DIANE PACITTI |
Arandora Star
On
2 July 1940, the Arandora Star, a ship carrying hundreds of war internees,
mostly Italian, from Liverpool to Canada, was torpedoed and sunk by a German U
Boat..
Prodded forward,
watched by gunned police
he crossed the
gangplank,
putting grey sea
between the country he
had thought was home
and his tired body.
Herded through the
ship, funnelled in a mass
of shuffling prisoners
into the surprise
of an opulent ballroom;
suddenly confronted
by a fine floor of
interlocking woods
which should have gleamed,
touched lightly by the feet
of bow-tied gentlemen,
of ladies floating
on the love-strains of
a waltz;
now scuffed and
scratched with war use,
now his bed.
He slumped down. He
propped himself on a pillar.
A still-reeling mind threw
up its pictures,
a playback in reverse:
from that cell clanging
shut
on prisoner after
prisoner through the night;
back to a blacked-out
street.
Glass crunching underfoot
as they boarded up
his smashed shop
window, closed its gaping hole.
A policeman’s hand
on his shoulder. The
shock
that he was under
arrest, and not the looters.
His wife’s screams
following his dragged-out steps,
penetrating the police
van:
their last contact
was her
struggling-to-breathe sobs.
Best not to go back
further
before the smash of
glass, to a bedroom calmed
by her soft breathing,
permeated by the
presence
of his children
clutching toys, their sleep-companions,
in the next room.
And below him, the
shop.
He had slept brooding
like a hen on his clutch
of edible riches,
sensed it spread beneath him,
stacked and piled and
glinting in jars:
all lost in the swoop
of a night
as if he had never
toiled or dared to love.
When he stared up at
that sumptuous fretted ceiling,
he was floating inside
someone else’s dream.
……………………………
The night came. At last
he could shut his eyes.
The relief of
retreating into the dark of his body,
of hiding there after days
of being wrenched
outside his own life, of
being yanked
from place to place as
a prisoner. The frightening thing
was that now he sometimes
saw himself from outside,
as if through a
policeman’s stare: unwashed, unshaven,
averting his eyes. Of
course they glared
at a grubby alien, squalid
infiltrator
too sly to fight
openly.
The night-hours
were strung on heavy
breathing. Before long,
that ballroom tilting
gently up and down,
warm with body-smells,
thick with the mutterings
and twitchings of his
fellow-prisoners’ sleep
felt like a part of his
own exhausted body.
Someone cried out. A nightmare inches away
brushed past him. Slowly
sleep submerged
his mind and limbs.
‘Canada’
He woke to that word,
whispered like a secret.
He tasted its hard
consonant, its vowels.
It meant so little. All
that he could offer
was jagged rock
mountains, dark firs.
And snow – of that he
was certain.
The flickering
of another image, the
sensations
of a child’s thin body
that became his own
rushing out of a damp-smelling
hut.
And there was the
mountain, thrusting rock
into a puff of cloud. His bare feet
knew its stony paths;
his hands could feel
for the angling of its
grip-holds.
All around him
were peaks which fell
into a scoop of space:
it held the valley with
its struggling crops;
cradled the tiny
buildings. Those steep slopes
dictated every journey:
mountains loved
playing with distance,
spiralling a dirt-road
into drunken bends, balking
the timescale
of straight-thinking
humans.
So
different
from the muzzy air of
Manchester, its grid
of flat streets and
factories.
Perhaps this
new country
might offer him not
just a forced displacement
but a kind of return.
……………………………
surged
into the ship. He climbed and climbed.
He
gained the deck, steadied against a rail;
stared
at the seething mess below: frail boats
close-crammed
with heads, one craft careering empty;
bobbing
bodies, bits of wood, men floating
attached
to debris, glutinous seep of oil.
A
rescue boat? He ran around the ship,
buffeted by others
rushing blindly;
he struggled, pleaded, in
the end refused
to fight his way to the
front of a hopeless queue.
An official was
bawling, ‘No more life-belts,’
As if it was their
fault. He could not swim.
No rescue boat. The
morning froze around him.
The cries receded.
Nothing existed
but himself and that grey
water.
A plunging leap; the cold sea did its best
to squeeze out his life, to cram itself
into his nose, throat,
body. When he surfaced,
grey mountains slithered
all around him, stretched
to the horizon. He
seemed to be swimming.
He fought upwards, struggled
to a crest;
gasped that victory,
even as he was dashed
down in an avalanche of
waves and wood.
Arandora Star
Nel
luglio del 1940, l’ Arandora Star, una nave che partendo da Liverpool trasportava
in Canada centinaia di internati di guerra, per la maggior parte italiani, fu
silurata e affondata da un sottomarino U-Boat tedesco.
