“Il retaggio dell’ombra” di Rossella Cerniglia:
figurazioni, rappresentazioni, immagini, visionarietà
del linguaggio poetico.
Di Mario Santoro
Se la
definizione esaustiva della poesia è praticamente impossibile, per le sue
implicite potenzialità e per saper essere sempre altro, pur con le tante suggestioni
messe in campo dal “vaso rotondo, liscio e bianco” caro ad Antonio Porta che “galleggia
sul fiume tumultuoso” e, solo dopo essere stato centrato dal martello pesante
del poeta “sprigiona tutta la sua luce”, alla poesia intesa come “la vita al
suo più alto e intenso grado di partecipazione intima” secondo Mario Luzi, e
alla indicazione di Garcia Lorca nel rimando al “granello di pazzia senza il
quale è imprudente vivere”, certamente possiamo condividere il parere di molti
esperti e sostenere che essa è, essenzialmente o prevalentemente, linguaggio che
a tratti “imprigiona chi scrive” secondo un’indicazione di Piero Bigongiari perché
rischia una sorta di costrizione obbligata, e “libera del tutto il lettore” che
interpreta il poeta.
Linguaggio,
dunque, modalità espressiva ricca, forza delle immagini che sanno richiamare
altre figurazioni e rappresentazioni in una sorta di dinamismo continuo e ininterrotto,
a tratti quasi fiume in piena, con dislocazioni di situazioni, rapide, impressive,
visionarie o lente, ma ugualmente significative e radicanti, sembrano essere le
caratteristiche dominanti della poesia di Rossella Cerniglia che sa assumere aspetti
e connotazioni particolari illuminando i dati contenutistici che talora velano
i contorni dei singoli elementi in favore di una visione d’insieme che cattura
il lettore e lo incatena, dal principio alla fine, generando in lui il desiderio
di una lettura che non abbia termine.
L’autrice
padroneggia, a piacimento, la parola che plasma e piega alla sua volontà e
controlla, in maniera attenta, vigile e scrupolosa, anche senza darlo a vedere,
i versi, scegliendo fior da fiore le parole che, pur mantenendo alla base la necessaria
denotatività, spesso o quasi sempre, sanno farsi inferenziali, imprendibili, se
non per tratti soprasegmentali, sfuggenti, allusive e qualche volta, per
contrasto voluto, si connotano come fortemente incisive senza perdere mai la
tensione emotiva; di qui la scelta di quelle essenziali e il non abuso mai -e
mi sembra gran pregio- delle aggettivazioni nella cernita sempre oculata e
appropriata.
E ciò vale
per tutte le sezioni che compongono il volume “Il
retaggio dell’ombra”, anche se risulta evidente la diversità dello
stile che balza agli occhi e che mostra, nella prima sezione, un verseggiare
impegnativo, organico, robusto, a tratti tetragono, in coincidenza con la
tematica trattata, mirando a mantenere sempre un’atmosfera densa di riferimenti,
cupa nell’insieme, a forte carica allusiva e visionaria, quasi senza la
possibilità di uno sgravio di tensione nel susseguirsi di situazioni che si
aggrovigliano, si mescolano, si presentano come orribili, terrificanti,
truculente, granguignolesche. Altrove si assiste ad un procedere alleggerito
nel verso, che tende alla brevitas e
spesso alla verticalizzazione pur in una visione di negatività, di pessimismo,
di chiusura; viene continuamente tirata in causa l’esistenza collettiva quanto
mai confusionaria, caotica, senza senso e senza ideali, caduti come sembrano
essere taluni valori o pseudovalori, in una sorta di rincorsa frenetica, a
volte forsennata, del contesto sociale con i fenomeni della violenza, della
prepotenza, della sopraffazione, della ricerca del futile, del passeggero, del
caotico.
Il linguaggio
risulta sempre ben curato e le parole, a tratti, sembrano come rotolare e
producono, in altre sezioni, un suono orecchiabile che scende fino al cuore
così come, assai spesso, i versi non sono scanditi o delimitati dalle cesure e
creano, per ciò stesso, ritmicità particolare di suoni e linee di armonia
grazie ad una sorta di segmentazione che non interrompe il cosiddetto flusso
sonoro ma, in qualche modo, lo restringono.
