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lunedì 11 gennaio 2021

FLORIANO ROMBOLI LEGGE: "NAIF E ALTRO" DI ENZO CONCARDI

Gioia del sogno e amarezza del vivere nella poesia di Enzo Concardi

 

Floriano Romboli (a sinistra),
collaboratore di Lèucade

E’ aspetto saliente della ricerca poetica di Enzo Concardi un’attenzione sistematica accordata alle “cose”, siano i tanti oggetti della quotidianità umana o i molteplici elementi dell’universo naturale.

Condivido con Nazario Pardini, autore di un’ampia prefazione al volume Naif pubblicato dall’editore milanese Guido Miano, l’idea che “ le cose si fanno nei suoi versi esseri viventi, animati, che respirano e parlano del male e del bene; di tutte le contraddizioni del vivere”; e l’adesione etico-sentimentale alle “cose” implica a volte il ricorso da parte dello scrittore allo stile nominale e quindi all’evocazione diretta delle medesime:   “Battiti d’ali di farfalle vellutate./ Fili invisibili di ragnatele imperlate./ Mormorio di acque saltellanti in boschi bruniti./ Gocce di rugiada su foglie seghettate./ Triangoli di sole silenti tra licheni./ Spicchi d’azzurro dopo temporali crepuscolari” (Come Debussy, vv.1-6);    “Divani dei sogni tepore del fuoco./ Pendola a muro rauca voce delle ore./ Cravatte di seta sedute abbandonate./ Scansie di libri sotto finestre d’oriente./ Sveglia carillon ballerina gitana” (Risvegli, vv.1-5).

In particolare egli ama indugiare sull’intersezione vivificante fra il dato oggettuale e l’apporto intellettuale e morale dell’uomo, sulla compenetrazione così carica di vibrazioni soggettive, di risonanze emotive, di peculiari valenze memoriali, e perciò aperta baudelairianamente a stimolanti significazioni simboliche: “Fascino antico d’un armadio scricchiolante/ mi attrae in certe giornate tumultuose/ zeppe di ricordi e suggestioni laceranti./ Quella teca scurita della memoria/ conserva abiti dismessi e rattoppati/ che sonnecchiano pigri da lungo tempo/ accanto a cravatte di seta dimenticate./ Sono stati con me negli anni ruggenti/ e nelle stagioni delle ortiche pungenti,/ silenti comparse annoiate in riti del nulla (…) Il mio cuore sobbalza e rivive suoni di campane./ Pesanti giacche vellutate ed austeri pantaloni scuri/ mi parlano con affetto di ciò che sono stato/ e con orgoglio ascolto avvincenti racconti/ pur rinchiusi nei ripostigli della mente/ Accosto dolcemente un’anta scricchiolante:/ penso al molto camminato ed imparato/ dopo aver rivisitato memoria e volti/ tra odore acre dei sacchetti di naftalina” (Ripostigli, vv.1-10 e 17-25).

Tale disposizione mentale costituisce  la fonte di quel lirismo del ricordo (“Un cortile e palazzi a ringhiera:/ vecchia Milano dove studente/ stavo sui libri per qualche ora./ Dopo anni d’assenza e taciti rimpianti/ d’improvviso è tornata tra altre mura/ la voce d’un pendolo a scandire il tempo”( Pendolo a muro, vv.4-9), che è altresì condizione di quella naïveté culturale a cui il poeta affida con convinzione la custodia di un mondo di valori autentici e irrinunciabili:   “E s’affollano alla memoria lontani giorni/ in aule scolastiche grigie e severe/ luoghi del passato ch’erano un mondo,/ il nostro piccolo cosmo naïf ”(ivi, vv.10-13, corsivi miei);   e ancora: “Sogna di rivedere espressivi volti/ figure incedere con passi solenni/ nell’eleganza di pantaloni vellutati/ cappelli di feltro, giacche di fustagno./ Sogna di risentire accesi racconti/ leggendari per rivisitare forti emozioni/ brividi che creano momenti di sogno ”(Angoli crepuscolari, vv.9-16, corsivi miei).