Spintonato a marciare avanti,
sorvegliato da poliziotti armati
attraversò
la passerella,
frapponendo il grigio
mare
fra il paese che si era
illuso fosse la sua casa
e il suo corpo stanco.
Con gli altri come un
gregge attraverso la nave,
incanalato in una massa
di prigionieri che strascicavano il passo
per arrivare alla
sorpresa
di una sfarzosa sala da
ballo;
di colpo, trovarsi di
fronte
a un elegante pavimento
in legno intarsiato
che avrebbe dovuto
risplendere sfiorato appena dai piedi
di signori in abito da
sera, di dame volteggianti
sulla scia delle romantiche
melodie di un waltzer;
graffiato e usurato
dall’uso destinatogli in guerra,
era ora il suo letto.
Vi si accasciò. Si sostenne
con un cuscino.
Nella sua mente, dalla
vertigine recente affioravano immagini,
riviveva il passato
alla rovescia:
dal tonfo della porta della
cella serrata a chiave
in faccia a prigioniero
dopo prigioniero durante la notte;
poi indietro fino a una
strada buia.
Frammenti di vetro
scricchiolavano sotto i piedi mentre loro coprivano
con un’asse di legno
la vetrina sfasciata
del suo negozio, chiudendo quella voragine aperta.
La mano di un
poliziotto
sulla spalla. Lo sconvolgimento
di essere arrestato,
lui, non i razziatori.
Le grida di sua moglie
che inseguivano il suo cammino forzato
raggiungendolo fin
dentro il furgone della polizia:
I singhiozzi di lei, il
suo respiro troncato
il loro ultimo contatto.
Meglio non riandare
troppo indietro
prima del vetro in
frantumi, indietro fino a una stanza da letto, porto sicuro
del suo tranquillo
respiro
permeata dalla presenza
dei figli abbracciati ai
giocattoli, gli amichetti del sonno,
nella stanza accanto.
Sotto, c’era il suo
negozio.
Passava le notti vigilando
come una chioccia per tener stretto
il suo tesoro di prelibatezze,
sentendolo come cosa viva
in bella mostra sotto
di lui,
in piramidi ordinate, in
pile precise, scintillante nei vasetti;
Tutto perduto, di
colpo, nel corso di una notte
come se non si fosse
mai spaccato la schiena a lavorare
o non avesse mai osato
amare.
Quando alzava lo
sguardo a quel soffitto sontuoso ornato di greche,
fluttuava in realtà dentro il sogno
di qualcun altro.
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Venne la notte. Poté
finalmente chiudere gli occhi.
Fu il sollievo di rifugiarsi
nell’oscurità del proprio corpo,
di nascondervisi dopo tanti giorni di sradicamento
dalla propria vita, dal venire
scaraventato
da un posto all’altro, prigioniero. La
cosa spaventosa
era che adesso vedeva qualche volta se
stesso dall’esterno,
attraverso lo sguardo duro di un
poliziotto: mal lavato, con la barba lunga,
gli occhi sfuggenti. Si capisce, loro riservavano
occhiate di disprezzo
per lo straniero sudicio, lo squallido
infiltrato
troppo subdolo per combattere
apertamente.
Le
ore notturne
erano appese a respiri pesanti. Ben
presto,
quella sala da ballo che oscillava
dolcemente su e giù,
riscaldata dall’odore dei corpi,
ispessita dai mormorii
e i fremiti che agitavano il sonno dei
suoi compagni di prigionia
divenne tutt’uno col suo corpo esausto.
Qualcuno lasciò sfuggire un grido. Lo
sfiorò quell’ incubo,
a pochi centimetri di distanza.
Lentamente, il sonno sommerse
la sua mente e le sue membra.
‘Canada’
Si svegliò
con quella parola, sussurrata come un segreto.
Ne assaporò
le aspre consonanti, le vocali.
Ne sapeva così
poco. Tutto quello che poteva offrire
erano montagne e rocce
frastagliate, scuri abeti.
E neve – di questo era
certo
Il balenare
di un’altra immagine,
la sensazione
di un esile corpo di
bimbo che diventò il suo
usciva di corsa da una
capanna che odorava di umido
C’era la montagna, roccia
che svettava
fra fiocchi di nuvole.
I suoi piedi scalzi
conoscevano i sentieri
petrosi; le sue mani sapevano cercare
dove aggrapparsi nei
punti di appoggio.
Era circondato
da vette racchiuse in
un orizzonte di spazio:
abbracciava la vallata
con i faticosi raccolti;
cullava le piccole case.