E, se nella
prima sezione, “Apocalypse”, si ha forte la sensazione di trovarsi in
una sorta di labirinto linguistico-contenutistico da cui non solo non si riesce
ad uscire ma si rischia, da un momento all’altro, di lasciarsi sopraffare dalle
situazioni, altrove, pur mutando il linguaggio, che tuttavia mantiene il senso
della musicalità, mancando il filo miracoloso e salvifico di Arianna, si
procede quasi a senso unico e si avverte una percezione di disorientamento e di
assenza di via di uscita e, di conseguenza, si ha l’impressione di doversi
arrendere o di implodere; eppure il linguaggio non cede alla dissolvenza con
affreschi impossibili, ma mantiene la sua forza nella direzione del male di vivere,
tra sensazione di implosione beckettiana e bisogno di esplosione joiciana.
Il lettore,
come il poeta, rischia di rimanere invischiato nella non via di uscita, che
sembra apparire, non come rete montaliana con la maglia rotta per la ipotetica
salvezza di qualcuno, ma piuttosto muraglia “che ha in cima cocci aguzzi di
bottiglia”.
Di qui l’appropriatezza
del titolo del volume “Il retaggio dell’ombra”
laddove il retaggio indica l’insieme caotico di violenza bruta che viene da
lontano e si fa sempre più virulenta e l’ombra e la proiezione dello stesso sul
mondo con la luce nascosta dietro un ammasso di nubi e con qualche vano
squarcio che crea strane e paurose sagome tanto sul mare quanto sulla terra e,
a tratti, origina condizioni di contrasto tra tempeste improvvise e calme
piatte, tra chiarori fugaci e foschie impenetrabili. In situazioni siffatte l’uomo,
che è sempre solo, destinato a soccombere, tenta invano la lotta e sopravvive a
fatica pagando un alto prezzo. Il titolo richiama in qualche modo quella che potrebbe
essere una delle tanta funzioni del poeta e lo sollecita a dare ordine al magma
confuso, facendo emergere, o almeno tentando, ciò che è ancora immerso nell’oscurità
o si mantiene in una situazione di ombra che non riesce a schiarirsi.
La poetessa
dichiara apertamente il rifiuto di un Dio da vecchio Testamento, inflessibile,
severo, a tratti terribile, giustiziere, vendicativo, un Dio che gli uomini,
sebbene spesso tanto malvagi, non possono meritare e propende per un Dio di amore.
Questa contraddizione di fondo fa sorgere molti motivi di dubbio e genera
incertezza per l’uomo che è incapace di capire, per limiti impliciti e, se
spesso è egli stesso causa del suo male, ciò non giustifica la presa di distanza
di Dio, sicché il dramma dell’uomo che non riesce a soddisfare il suo desiderio
di sapere e avverte forte il disagio della sua ignoranza, sembra
giustificabile. Di qui, verso la conclusione della penultima sezione e in tutta
l’ultima, quasi una sorta di lungo respiro e la sensazione non dichiarata di un
recupero della lontana apocatàstasi di cui parla Origene nel negare l’inferno, nella
speranza-certezza che, alla fine del mondo, tutti gli esseri torneranno a Dio e
tutte le anime recupereranno l’innocenza primitiva.
Intanto, all’avvio,
tutto il mondo lontano appare come immerso in una continua situazione di
tempesta e di tragedia, che sembra fare il paio con l’oggi e spinge l’autrice
ad interrogarsi sul senso più vero dell’esistenza e soprattutto sui mali, sulla
sofferenza, sulla violenza del mondo nel richiamo all’Apocalisse di Giovanni ed
evidenzia nella sua lunga, interessante e appassionata trattazione, la mancanza
di luce e il dominio del buio che è certamente fisico ma anche e soprattutto
spirituale.
L’ambiente
appare, nell’immediatezza e con forza d’impatto “oscuro, tenebroso, frutto
farneticante / d’una mente in delirio. Qui non vedo il Dio / di promessa
salvezza / il pietoso dei mali della terra, il compassionevole / delle umane
miserie” (Apocalypse, IV). E sono
parole gravi, addirittura di fuoco, che la dicono tutta, e in maniera inequivoca,
sulla difficoltà enorme a comprendere un Dio d’amore che consente tanto male e
sembra quasi nascondersi o comunque disinteressarsi delle sue creature.
Con queste
premesse il tema diventa subito angosciante e problematico oltre che misterioso
e incomprensibile o almeno inaccettabile e la Cerniglia,
con studiati versi, magnificamente costruiti, rende al meglio la situazione,
sulla quale, grava come piombo il silenzio di Dio che ferisce la sua anima e sbigottisce
anche perché riguarda tutti gli uomini, anche quelli di buona volontà.
