Arcorass/Rincuorarsi.
Puntoacapo
edizioni, Pastorana (Al), 2020.
Esemplare di un percorso finissimo tra
servizio e interrogazione del mondo nelle sue ferite e nelle sue istanze e
intimità personali quest'ultimo lavoro di Maria Lenti che segue di un solo anno
"Elena Ecuba e le altre", altro titolo penetrante nella sua reinterpretazione
di miti femminili. Esemplare dicevamo perché nel vertice di una contemporaneità
dispersa a se stessa, non più riconoscibile nemmeno nelle figure del proprio
colpirsi o del proprio arrestarsi, la voce nel grado di una maturazione che sa
procedere anche per sussulti finisce col restituirsi, e col restituirci, nella
spinta di una lingua che viene da più lingue. Come se nella sua motivazione più
o meno conscia la scrittura dovesse rispondere, nel paradigma del rigurgito e
delle sfinite richieste di un tempo d'assedio, alla necessità di una liberata e
nuova postura. Così ciò che travalica sembra cercare un nuovo assetto nella
risonanza di un corpo dato nel testo nell'incontro sapiente tra dialetto
urbinate (quello del centro, soggetto a mutazione nel suo carattere di città di
studi e ad italianizzazione dunque) e
lingua nella misura di un appassionato rinsaldare e rimemorata natura. Misura allora che è quella
del rincuorarsi soprattutto, come da titolo, in un ascolto oltre che con se
stessa di pari passo colla capacità di relazione col mondo, sempre così
cruciale, sempre così fondante come sappiamo nella Lenti. È allora un dettato
insieme privato e a specchio a risalire da una storia evidentemente non solo
personale cui la parola si serve nell'infinito del suo ripensarsi, del suo
rincuorarsi, Arcorass appunto, nella varietà delle sue sottolineature. Che è
poi anche il titolo della sezione con cui il libro si apre, come a mostrare
subito nella spoliazione dei plurali in sovrannumero la riemersione effettiva
ed essenziale del noi, e di noi in quell'elencato ritrovare di sensi e gesti,
di donne ed uomini nel venire a sé di
una vita non più bandita ma carezzata nel gusto di offerte e presenze certe
nella riemersa leggerezza di quel sentimento di prima che la rimanda all'amato
Leopardi ("el còr d'una volta") dopo inciampi abbandoni agguati della
morte. Nella bassa e ferma e reciproca quotidiana offerta, sana, con le cose e
con gli altri la direzione che viene dal coraggio ("solevass sa
leggeressa/ da un dolore/ da una spinta in basso/da una caduta fuori
rimedio") nel soccorso esporsi di
una lingua madre prima sussurrata poi quasi ad imporsi nel legame di un cuore
con la mente che "en sbaja mai". Rincuorarsi allora che vuol dire anche
ripartire nell'affondo entro piccole soste di uno spazio rimestato e
riaffermato nell'auscultazione nitida come da apertura da nebbia di antichi e ancora
vivissimi luoghi, quelli della mente e del corpo così vezzeggiato,
accompagnato, richiesto nell'onda di piena degli anni, degli oggetti e delle
strade, di dinamiche di prossimità e di lontananza racchiusi in tanti ritagli
di terra nella familiarità di una parola giammai retorica nel suo essere e
farsi nutrice tra oralità e gergalità, tra domesticità ed umiltà (come esaustivamente sottolineato da Manuel Cohen
nella postfazione) e pure insieme così sorvegliata, curata diremmo nell'eco
rispondente della lingua, nel bel verso italiano della cui classicità il dire
della Lenti (saggista, insegnante) è così ben improntato suggerendo così nel
dettato un modo nuovo di riportare il mondo dalle ceneri di un debordante,
storico e sociale inficiare. Giacché, forse solo da questo intreccio è
possibile restringere e poi espandere il mondo, da quell'origine cui solo il
primo dire forse può ancora decriptarne l'annuncio nella saldezza dei
riferimenti (incapacità politiche, diseguaglianze sociali, migrazioni e sfruttamenti
di terre e di popoli insieme a desolazioni e povertà personali e d'amore)
depurati nei detriti da una saldezza in lingua riportata invece anche nel
dialogo coi suoi maestri (il citato Leopardi, Foscolo, Ungaretti, Montale,
Ortese, la Morante per dirne alcuni). Più forte infatti di un stanchezza che a
tratti chiede strada lo sguardo di Maria nell'educazione alla raccolta di un
eco che non cessa di bussare dagli infiniti angoli delle nostre miserie ma
anche dei nostri incanti, delle nostre piccole gioie e dunque sciolta dapprima
nella condivisione appassionata di un discorso non alto non basso ma nel daimon
autentico di un accordo linguistico che nella condizione del suo esporsi, della
sua infinita retina sembra non mollare la presa. Ne è simbolo, nella saggezza
di una vita che non si sceglie ma si vive, l'affondare del passo nella sua
Urbino oltre la Piantata il quartiere dove abita, nella panoramica del cuore dentro
la città amata, così inaccostabile e irraggiungibile spesso "nella sa
ferma bellezza" ma anche così vicina, così diversa come l'elenco
lunghissimo delle erbe della spesa e le varietà di studenti che la
attraversano. Così se la poesia deve poggiare su ricordi da dimenticare,
illimpiditi però dalla memoria, ciò che ogni giorno va chiesto nella domanda
del sapere, del suo desiderio (in tanto vociare comunque non più tra tante
presenze care o nell'aria impoverita anche di strade inabitate, di case vuote)
è il pane quotidiano di una consapevolezza delle scelte nella pienezza
dell'amore, della carnalità delle sue forme, della sua forma "che se
slarga in una voce/di più diversa luce/erba de camp frutta de stagion/intla tu
boca" ("Ogni giorno domando"). Questa lezione che risale dal
connubio originale delle sue lingue (tra l'altro a parte qualche testo sparso mai
la Lenti in precedenza si era offerta in dialetto in tanta organicità di
struttura) ha per noi il dono di un "vivere come sostanza/fuor d'ogni
stanza" facendosi mollichine di un mistero nella sua fattività d'opera
"a seconda dell'ombra o della luce/del canto o del
controcanto". E allora testo, percorso esemplare anche per questo.
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