Quelle ripide discese
condizionavano tutti i
percorsi: le montagne amavano
giocare con le
distanze, attorcigliare un sentiero sterrato
in curve impossibili,
sfidando la concezione del tempo
propria del lineare
pensiero umano.
Così diverso
Dall’aria viziata di
Manchester, dai suoi rettangoli prevedibili
di strade piatte e
fabbriche.
Forse questa nuova patria
poteva non offrirgli
soltanto la costrizione dell’esilio
poteva aprirgli la
sensazione del ritorno.
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Una scossa tremenda,
lacerante. Le grigie onde dell’Atlantico
invasero la nave. Lui si
arrampicò, su su più in alto che poté.
Arrivò sul ponte, sorreggendosi a una
ringhiera;
con occhi sbarrati vide il marasma ribollente
giù sotto:
fragili scialuppe stipate di gente,
una imbarcazione precipitare vuota;
corpi sbattuti su e giù dalle onde,
pezzi di legno, uomini che galleggiavano
attaccati a rottami, chiazze
appiccicose di olio.
Una imbarcazione di salvataggio? Corse
dappertutto per la nave,
urtato e spinto da altri nella loro
cieca corsa;
lottava, implorava, e alla fine si
lasciò andare
senza più zuffe per aprirsi una via
attraverso quella muraglia
di gente senza speranza.
Un ufficiale sbraitava, “Le cinture di
salvataggio son finite,”
come fosse colpa di quei disgraziati.
Non sapeva nuotare.
Non c’era nessuna nave a salvarli. Il
mattino gelò intorno a lui.
Le grida si spensero. Non esisteva più
niente
solo lui e quelle acque grigie.
Un tuffo, uno sprofondare giù: il gelido
oceano fece del suo meglio
per spremer via la vita che gli
restava, per ficcarglisi
nel naso, nella gola, invadere il suo
corpo. Quando riemerse,
montagne grigie vorticavano intorno a
lui, arrivavano
fino all’orizzonte. Sembrava che
nuotasse.
Lottò per tornare in superficie, si
affannò su una cresta d’onda;
ansimando per quella vittoria, perfino
mentre veniva
inghiottito da una valanga di ondate e
rottami di legno.
Figurinai
I
Figurinai erano artigiani che producevano statuette di gesso. Essi portarono la
loro tradizione artigianale in tutti i paesi dove erano immigrati.
Figurinai were Italian makers of plaster statuettes, who practised their craft in the countries to which they emigrated.
Grey heaving seas, then
Montreal reared high
To swallow them in a
slum. Penniless, his brother
Was bussed out with
other immigrants
To blast the
wilderness. But he began
To pour plaster. Soon a
chalk-white row
Of tiny figures stared
with blank eyes
At the blackened
ceiling. All at once he was back
To his Tuscan
childhood, wide-eyed as his father
Conjured a pastel saint
with a few deft strokes,
Or chose his boldest
red for a Garibaldi
Conceived as a secret
gift. His own palette
Was glum; his fingers
froze, but he took a brush:
A sober suit appeared.
He stippled brown
To conjure an ear-hugging
beaver hat.
His wife struggled in
with water as he chose
His finest brush,
dipped it in gold to draw
Queen Victoria’s crown,
then used that gilt
To halo San Pietro. Some
he sold.
The secular ones were
coffined in a box,
But chance visitors
felt they had stepped
Into a shrine. That
small room was peopled
With saints, and by the
dead or distant family
Who stared out from
frames. One night, a knock.
Closed face,
expressionless voice. His brother killed
In an explosion. All
that night he raged
Like a trapped fish
threshing inside a net.
Was this their new
life? Morning attacked
With cold that almost
gagged his cry of grief.
He grabbed his brother’s
overcoat, walked out
Past the privy pit,
along an alley
Squeezed by rickety
houses, past the church
Where his own Madonna blessed
the world with eyes
Turned inward in
prayer. Soon he skirted
A building site, where from high scaffolding
Italian oaths were
yelled. He found himself
Beside the huge river.
‘San Lorenzo’,
He thought defiantly. But
as he stood,
A stranger to himself
in the huge coarse coat,
An Italian with sad
eyes and too-large clothes,
The restless waters
seemed to wash away
His whole past, only to
leave him stranded
Without a future. Back at home his son,
Holding a magazine
cover, pulled out
His father’s sunhat
brought from Italy
And tried to punch it
into the hat-shape worn
By mounted police in
the faraway North-West.
He tries it on. The mirror
says that stetson
Looks good on him. He
longs to grow up.