E ciò fa
decisamente riflettere con l’angoscia che attanaglia e la condizione immaginifica
che l’autrice realizza e che rimanda, per certi aspetti, all’ottimo, ponderoso
volume del sac. Vitantonio Telesca dal titolo “E Tu taci?”
L’autrice
mantiene un tono, che non scade mai nel lamentoso, anzi tutt’altro, che si
carica di tristezza nelle sconsolate riflessioni e realizza un’ atmosfera
grigia e cupa, quasi da inferno dantesco: “Sono alle soglie giunto della più
vasta ombra / che mai secoli produssero, un limitare dove l’anima / s’inoltra
dentro il buio, nella spelonca, e la quiete abbandona / per un turbinare di
tempesta” (Apocalypse, I).
Dunque la
linea guida sembra essere l’ombra, con la polivalenza dei significati impliciti;
essa prevale sulla luce, e non potrebbe essere diversamente, e domina quasi
schiacciando, stendendo le sue informe mani ovunque e costringendo la poetessa
a rimarcare la condizione di semioscurità fisico spirituale, nel richiamo ad
orme non ben definite nelle insistita iterazione, “orme sulle orme, /…/ ombre che non si sfiorano” (ibid.), e
ancora “vanno senza che un dove sia / una meta” (ibid.) e infine sono
connotabili “come una triste turba di dannati” (ibid.) con la gravezza della
non forma definita che le rende ancora più misteriose e incomprensibili e
dunque paurose tanto più perché “un precipizio spalancato inghiotte” (Apocalypse, II).
L’immagine suscita,
per strane connessioni della mente, il rimando fanciullesco alle monachine
panzacchiane che “il camino nero inghiotte”, alle quali, tuttavia, sembra
essere riservata la speranza di rivedere le stelle nel notturno cielo.
Qui la
speranza è negata, o almeno celata, e si assiste ad un procedere incalzante,
quasi un climax ascendente, turbinoso e confuso senza l’ombra di una guida, a
guisa di un’imbarcazione senza timoniere, per un destino ignoto e particolarmente
crudele.
E così, tutt’intorno
è disastro e sfacelo, in una situazione da orrore che il linguaggio sa reggere,
mantenendo alta la tensione, e l’autrice può scrivere: “ma l’illusione resta di
poter contrastare nei millenni / lo sconcio che la creazione seconda ha
generato” (Apocalypse, II). Ed appare
del tutto coerente un passaggio certamente non addolcito ma meno tenebroso, quasi
una sorta di spiraglio minimo che però si chiude all’istante perché al di sopra
c’è “un Dio non indulgente / che ignora
l’infinito strazio della terra” (Apocalypse,
IV). E siamo sempre al “Tu taci” di cui sopra.
Districarsi
per l’autrice, nel racconto di San Giovanni, non è facile, anche per tanta
simbologia presente nell’ indicazione dell’emblematico e iterato “sette”: le
sette lettere alle sette chiese dell’Asia Minore e poi i sette sigilli che racchiudono
i segreti del regno di Dio, e ancora i sette segni, i flagelli, le coppe e così
via.
Non è
semplice ma ella sa muovere i fili e punta, più che ai dettagli, a ricreare,
con tratti marcati e con tinte forti, l’atmosfera orribile di dolore e di sofferenza
che mantiene la sua gravezza cupa ed asfissiante e schiaccia l’anima con un
profondo senso di annientamento anche se alla fine, quando il lettore ormai non
se lo aspetta, sembra aprirsi una via d’uscita, una luce dopo tanta oscurità “a
qualcuno devo grazie del verde ramo / che su me ora si china col vento,
voglioso di sfiorarmi / e mi illumina lo sguardo un istante” (Apocalypse, IV). E si tratta di un
istante decisamente salvifico.
