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martedì 4 febbraio 2020

ORAZIO ANTONIO BOLOGNA LEGGE: "ALCUNE LIRICHE" DI GIOVANNI MARTONE


ORAZIO ANTONIO BOLOGNA 
BREVI RFLESSIONI SU ALCUNE LIRICHE
DI GIOVANNI MARTONE


Orazio Antonio Bologna,
collaboratore di Lèucade

Analizzare la produzione poetica di Giovanni Martone a prima vista potrebbe sembrare facile, perché la sua scrittura, a differenza della stragrande  maggioranza dei poeti odierni, non si abbandona, se non raramente, a strani e incomprensibili equilibrismi verbali, nonostante presenti ampi squarci lirici e profonde riflessioni, che sfiorano tanto la filosofia quanto la coscienza religiosa e sociale. Ogni lirica di Martone, perché possa rivelare l’insondabile afflato lirico, la profondità di pensiero e i motivi, che l’hanno posta in essere e ne costituiscono l’essenza, deve essere letta più volte, e con molta attenzione, per assaporare prima e comprendere poi il significato di ogni singolo lessema, di ogni singolo sintagma, di ogni singola strofa, per giungere, alla fine, dove l’autore vuole condurre il lettore. A prima vista potrebbe sembrare che il poeta si interessi solo di problemi sociali. La lettura dell’opera, però, offre una vasta e articolata gamma di problemi e riflessioni, che difficilmente, si possono condensare in poche paginette. Per cui, in questa breve riflessione sull’opera, fermerò l’attenzione solo su un paio di liriche, per evidenziare l’impegno morale e sociale, oltre che poetico, dell’autore.
 Il contenuto del libro, non a caso intitolato Il Comunista, per essere compreso ha bisogno, innanzitutto di molta attenzione e di una solida cultura fondata su ampie basi filosofiche, letterarie e sociologiche, perché l’autore parla tanto all’uomo della strada, delle fabbriche e delle aziende quanto all’acuto ricercatore sui problemi sociali e religiosi dell’uomo contemporaneo. Non esita, infatti, a denunciare e puntare i riflettori sulla spietata logica di una politica dissennata, che ha inflitto contraccolpi letali, ha stroncato sogni, ha reciso speranze in molte coscienze. È, per certi aspetti e almeno in apparenza, la poesia degli umili, dei diseredati, dei vinti, per usare un’espressione della critica verghiana. Ma non è sempre così, anche se pone il lettore davanti a evidenti soprusi lesivi della dignità umana. Il poeta leva la sua voce, punta il dito contro la disonestà di abili e insensibili ciurmatori, ma si piega anche a riflettere sulla caducità e brevità dell’esistenza umana.
In ogni lirica, invece, si sente vivo il battito di un cuore che lotta, l’animo forte di un uomo abituato al violento scontro contro la durezza e la miseria della vita, per procurarsi e procurare alla famiglia il pane quotidiano. In più di una pericope sembra riecheggiare il sempre attuale anelito evangelico: dacci oggi il nostro pane quotidiano. Martone, però, oltre a chiederlo a Dio, sulla bontà del quale non nutre dubbio alcuno, lo pretende da coloro che amministrano la Res publica, lo Stato, perché il primo, e più importante, impegno di ogni politico è mettere tutti gli uomini nelle condizioni di fruire della tranquillità economica mediante la promulgazione di leggi atte a favorire in modo armonico lo sviluppo della società.
Dalla lettura, anche superficiale, delle brevi, ma intense e vibranti, liriche emerge una viva contestazione, uno sdegnato grido di protesta contro coloro, e sono tanti, i quali, una vota giunti al potere e sistemati i propri interessi, dimenticano gli elettori, i cittadini che li hanno eletti; dimenticano lo Stato, che sin dall’inizio della nuova vita considerano un ente astratto, fonte solo del proprio benessere e dei propri privilegi. Questi signori, e non sono pochi, durante la campagna elettorale ingannano in maniera disonesta e capziosa gli elettori con promesse per lo più inattuabili; ma, appena raggiunta la meta, adoprano tutti i mezzi, per badare al proprio particolare, al proprio tornaconto, a consolidare la propria base economica, e trascurano l’aspetto sociale del loro mandato.