Grigi oceani tempestosi,
poi Montreal sorse all’orizzonte
per ingoiarli nei
bassifondi. Oppresso di povertà, suo fratello
fu trasportato con
altri immigrati
a domare la natura
incontaminata. Ma lui cominciò
a mescolare la malta.
In poco tempo, una fila di statuette color bianco-gesso
parve fissare il
soffitto annerito
con occhiaie vuote.
Di colpo, ritornò
ai giorni della
sua infanzia in Toscana.
Con occhi spalancati
osservava suo padre mentre
dava vita a un Santo
con pochi abili tocchi di pastello,
o sceglieva il rosso più
acceso per un Garibaldi
creato per essere un
dono segreto. La sua tavolozza
era fatta di cupi
colori. Le dita irrigidite dal freddo, ma
prese il pennello:
tracciò
un abito spoglio. Punteggiò di marrone
per simulare un
berretto di castoro calcato sulle orecchie.
Sua moglie si affaticò
a portare acqua mentre lui sceglieva
il suo pennello più
sottile, intinto nell’oro, per disegnare
la corona della Regina
Vittoria, e poi usare la doratura
per l’aureola di San
Pietro. Ne vendette qualcuna.
Le statuette non
religiose erano seppellite in una scatola,
ma i visitatori
occasionali pensavano di essere entrati
in un santuario. La
stanzetta era popolata
di santi e di
famigliari morti o lontani i cui occhi
li fissavano dalle
cornici. Una notte, bussano alla porta.
Volti chiusi, voci
senza espressione. Suo fratello, ucciso
da una esplosione. Per
tutta la notte
in un accesso di furore
si dibatté
come un pesce preso
prigioniero nella rete.
Era questa la loro
nuova vita? Il mattino giunse
con una mano di gelo
che quasi soffocò il suo pianto di dolore.
Afferrò
il cappotto del fratello, uscì fuori
oltre la latrina
all’aperto, lungo un vicolo
ritagliato fra casucce
cadenti, oltre la chiesa
dove la Madonna che lui
aveva scolpito benediceva il mondo
con le palpebre abbassate
in preghiera. Arrivò nei pressi di un cantiere.
Dalle impalcature
grandinavano imprecazioni in italiano.
Camminò fino a trovarsi
di fronte al fiume immenso. “San Lorenzo”,
si disse, sprezzante.
Ma mentre era lì, in piedi,
sconosciuto a se stesso
dentro quel cappottone ruvido,
un italiano con occhi
tristi e abiti troppo larghi,
le acque che scorrevano
senza posa parvero
trascinare via il suo
intero passato per poi abbandonarlo sperduto
senza un futuro. A
casa, suo figlio, ammirando la copertina di una rivista,
tirò fuori il cappello
estivo del padre
portato dall’Italia
cercando di piegarlo
con colpetti di pugno per dargli
la forma del cappello
indossato
dalla polizia federale nel lontano Nord-Ovest.
Il bambino se lo prova.
Lo specchio gli dice che lo Stetson
gli sta davvero bene.
Sogna di diventare
adulto in fretta.
Diane Pacitti
Traduzione italiana di
Anna Foschi Ciampolini
03/04/2020
Traduzione di Anna
Foschi Ciampolini
……………………………
Diane
Pacitti lives in London, England. She worked as
a Co-ordinator of community education and became a literature tutor
after gaining an M.Phil. at Nottingham University.
Her
writing explores migration, identity, and power relationships.
In
2004, she combined her poems with the drawings of her husband Antonio Pacitti (1924 – 2009) in the
publication Guantanamo, described by the Nobel Laureate Harold Pinter as
‘deeply impressive and very important.’
Her
poetry has been published in Third Way and In Memoriam, been shortlisted for
the Jane Martin poetry prize at Girton College and was awarded first prize for
Poetry by the Bronte Society in 2014.
Since
Antonio Pacitti’s death in 2009, Diane Pacitti has curated and presented his
artworks within a variety of narratives and situations, working with creative
partners including Glasgow University Memorial Chapel, Cultural Documents
(Cerasuolo, Italy), Bradford Cathedral and others.
Between
Two States is her first novel.
Grazie di aver pubblicato le belle e toccanti poesie di Diane Pacitti, con la mia traduzione dall'inglese in italiano. Un onore apparire su "Quaderni di Leucade". Anna Foschi
RispondiEliminaCongratulazioni a "Quaderni di Leucade" e ai suoi creatori per l'opera di diffusione culturale e per ala pubblicazione delle poesie di Diane Pacitti che ho avuto l'onore di tradurre in italiano.
RispondiElimina