Si apre una
nuova sezione, “Dai margini oscuri”, e muta del tutto la modalità di
scrittura non più a disposizione orizzontale. Già al primo impatto cambia
registro e si ammorbidisce quasi nella tendenza alla disposizione verticale, al
taglio rapido, anche se l’interrogativo di fondo resta lo stesso: senso dell’esistenza
che resta, sempre e comunque, mistero inesplicabile, nel suo svolgersi, con i
più o meno marcati cambiamenti che comporta e con atteggiamenti meditativi da
parte dell’uomo man mano che il tempo passa. E la Cerniglia puntualmente
annota: “Ecco cos’è la vita / è questo passo fattosi / attento sul marciapiede
/ per non barcollare / fretta su cui rallenti / consapevole / cercando
leggerezza / al peso che porti / un’andatura conforme / al respiro della vita”
(Ecco). Si tratta di versi straordinari,
morbidi nella pensosità e nel richiamo a elementi di studiato contrasto come il
passo che si fa attento e ponderato sul marciapiede, garanzia di sicurezza, e
la ricerca della leggerezza con allusione anche a quella dell’anima, o come il
peso, nella molteplicità inferenziale, e il respiro della vita, lieve o grave
che possa essere, nell’alternarsi delle illusioni e delle delusioni, con un
senso di appagamento o, più spesso, di smarrimento, di sperdimento
fisico-spirituale e finanche di estraneità, come l’autrice sostiene altrove, richiamando
elementi che generano sensazioni anonime come di cose inanimate: città, strade,
piazze, angoli deserti o popolati di uomini ombra, senza la gioia di un
sorriso, in una solitudine che appare, chiusa ad ogni sia pur lieve speranza.
E sembra
servire a poco, e soprattutto non consolare, “il breve riposo del gatto / tra
le tue gambe acciambellato” (Illusione).
La stessa sensazione di vuoto esistenziale, di impotenza, di sconsolata
rassegnazione, con il ricorso all’uso sovente del “tu” che resta sempre impersonale
e non dialogativo, si può cogliere altrove, con o senza sgomento: “Null’altro
c’è lì / dove tu sei, null’altro” (Figura).
Assistiamo
alla rievocazione monotona di giornate di noia, ripetendo sempre le stesse
insulse operazioni, mentre grava sul cuore la sensazione di un peregrinare vano
e si risperimenta una assurda condizione di provvisorietà con il sentimento della
morte che aleggia continuamente nell’aria.
Non a caso
ovunque “Ci sono gabbie ai confini / attendamenti di morte selvaggi / alle
frontiere e bivacchi funerei” (Esodo)
e tutt’intorno ancora grave fumo, melma e rovine e ghetti improvvisati. La
solitudine domina incontrastata anche in altri versi dove il tu, solo e senza
altro intorno, cede il posto all’io senza possibilità di incontro: “Andavo a zonzo
/ nell’auto mia di un tempo / un pomeriggio soleggiato” (Cos’era?). Si comprende bene che il girovagare, quasi come un’anima
in pena, senza un punto di riferimento, sembra adattarsi al “ricordo perduto / rinnegato”
(ibid.) e come velato in una sorta di cono d’ombra.
La condizione
di smarrimento perdura, anche se fa capolino la sensazione di una debole
volontà di ripresa che, ugualmente, si rivela ingannevole: “Domani nuovamente /
m’imbarcherò nell’impresa” (Domani),
per tentare di percorrere strade senza sbocchi e del tutto anonime che
contribuiscono ad accentuare il malessere che appare tanto più profondo con l’annuncio
del Natale, foriero di inevitabile consumismo ben lontano dal “mite pagliericcio
solitario” (ibid.). La dichiarazione di solitudine estrema è aperta denuncia in
un mondo-cloaca, con il vuoto nel cuore e il deserto nell’anima e tuttavia
sempre in attesa disperante di un po’ di luce e di calore umano, nell’impegno
quasi titanico: “Che sforzo per sorridere / per essere normali / benaccetti / nella
cloaca che chiamiamo mondo” (Che sforzo
per sorridere)
Pure in tanta
disperazione, con in cielo nubi nere che non diradano, l’uomo si predispone,
testardo, in trepida attesa, ad un pallido raggio di sole, ad una flebile
speranza, ad un fremito d’amore dal momento che “Un sentore di ramo fiorito / di
biancospino” si sente nell’aria dove vibra “una rara armonia” (ibid.).