Attanagliati da questa logica aberrante, anche il Partito Comunista, che, come programma di fondo, aveva la difesa e l’interesse dei lavoratori, col passar del tempo e davanti all’inarrestabile evoluzione, verificatasi nel suo interno, è venuto meno all’aspetto sociale che lo caratterizzava fin dalle origini. Non è, infatti, un caso fortuito, se il libro si apre con un’amara, ma significativa, asseverazione:
    ho giorni e anni da raccontare
    nella tua Casa, Comunista.
In questa breve, ma intensa pericope emerge tutta l’amarezza di un militante illuso, avvilito, umiliato. In nome dell’uguaglianza, di un ideale di società fondata sul benessere comune si è lottato per giorni, per mesi, per anni con la segreta speranza che, col passar del tempo e la presenza di uomini nuovi, la società sarebbe andata incontro a vistosi cambiamenti, tanto decantati e strillati.
Se, però, si pone maggiore attenzione al sintomatico verso nella tua Casa, Comunista, ponendo maggiore attenzione sullo stacco di due lessemi di particolare pregnanza semiologica, casa e Comunista, separati da virgola, la riflessione porta a un’altra realtà, che, con la sua temporalità, conduce alla soglia metatemporale della realtà celeste. Diviene evidente, a questo punto, il discorso sulla dottrina sociale e sulla missione della Chiesa, la quale, da due millenni, nonostante spessa patina di temporalità e di attaccamento ai beni temporali, ha predicato ininterrottamente la pace e l’uguaglianza sociale. E le sue porte, nonostante le tempeste e le avversità, sono state sempre spalancate per tutti, indistintamente.
Densa e pregna di afflato lirico, di pietà umana e fede in Dio è la toccante lirica Il Nazareno ti bacia le labbra. La morte di un vigile urbano offre al poeta l’amara occasione per riflettere sulla morte voluta di un fedele servitore dello Stato all’amorevole accoglienza del Nazareno, che gli spalanca con amore le braccia inchiodate sulla croce e lo accoglie nella gioia dei giusti, segue lo sdegnoso rimprovero a quanti avrebbero dovuto tutelare a sua incolumità. Il vigile, purtroppo, era una persona scomoda, perché denunciava le numerose e plateali illegalità, che devastano e distruggono la Terra dei Fuochi. 
Dopo aver passato in rassegna i variegati aspetti della società e gli inganni e le illusioni alimentati dall’egoismo e dalle miserie umane, Martone apre il cuore alla speranza alimentata dalla fede e pone sulla bocca della Chiesa una risposta, che non ha bisogno di commenti:
sono qui a parlarti,
a parlarti da 2000 anni.        
Lascio da parte ulteriori riflessioni, che il lettore ricava da sé a mano a mano che procede nella lettura del libro: riprendo, a questo punto, il discorso interrotto sull’impegno umano e sociale dell’uomo, desideroso di rendere partecipi tutti dell’intimo travaglio che lo turba. Ritorno ai politici di turno, i quali dopo anni e anni di promesse, non hanno cambiato niente; anzi hanno peggiorato la già precaria condizione degli operai e del ceto medio. Consapevole di tanto squilibrio, Martone con amarezza osserva:
    ho nello sguardo
    la povertà incontrata per strade
    sporche senza fanciulli.
Un’approfondita analisi di questi pochi versi insieme con una lettura più attenta delle poche parole, che compongono l’amara pericope, permette di gettare uno sguardo sulle realtà della società e dello Stato attuale, nel quale viviamo: emergono palesi tanto l’abbandono quanto, e soprattutto, la povertà, che non permette alle giovani generazioni di formarsi una famiglia, avere bambini. E questo, nonostante le roboanti promesse, determina la morte della società, dello Stato, come il poeta amaramente osserva nella stessa lirica, che apre il corposo volume:
    ho il pianto di culle vuote
    e riformatori di bambini adulti
    senza più giocattoli.