Gli è che la “poetica delle cose” in Concardi coesiste con una visione della realtà caratterizzata da forti contrasti, con una posizione sensibile alle polarità antitetiche, all’aspra tensione che anima e travaglia l’esistenza degli uomini, sovente bilicata fra speranza e delusione, libertà e costrizione, bellezza e squallore, gioia e dolore, sogno di purezza e integrità ed esperienza dolorosa di situazioni di avvilente frantumazione (“Biechi frantumi di giorni si affastellano/ su abbattuti tronchi secolari silenti/ nelle disperate sere della dimenticanza” (Foglie ingiallite, vv.23-25, corsivi miei), aspirazione all’eternità e all’infinito e amaro senso dei limiti spazio-temporali cartesianamente misurati :  “Forse chi se ne va vagabondo/ in remote terre e l’anima in mano/ erra da sé (…) per prendere a calci il diavoletto di Cartesio che sempre lo tormenta” (Stagioni malandrine, vv.1-3 e 5-6).

Il poeta, che svolge il suo discorso lirico in prima persona e non esita a ridimensionare il rigore razionalistico di Kant (“Durante quei viaggi profondi nell’io/ una volta vidi il metodico Kant/ proferire parole d’amore mai scritte” (Segreti d’anima, vv.21-23), predilige la prospettiva filosofica e antropologica di Blaise Pascal, del quale apprezza la definizione dell’uomo quale “roseau pensant” (“canna che pensa”: “Io sosto come canna pensante/ tra scapigliati giostrai facce da zingaro”(Tempo zingaro, vv.9-10, cors. mio, come dopo);  “Non viviamo da canne pensanti,/ poiché abbiamo coscienze bucate”( Ombre bucate, vv.22-23).

Quest’ultimo, che unisce alla fragilità fisica della canna la forza e la dignità superiori del pensiero, è condannato alla solitudine dalla società contemporanea contrassegnata dallo sviluppo dei grandi agglomerati urbani, omologanti e spersonalizzanti, luoghi negativamente consacrati all’indifferenza e all’aridità spirituali.

Cito dal componimento appena sopra menzionato, ove l’autore abbozza uno scenario descrittivo che pare rinviare a un classico della sociologia americana, La folla solitaria (1950) di David Riesman (1909-2002):

“Più siamo calca amorfa e indistinta/ e meno viviamo prossimità e vicinanze./ Solitudini in nevrotiche dimore cittadine/ non sono leggende metropolitane:/ bruciano senza pietà su corpi sgangherati/ gridano forte sul collo dei tanti./ Tram ormai deserti sferragliano/ per le ultime corse della sera./ Nei templi della mondanità si stordiscono/ a frotte, vanamente, per non capirsi”( vv.8-17, cors. mio).

La vita appartata e solitaria può però rappresentare – per inevitabile correlazione antitetica – una risorsa, poiché è in grado di favorire la concentrazione meditativa (“Me ne stavo volentieri con me stesso,/ intento a capire chi ero nel mistero infinito./ Mi facevo gomitolo di lana arrotolata, tacito/ in cesti di solitudine contemplativa ” (Corte dei sogni, vv.14-17, cors. mio), l’elaborazione artistica, l’incontro con Dio.

D’altronde per Concardi è indubbio che la poesia – da sempre fornita di un “terzo occhio” (“Il terzo occhio è quella vera luce/ che ti fa vedere profondità/ che altri non vedono./ Ha in sé raffinate sensibilità/ per mostrarti abissi della psiche/ vertiginose vette dell’infinito” (Il terzo occhio, vv.1-6) -,  e la fede religiosa assicurano al cammino umano preziosi ammaestramenti morali e una mèta ideale sicura: “Gemme e cammei brillano tenacemente/ nelle nostre vite se un’arte pura/ crea meraviglie dopo odi e guerre” (Gemme e cammei, vv. 13-15) ;    “Volti veri e sinceri da ricordare/ volti inquietanti da dimenticare./ Volti finti come maschere seducenti (…) Senza dubbio, tuttavia, più volte/ ho incontrato fortemente un volto diverso:/ quello del Nazareno, umano e divino” (Volti d’oblio, vv.6-8 e 16-18)


Floriano  Romboli

 

 

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