Non mancano i
richiami alle stagioni come quella invernale con il “philodendron” con le foglie che tremano per il freddo,
come pure compaiono “spazi siderali”,
inaccessibili all’uomo che osa tuttavia protendere lo sguardo verso
le stelle e gli abissi, ma quasi subito, alla sensazione di quiete, ritorna a sovrapporsi
un’atmosfera cupa con immagini spettrali come annuncia la poesia Teschio e viole con l’immediato rimando
alla morte e alla vita. E, ovviamente, prevale la prima sulla seconda con corpi
che cadono sui colpi della mitraglia e formano mucchi di cadaveri: “giaccio
nella melma del fondo / corpo oppresso / nel mucchio di cadaveri // il fango
come un cane pietoso / mi lecca le ferite”. E, all’immagine fango-cane, seguono
putredine, fetore, liquame metafisico, sangue grumoso, un quadro decisamente
raccapricciante e poi, in una sorta di annebbiamento e di abbandono, quasi un
deliquio nella perdita della conoscenza, un trovarsi tra la vaga sensazione di
essere ancora vivi e la ineluttabilità della morte che non è certo “la signora
vestita di nulla” di stampo gozzaniano. E addolcisce tanta pena l’idea delle “viole che fioriscono alla base / del mio
cranio” quasi “immenso rigurgito
di vita” (ibid.). Continua il senso della disperazione, della solitudine,
della morte incombente: “non dissolvono / muri di prigione / dove impazzano
gridi di silenzi” (Solitudine).
Compare anche
il tema dell’esodo che non conosce limiti spazio-temporali ma è sempre ricorrente
con la prepotenza che poveri sventurati subiscono, bivacchi alle frontiere in
condizioni indicibili e l’illusione di poter varcare il vicino filo spinato,
rinforzato da robusta rete di protezione nella quale difficilmente “scappa” la
maglia montaliana per l’improbabile salvezza con la via di fuga da tentare
verso “la città eterna intoccabile / e remota sull’altura” (Esodo). E anche qui pioggia e fango per
i piedi nudi e memorie di violenze e maltrattamenti subiti.
Pure -e fa
quasi sorpresa- talvolta prevale una malinconia profonda con il rimpianto di
illusioni e sogni abbandonati sul nascere: “una vita verde / che guardavi a
distanza / meraviglia di prati / lucide foglie / che barbagliano ai tuoi occhi
/ senza esserne sfiorata / la tua vita” (Ecco).
Tutto ciò
procura ancora dolore e spinge a una sorta di premonizione amara: il sole non
emanerà i suoi raggi e “nessun canto / sogna / nessuna voce / nell’aria / o
bisbiglio” (Quando), nessun velo di
illusione ergerà sul nulla a dominare. Di qui la rabbia e lo sconforto che
spingono la Cerniglia al desiderio
spropositato di poter cancellare il mondo anche se, subito dopo, sembra voler
cedere al fascino della sera, non foscoliana e neppure pascoliana, che “sopraggiunge
/ con ignoto languore” (La sera sopraggiunge).
Il passaggio
alla terza sezione, “Dissonanze dell’ora”, avviene con naturalezza
dal momento che il “mondo freddo
e grigio”, capace solo di “isterilire
l’anima” (Fino al tempio dorato) con le sue ombre si
carica di “mestizia di cielo / senza
vento” (Alla tua immagini) e consente al ricordo, quasi
improvviso e prepotente, di attenuare la ‘pena di vivere’ nel doppio rimando
alla poetessa bambina tra le braccia della madre con la gelosia evidente della
sorella appena più grande e di se stessa madre con la bimba tra le braccia “alla
quale cantare ninne nanne” (Diaspora).
E ancora il ricordo ripropone una lontana pioggia violenta contro i vetri dell’auto
in autostrada, con il vento furioso, una bestiola morta sull’asfalto, e “l’acceso stupore d’un rosso tramonto” (Sull’autostrada),
visto fugacemente nello specchietto retrovisore.
Ora i temi si
susseguono con calma nel racconto di un Giorno qualunque che, per dichiarazione
precisa dell’autrice, denuncia l’assenza degli uomini nella vana ricerca del
Diogene di turno e con la presenza di cose morte, elementi inanimati, oggetti,
stanze vuote, pareti bianche di calce, qualche verme nel fango e inutili “melagrane acerbe” che “marciscono sul ramo” (Racconto).
Siamo a una
sorta di vaghezza di positività che risulta quasi evidente nella poesia Verrò consegnata al verbo di certezza al
futuro e si ipotizza un ritorno nei luoghi dell’infanzia, da effettuarsi magari
con pensiero per recuperare “le sementi lontane / di quel che ho piantato / un
giorno, la memoria / di quando anch’io fui”.
E, sempre
sulla linea sottile della positività si auspica la certezza di poter starsene seduta
in serenità, senza voglie scomposte, e di distillare parole “come un fiore” tra “sillabe di petali” (Seduto).