Alle promesse di una società edenica, l’autore pone davanti agli occhi del lettore la sconcertante realtà, nata dal fallimento di ideali irraggiungibili. E ciò è dato dalla vistosa, e insanabile, sperequazione, che ha permesso ai ricchi di essere più ricchi e ai poveri di vedersi ridotti sul lastrico per la mancanza dei beni di prima necessità. In questa spietata e disumana lotta, che è solo corsa all’arricchimento, sembra echeggiare l’amara costatazione plautina: homo homini lupus, l’uomo nei confronti del prossimo si comporta come un lupo. E il Martone non esita ad affermare che, in questa logica aberrante, l’uomo non esita a diventare lupo, a schiacciare il proprio simile:
    ho nella testa il tarlo
    dell’uomo padrone dell’uomo
    con catene di povertà.
Ritorna, e con insistenza, il drammatico tema della povertà, presente anche in altre liriche. È, questa, una piaga che, col tempo, se non si adottano gli opportuni provvedimenti, rischia di incancrenirsi e ridurre la società alla dura schiavitù di quanti posseggono di più. Incredibili e, a volte, insanabili sono i drammatici effetti prodotti dalla povertà, alla quale tutti i governi hanno cercato, per altro, senza riuscirci, di porre seri rimedi. Il riverbero di insane misure, tendenti a risollevare la miseria d’una consistente fascia di popolazione è stato così dannoso da mettere in mezzo alla strada innumerevoli famiglie. Di recente nella nostra società è entrato in modo drammatico il termine esodato, che ha provocato ferite difficilmente rimarginabili, perché migliaia di padri e madri di famiglia si sono trovati all’improvviso senza lavoro, senza un cespite, che permettesse loro di vivere con dignità.
Per rendersi pienamente conto della drammatica, e irreversibile, situazione, è sufficiente leggere la seguente riflessione di Martone:
    Antonio sessantadue anni
    seduto in prima fila
    attore e spettatore
    da mesi recita,
    fuori un cancello chiuso,
    una replica al giorno.
    “Disoccupato”.
    Atto unico con finale a sorpresa
    impreca la Fornero, improvvisa.
    Penso e sono sincero
    l’ho vista piangere
    io spettatore e attore
    lavoro da vecchio e invecchio.
Il poeta entra nel vivo di uno spaccato sociale gravido di tragiche conseguenze: tocca i temi vivi e scottanti di un tremendo periodo di crisi abbattutosi sull’Italia con tutte le drammatiche conseguenze. La densa pericope richiama alla mente il promettente governo presieduto dal Sen. Mario Monti, il quale, con i suoi ambiziosi programmi, si presentava alla Nazione come il salvatore della sua economia e il restauratore d’uno status mai attuato. Si ebbe una drastica diminuzione dei posti di lavoro e un inesorabile taglio alle pensioni. Non toccò, però, né le prebende dei parlamentari né intaccò i proventi, piuttosto lauti, di certe classi privilegiate. La soluzione della crisi, che stava portando l’Italia al tracollo. Come tutti i suoi predecessori, anche l’on. Monti preferì intervenire sulle categorie più deboli. Molti ricordano, come evoca il testo citato, il ministro Elsa Fornero, che, mentre annunciava le draconiane soluzioni da adottare, scoppiò in un pianto improvviso e liberatorio davanti alle telecamere.
In realtà tutti sappiamo bene quale atteggiamento, in quelle giornate concitate, assunse tanto il governo quanto il parlamento: nessuno osò diminuire i propri appannaggi o limitare i propri privilegi. Anche in questo caso assurdo, come l’operaio che spera nell’apertura della fabbrica, per i signori parlamentari e la serqua del loro apparato era un pietoso atto unico, ma con finale senza sorpresa: percepire quanto le leggi stabiliscono a danno dei cittadini, che li hanno eletti fiduciosi nelle loro accattivanti promesse. È, questo, un atto unico che si ripete giorno dopo giorno, anno dopo anno, legislazione dopo legislazione. Intanto gli inganni continuano. 
