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martedì 1 settembre 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "I NOMI DELLE COSE" DI GIANCARLO BARONI


Giancarlo Baroni. I nomi delle cose. Puntoacapo Editrice. 2020

Divora l’erba di cui si nutrono
con tanta avidità che non ne resta (Avidità).


Giancarlo Baroni si presenta sulla scena poetica con la nuova silloge dal titolo I NOMI DELLE COSE editata con cura per i caratteri di puntoacapo Edirice. Il poeta affonda le radici nell’amore per l’arte, nei raggi luminosi del poema, nei disvalori del tempo, e già viviamo appieno il suo messaggio ontologico dalla poesia eponima che contiene gli abbrivi emotivi che fanno da prodromica apertura al resto dell’opera. Tanti sono gli spunti che ci permettono di avviare la lettura di questa proteiforme plaquette: la struttura formale, i densi contenuti di vita e di amore, il connubio tra verbalismo e empatia, la esperita limpidezza disciplinare, e le aporie del quotidiano… 
Poesia scorrevole, di euritmica sonorità, in cui il verso, con tutto il suo potere concretizzante, affidandosi ad accessori di effetto contrattivo ed estensivo, si distende su uno spartito ampio e articolato. Molteplici le chiavi di lettura di questa versificazione: memonica, esistenziale, naturalistica, psicologica, onirica, ma soprattutto realistica; di un realismo pane a pane, vino al vino. Così come le cose ci parlano, coi loro nomi, e con i guizzi del pensiero dell’autore, teso a confessare i suoi patemi, i suoi stati emotivi, la sua plurale connotazione vitale. L’uomo è condizionato dalla realtà che lo circonda, e bene o male, ne riceve gli stimoli a riflettere, a pensare alla sua condizione umana: perché esistiamo, cosa ci riserverà il futuro, i misteri del  quando e del dove. Tutti interrogativi che non trovano risposte adeguate; e di questo il poeta si inquieta, si tormenta, come ogni altro mortale, che si sente a disagio di fronte al tutto o al niente. Fin dai tempi più remoti l’uomo ha fatto a cazzotti con il tempo, sentendosi da esso sconfitto senza  tregua. E così (vedi gli Egizi e prima ancora altre civiltà) hanno accompagnato il defunto con generi alimentari o comodità varie pensando di continuare la vita spirituale oltre tomba. Insomma l’uomo ha sempre sofferto della sua finitezza.  Sentirsi dei pulviscoli spersi nell’infinito non è di sicuro cosa rara, dato che dall’origine  l’essere umano si è confrontato col tempo e la natura. E’ notando il ciclo delle stagioni, la bellezza della primavera e la caducità dell’autunno, che ha considerato la sua scomoda posizione in questo perenne flusso; la sua effimera statura di fronte al tutto che lo circonda; i suoi limiti epistemologici. Un vero viaggio questo di Baroni, un nostos tra bufere e giorni di sole. Come è la vita. E qui poesia e vita si alimentano a vicenda dando concretezza e visività, paradigmatica consistenza al verbo, agli impatti sintagmatici che proprio dalla vita traggono respiro. Ed è così che la natura, attorno vigoreggiante, si fa interprete delle emozioni del poeta.
Si viaggia, anche a vista, senza una meta precisa, col rischio di sbattere in trabucchi in agguato; l’importanza è andare, navigare con la speranza di vedere all’orizzonte il profilo di un’isola che tiene il quid del fatto di esistere. Tutti i quesiti che ci vogliono presenti, tutti i giochi che alimentano le ombre della nostra strada. Ombre e luci. Le contrapposizioni che formano, col loro ossimorico apporto, i vari stadi dell’esistere. D’altronde la vita è fatta di ombre e di luci, di luci e di chiarori, di chiarori e di lampi, di lampi e di nubi. Dal succo di tali contrapposizioni l’essenza dell’esser-ci. Il nome delle cose. Scomodando Eraclito: «È la stessa cosa in noi il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; poiché queste cose mutandosi sono quelle, e quelle a loro volta mutandosi sono queste». E tutto scorre nella dialettica dei contrari, tutto si fa e si disfa, tutto genera e forma la via su cui camminiamo. Cosa resta alla fine? Il ricordo. Un memoriale che equivale a rivivere con sottigliezza i giorni in cui godemmo o quelli in cui patimmo. Il fatto sta che c’è sempre nella nostra sacca un fatto nebuloso ormai sfumato di quello che fummo. Restare aggrappati a tale memoria significa ricostruire, e perché no, allungare, anche,   il tempo che ci fu dato per vivere.  Invenzioni creative, costruzioni personali, stilemi che vanno contro il pensiero comune ci attraggono per la loro novità; ci incuriosiscono dacché viene da sé porci la domanda del fine a cui aspira l’autore; dato che spesso il suo stile resta impigliato nel nome delle cose senza dare un netto logos del suo andazzo complessivo, a meno che non si cerchi il risvolto ecologico, come in Avorio a pag. 12; o il surreale appiglio di chi se ne beve il caffè  “come se  davanti avesse/ non il viale con mille auto/ma un golfo pieno di vele” alla pag. 59. Di certo uno stile che ci sorprende, che ci frastorna, con i suoi risultati improvvisi, che  mai ti aspetteresti. A meno che tu non voglia scoprire  il senso della caducità dei petali delle rose negli interrogativi sulla durata delle pareti che li contengono. Qui omnia sunt, tutto è possibile se si parte dai presupposti del titolo: I NOMI DELLE COSE. Di certo una poetica lontana dagli sperimentalismi di positura prosastica, dacché il verso sa quando deve andare a capo e contiene in sé il pensiero dell’autore, che, presente e attivo, dà substantia al tutto. Un proseguire snello e apodittico dove le composizioni, di pochi e brevi versi, si distendono nette e asciutte. Anche le figure retoriche accompagnano in maniera ridotta, meno che l’antitesi, la metafora e il simbolismo, la sintassi poetica. Una poesia che ci appare più vicina alla tradizione italiana che alle novità sperimentali, differenziandosi, comunque, per costruzione formale e invenzioni creative, che la rendono unica e personale:
Si affaccia alla finestra
sorseggia un caffé beata
come se davanti avesse

non il viale con mille auto
ma un golfo pieno di vele (Un golfo pieno di vele).

Nazario Pardini 


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