121.
[39] A. Manuzio, Lettere Volgari, Roma 1592, p. 86 e ss: “Nutriva per la sorella
violente fiamme d’amore: la maestà del genitore ed il rispetto verso il padre avevano
represso la sua sfrenata audacia; ma, soppressi questi con il veleno,
cominciava di nuovo a meditare e desiderare ardentemente l’incesto; e nel
raffinato e piacevole aspetto della sorella trasgrediva le leggi della natura e
della regola morale”. Il Santoro crede davvero che Manfredi avesse avvelenato
il padre, Federico II, ed il fratello, Corrado IV.
[40] Ib. “ Era di nobile aspetto, nel pieno
vigore della giovinezza, alta, d’incarnato chiaro, lo sguardo molto vivace,
conquistava l’animo degli uomini con la leggiadria delle vesti; la chioma era
bionda e modesta, con i capelli attorcigliati in boccoli, aveva l’aspetto
regale: a questi doni della natura si aggiungeva l’affabilità nella conversazione,
grande piacevolezza, viva intelligenza … Colpito da siffatte qualità come se
fossero dardi, Manfredi si consumava nella speranza e nel timore, provava
sensazioni opposte, ora impazziva per il piacere, ora veniva trattenuto dal
pudore: la bellezza, il piacere, il potere regale, l’animo lascivo delle donne,
per la comodità che gli si offriva, cedeva ai piaceri dell’amore con grandissimo
ardore; il suo decoro di re, i diritti della sorella, la sua dignità di uomo si
combattevano giorno e notte e non gli permettevano di prendere cibo né di assaporare
il piacere del sonno; ma la sfrenata ed incestuosa libidine ebbe la meglio sul
suo animo, marchiato da crimini ben più gravi. Perciò pieno di vergogna, con
voce tremula, manifesta alla sorella la sua passione, la prega di perdonarlo,
dicendo che tutto deve essere attribuito alla forza travolgente dell’amore, e
tra le lacrime scongiura la sorella che, se non corre in suo soccorso, muore e
nel contempo, fuori di sé per la libidine, mescola insieme preghiere, ordini,
violenza”.
[41] Purg.
III, 133.
Un lavoro di maestosa intelligenza critica; di filologica ricerca storica. I documenti utilizzati in maniera organica e sapienziale dimostrano la grandezza della persona con cui abbiamo a che fare.
RispondiEliminaComplimenti caro amico, per così tanto sapere ma sopratutto per la facilità scritturale con cui lo esprimi.
Nazario