La riflessione di Giovanni Martone diviene cruda e violenta, si piega con amarezza su incontrovertibili eventi storici e denuncia le disuguaglianze sociali e i farisaici raggiri perpetrati ai danni di gente indifesa, messa dalla vita stessa nell’impossibilità di difendere la propria dignità umana. Non credo che la stessa Fornero, dopo la plateale scenata davanti alle telecamere, insieme con il Presidente del Consiglio e gli altri ministri abbia rinunciato a qualche beneficio, limitato qualche, seppur minimo, privilegio.
Martone con la semplicità del linguaggio, tenuto insieme da una struttura narrativa semplice, e la naturale scorrevolezza del verso diviene portavoce di una larga fascia di esseri umani precipitati da un giorno all’altro nel baratro della miseria più nera e nel bisogno più urgente: mettere un piatto caldo davanti ai figli, avere un pasto assicurato tutti i giorni.
Questo per un uomo e per una donna è l’umiliazione più grave, l’offesa più vergognosa perpetrata senza vergogna da chi, proprio per gli impegni assunti davanti al Popolo, è moralmente tenuto a procurare ai cittadini almeno lo stretto necessario per vivere. Per questo motivo Giovanni Martone conclude con amarezza la lirica: l’ho vista piangere. Sulla platealità del gesto e sulla sua sincerità, per dirla col Manzoni, ai posteri la sentenza. E noi, i posteri, paghiamo ancora sulla nostra pelle il tanto assurdo quanto inquietante demagogismo di tanti spudorati cialtroni. Manzoni, davanti all’impotenza di un povero popolano, non senza ironia osserva: così va il mondo.
Quanto ciò sia vero, Martone non esita a scrivere:
    l’orto coltivato con promesse e parole
    nel nome del bene comune
    lascia le tante Marie
    tra i cassonetti in preghiera,
    mentre porci dalla pelle umana
    calpestano Croci e nuovi Cristi
    colorando il cielo di rosso.
Alla luce di quanto accennato in precedenza. la breve e densa pericope, amara costatazione e conclusione di vane attese e speranze frustrate, si commenta da sé: quando si arriva alla minestra, la sinistra è con la destra e le promesse e i giuramenti vanno inesorabilmente a finire tra le ortiche. L’insieme offre il lato a un tetro pessimismo, che serpeggia inquieto nell’animo sia del poeta che in quello dei tanti cittadini, i quali nelle tante promesse e nelle parole del bene comune hanno trovato la fonte della loro miseria, della loro povertà. Crolla inesorabilmente su sé stesso un castello che, almeno in apparenza, ostentava solide fondamenta, alimentate da promesse di uguaglianza e di benessere.
Non posso, a questo punto, non riservare un cenno al sottofondo culturale costituto dalla cultura cristiana, che informa serena e pacata l’esistenza stessa dell’uomo. Questa, unita alla retta interpretazione e valorizzazione del comunismo, intesa come equa distribuzione dei beni e del lavoro, conferisce alla lirica un lacerante e lancinante grido di dolore, quando l’uomo, il cittadino, il cristiano prende coscienza e si trova davanti a promesse e giuramenti traditi proprio da quelle persone, nelle quali avevano riposto la propria fiducia.
Questa lirica, È un imbrunire, diviene un giusto e violento atto di contestazione e di accusa e il poeta si presenta come portavoce delle masse operaie tradite nelle loro giuste aspettative. Di questa densa e pregnante pericope è, a questo punto, impossibile qualsiasi analisi, qualsiasi parola, perché ogni lessema parla da solo, invia messaggi inequivocabili, segnali luminosi di coscienze tradite e strumentalizzate da loschi arrivisti, che vivono sugli inganni e su promesse mai mantenute. Per cui questi onorevoli signori, porci dalla pelle umana, senza scrupolo alcuno calpestano Croci e Cristi. In questa meravigliosa e pregnante endiadi finale si legge la dolorosa presa di coscienza che ogni giorno vengono impunemente calpestati tanti poveri, letteralmente crocifissi dalla miseria e dall’umiliazione più obbrobriosa. E questo, oltre a non essere cristiano, non è neppure umano.            
        

       

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