Sandra
Evangelisi. Allegoria. Biblioteca dei
Leoni. Noventa Padovana(PD). 2020
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La parola è dono,/ l’intelligenza curiosità -
e con tale curiosità ci apprestiamo a caricare la scena di figure che
reifichino cose, persone, per dare corposità a impulsi emotivi che dentro
covano, dato che “non siamo più che un battito/ di rime frastornate dal mare”.
E’ il tempo a dirci della nostra
precarietà, del breve frangente concessoci per sbrigare i nostri affari. Quindi
sbrighiamoci e diamo fiato a Imperatrici (Teodora dagli occhi di ghiaccio,
l’imperatrice/nido di vespe e dono di dei/ troneggia al tuo fianco), Schiave (questo
è il mondo in cui viviamo/ e Roma non è immune da corruzione…), Decadenza (la
decadenza dei tempi è alle porte), Selene (Qui Selene accorda la cetra/ e
continua a cantare,/ con la lingua mozzata, se occorre…), l’amore (se sono
libera è perché ho amato), Germanico (E tu, valoroso Germanico, non nutrirti
dello stesso/ veleno di Cesare)… Eccola la parola. D’altronde è l’uomo che ha sentito
l’urgenza di dare il nome a fenomeni che nome non avevano. Una rappresentazione
surreale, uno spettacolo kafkiano, in cui l’autrice porta alle estreme
conseguenze i frutti della metafora. E Sandra intraprende un viaggio di trabucchi e marosi, senza il timore degli scogli che sbucano
dalle acque e veleggia intrepida verso un’isola che assiepa la mente: vita, morte, amore,
interrogativi, questioni che fagocitano risposte; insomma tutte quelle intrusioni esistenziali che
affiancano il fatto di esistere. D’altronde “La morte attraversa la vita e
passa oltre,/ ma tu, regina del nulla, allontanati / dal corpo dell’amato,/ del
mio bene supremo/ che se dovesse fuggire/ potrei dissolvermi assieme a lui.”.
Altro che epigonismi, tuffi mentali, o rigiri di parole; alla fine tutto si fa
normale, tutto rientra nei canoni di eros e thanatos e la poesia si fa chiara
coi suoi slanci di lirica passionalità. E quella che doveva essere una
allegoria per velare un dettato narrativo, alla fine si fa comune poetica di
interrogativi e questioni esistenziali dove niente è sperimentale, forse solo il
linguaggio, che allunga il tiro per allontanarsi dalla tradizione. Resta, per
questo, il fatto che la Nostra rivela tutto il suo disagio di fronte
all’antitesi ora-sempre: “Io so, se ho vissuto, è per tremare/ all’ombra di
un’anima”. Chi dice che non sia proprio l’anima a dolersi della futura fine del
connubio col suo corpo.
Una
silloge ontologicamente zeppa di riflessioni e azzardi verso un mondo che
toglie, con le sue icasticità, spazio alle ricostruzioni, alle realizzazioni immaginifiche.
D’altronde l’uomo ha bisogno di intraprendere voli che vadano oltre il
contingente; rientra nella sua natura, dato che la sola parola non è
sufficiente a costruire quei castelli che immaginiamo, e a cui aspiriamo. Lo
stesso Montale, come riporta la scrittrice, dice al lettore di non chiedere la parola dacché il poeta può
solo dire e descrivere quello che vede
attorno; e quello che non sappiamo è l’unica certezza che ci ripaga. Allegoria, il titolo della plaquette,
che, ripartita in cinque sezioni (Allegoria,
Primavera, Le ere e le età, Alta velocità, Nell’Ade) si offre ad un
linguaggio afferente alle richieste delle diverse occasioni: ora di ampiezza
quasi prosastica, ora di una versificazione in aumentazione o in diminuzione,
ora di uno spartito secco e asciutto in cui la sola parola è sufficiente al verso,
ora (soprattutto in Alta velocità) di composizioni brevi e apodittiche, i cui
ritmi sono intervallati da interrogativi
che fanno da fil rouge nell’epigrammatico corso dell’opera. Credo che non sia superfluo riportare una pericope
tratta dallo scritto di quarta: “L’allegria, si sa, è quella figura retorica
per cui in letteratura qualcosa di astratto viene espresso attraverso
un‘immagine concreta per mezzo della quale chi scrive esprime e chi legge ravvisa
un significato riposto, diverso da
quello letterale, un senso allusivo, ulteriore rispetto a quello che è il
contenuto logico delle parole. Ecco la chiave per penetrare fino in fondo nel
mondo e nelle intenzioni di questa nuova raccolta intitolata appunto
Allegoria…”. Allegoria per allegoria, intraprendiamo un viaggio, e invece di
soffermarci alla semplice metafora, prolunghiamone il percorso, come ci insegna
Dante con la sua Commedia: un nostos in cui la navigazione è lunga e periglioso.