Sembra
davvero di trovarsi a un altro tempo se “Rintocchi lievi / spandono un senso / di
perdute lontananze” (Rintocchi) e
generano pace e quiete grazie anche a un orizzonte arrossato in un cielo
finalmente pulito. Ora l’anima pare quietarsi ed aprirsi quasi a nuove
prospettive e alla speranza che tende al rasserenamento.
E così si può
leggere nella poesia Nei Cieli: “Un
bagliore di sole / irrompe tra le nuvole / attimo che improvviso risplende / in
occhi di noia opachi / e di senso li irrora e inusitata gioia”. L’autrice
sembra davvero esserne convinta se continua: “Ora la vita / apre un passaggio /
di solo sole / per la tua speranza / e Luce alta / nei Cieli”.
Segni
fiduciosi compaiono a più riprese come la
rosa “fiammante” o il
“maculato verde” con “i
polloni” e “i germogli”
o ancora “l’oro verde” pur
in presenza di qualche ombra da dissolvere che, tuttavia, non impedisce l’affiorare
di un lontano ricordo “in non so quale strada / di una Chicago / di periferia”
(Eravamo).
E così tutto
sembra più accettabile e il cielo si mantiene chiaro e “il sole è speranza / e
l’azzurro è l’Immenso / con una nuvola sbiadita / e dolce d’incertezza” (Oggi il cielo); e gradevole appare la compagnia di un libro “puro
amante / che sfiori / tra le dita” (Un libro), così come dolce si presenta
il tramonto quieto con “Il sole che cade / dietro i monti / apre cortine lievi
/ esile desiderio / in un roseo crepuscolo” (Chimera vespertina) e con il paesaggio che appare
straordinariamente bello “verde selva e sassi / e acque sorgive / scintillanti”
(Paesaggio).
E si
potrebbe, ora, citare a lungo osservando “il candore tremante / di un
biancospino / la cui anima amai / in un’infanzia remota” (Il tuo sorriso) o ascoltando “il gorgogliare ridente / dell’equoreo
smeraldo” (Acque) o annusando “l’eterea
fragranza / che tu emani, o bosco” (Visione),
in una sinestesia multipla che conduce, gradualmente e con convinzione, ad
un punto solo: “Ecco che sono: / il luogo / dell’impermanente, / dell’eterno passaggio
/ in ogni dove / il fluire fatale / di un Amore / che ogni cosa pervade / e Tutto
muove” (Onda). E
così si passa, dall’ombra primigenia alla luce…
Fin qui l’autrice
che attendiamo a nuove avventure dello spirito mentre ora ripercorriamo
situazioni in libertà con i silenzi che in certe condizioni, con l’evidente
ossimoro, gridano ancora e altrove tacciono, o si mostrano come ‘flatus vocis’
come nel ricordo della “vuota casa antica / diroccata” (Non sai) o delle chiese
“nude, polverose” (Celebrazioni), rischiarate a mala pena da
una luce sinistra che genera paura con il “nero uccello / che taglia il muto stagno
/ scuotendo ali di cencio” (ibid.) che preannuncia la catastrofe con una
evidente nota di malinconia e di rimpianto: “Non più gli incensi / nell’abside
fastosa / e i salmi / che alti volarono nel vento” (ibid.).
E ci lasciamo
sorprendere e incantare da certe espressioni dense di significati, oltre quello
denotativo, e capaci di aggrumare sensazioni profonde, emozioni forti, rimandi
a lontananza perdute o mai del tutto possedute, richiami a situazioni
possibili, voglie scomposte, strane magie appena allucinate, intuizioni veloci,
e con sempre una linea di amarezza serpeggiante o evidente ma anche di quiete
serena. Ne citiamo, a mo’ d’esempio qualcuna: la “nota smarrita / che non ritroverò” (Che sforzo per sorridere);
le “pupille inquiete / e meste, interroganti” (Inarrivabile); “Solitudine di vicinanze inutili” che non potranno
mai dissolvere “muri di prigione” (Solitudine)
e ancora “piccoli arbusti”, “viole”
che “fioriscono” sia pure alla “base / del mio cranio” (Teschio e viole); “ali di cencio”
(Celebrazioni) - e altre.
Ma qui siamo
obbligati a tacere anche se la tentazione di ricominciare con altre annotazioni
è forte.
Mario Santoro
Rossella Cerniglia. IL
RETAGGIO DELL’OMBRA
Guido Miano Editore, 2020
mianoposta@gmail.com
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