La barca è forte, robusta, esperta di onde, e gli strumenti della navigazione
sono pertinenti. Quello che conta è andare, proseguire, e non arrestarsi. Di
sicuro la metafora è molto vicina alla vicissitudine umana, alla miopia che la
contrassegna se consideriamo il tout e le rien di memoria pascaliana
riguardante l’uomo, sebbene questo “manifesti… le sue virtù straordinarie e
addirittura miracolose, offrendo opportunità ed esperienze intense e in ogni
caso decisive”. Resta il fatto che siamo umani e come tali disorientati in
mezzo al mare; e anche se scorgiamo un faro a illuminare una parte dei pelaghi, il resto è in preda ad una
oscurità che intralcia il percorso; che lo rende incerto e insicuro; e anche se
in possesso di mezzi (vedi quelli prosodici e filosofico-lessicali di Sandra)
non sono di sicuro sufficienti a darci sicurezze risolutive; a invalidare i
dubbi che ci portiamo dietro; quelli di cui soffre l’uomo nel vano tentativo di
squarciare le tenebre per proiettare lo sguardo al di là dei limiti. Siamo
destinati a vivere nella inquietudine del nostro esistere: nessuna certezza,
nessuna sicurezza. Ci si può solo affidare alla parola, congegno morfosintattico debole e fragile come il
nostro vivere, come la nostra storia.
Non ci resta che abbandonare il cuore e
la mente ed iniziare a scrivere di pancia. Senza
allungare il collo al cielo, a quelle impennate meditative che ci
procurerebbero dolore e splenetica soluzione. D’altronde si sa che il verbo è
limitato, in quanto creazione virtuale, umana, mentre quella soglia a cui aspiriamo
è di fattura a noi negata, considerando il circuito in cui siamo vincolati. Non si può fare altro che patire della nostra
imperfezione. Sì, ci potremmo aiutare superando il sintagma; magari con invenzioni stilistiche, dato che la poesia
vuole sempre qualcosa di più; magari ricorrendo a quegli accorgimenti prosodici,
a quegli scarti topici per oltrepassare il confine entro cui è chiuso il
lessema, visto che la parola è dispettosa, compare e fugge. Si acchiappa come
un passero fra i rami, e i poeti impazziscono
per questo: non possederla appieno quando si concede. Un linguismo che si avvale di una semplicità complessa
e polivalente, questo di Sandra. Può
fare di tutto, ogni cosa coi suoi mezzi
espressivi, e il suo poetare avvince e convince, “solo con le mani sporche di
sangue/ si può scrivere”, afferma la Nostra. Niente al caso. Solamente dopo
avere percorso la via crucis, e dopo avere ingoiato l’amaro delle nostre
vicende; dopo avere pensato e ripensato a quanto sia limitato il nostro essere,
si può tentare di partorire dei versi, vere confessioni di patemi: “Discutono/
i poeti letterati/ del più e del meno/ e dell’andare a capo./ Dell’uso di
parole e metrica/ e della novità del linguaggio./ Aboliti sogno e redenzione/
la renovatio sta nel dipingere la vita/ così come è…”. Riflettere, dunque, sul
bene e sul male, sul perché siamo qui invece che là; riflettere sul cotidie
morimur senecano o sul dum loquimur oraziano, significa affondare la lama nella polpa; soffrire ancora di più, magari,
visto che davanti al sempre e al nulla ci accorgiamo della nostra
inadeguatezza. Però significherebbe,
anche, non dare spazio solo alla forma che tanto è ed è stata a cuore dei
letterati, ma tirare in ballo questioni che tanto assillano il fatto di
esistere. Le tante affermazioni che riguardano la poetica in generale e che si
traducono in metapoesia, ci offrono lo spunto di accostarci ancora di più a
questo spartito ricco di proteiforme valenza epistemologica: un gioco di
antitesi forma-significato, che tanto ha
coinvolto la storiografia critica, si fa motivo di riflessione poematica.
Meglio sarebbe navigare su una barca in equilibrio fra scafo e peso imbarcato. “E
la parola resta muta,/ priva di vita, un suono./ Res composita solvantur./ Non
sia così/ storia, tempo, luogo, noi, tu; /non lo Io; gli italiani scrivono/ lo
stesso minestrone da un secolo./ Petrarchismo o dantismo?/ lirismo e
realismo/ - si escludono?/ … La storia è
in noi, noi siamo storia…” (Satira).
Una critica a tutto tondo a coloro che colgono sui prati i fiorellini, una vera
rivoluzione tecnico-semantica, in gran parte mancata, come da sopra accennato.
Ho letto, comunque, tanta roba di autori diretti a rivoluzioni di positura
prosastica o altro. La poesia, secondo me, deve contenere una vicenda innescata
su una storia consolidata, dato che i sentimenti sono sempre gli stessi, e le
inquietudini esistenziali non sono mai cambiate da Saffo a Montale. Tocca,
semmai, alla parola piegarsi, contorcersi, allungarsi o placarsi per tenere
dietro agli input intellettivo-emotivi. La poesia deve essere di tutti. Un
dolore, un pensiero, una storia, una vita; nolenti o volenti ha sempre bisogno
di vicissitudine, basta non sia pianto decadente e mellifluo; occorre dignità,
quel senso umano che dell’umano tiene il cuore e che dell’umano si porti i
fremiti di ognuno, per approdare al tutto.
Comunque attendere che torni la vena non è male: “Tu piangi troppo/
(Scusate non volevo)/ Tu vorresti spiegare la tua poesia/ Ma la poesia non ha bisogno di essere spiegata/ (mi
sto sfogando sperando/ Che la vena torni).
Nazario
Pardini
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