Gioia del sogno e amarezza del vivere nella poesia di Enzo Concardi
Floriano Romboli (a sinistra),
collaboratore di Lèucade
E’
aspetto saliente della ricerca poetica di Enzo Concardi un’attenzione
sistematica accordata alle “cose”, siano i tanti oggetti della quotidianità
umana o i molteplici elementi dell’universo naturale.
Condivido
con Nazario Pardini, autore di un’ampia prefazione al volume Naif pubblicato dall’editore milanese Guido
Miano, l’idea che “ le cose si fanno nei suoi versi esseri viventi, animati,
che respirano e parlano del male e del bene; di tutte le contraddizioni del
vivere”; e l’adesione etico-sentimentale alle “cose” implica a volte il ricorso
da parte dello scrittore allo stile nominale e quindi all’evocazione diretta
delle medesime: “Battiti d’ali di
farfalle vellutate./ Fili invisibili di ragnatele imperlate./ Mormorio di acque
saltellanti in boschi bruniti./ Gocce di rugiada su foglie seghettate./
Triangoli di sole silenti tra licheni./ Spicchi d’azzurro dopo temporali
crepuscolari” (Come Debussy,
vv.1-6); “Divani dei sogni tepore del fuoco./ Pendola
a muro rauca voce delle ore./ Cravatte di seta sedute abbandonate./ Scansie di
libri sotto finestre d’oriente./ Sveglia carillon ballerina gitana” (Risvegli, vv.1-5).
In
particolare egli ama indugiare sull’intersezione vivificante fra il dato
oggettuale e l’apporto intellettuale e morale dell’uomo, sulla compenetrazione
così carica di vibrazioni soggettive, di risonanze emotive, di peculiari
valenze memoriali, e perciò aperta baudelairianamente a stimolanti
significazioni simboliche: “Fascino antico d’un armadio scricchiolante/ mi
attrae in certe giornate tumultuose/ zeppe di ricordi e suggestioni laceranti./
Quella teca scurita della memoria/ conserva abiti dismessi e rattoppati/ che
sonnecchiano pigri da lungo tempo/ accanto a cravatte di seta dimenticate./
Sono stati con me negli anni ruggenti/ e nelle stagioni delle ortiche
pungenti,/ silenti comparse annoiate in riti del nulla (…) Il mio cuore
sobbalza e rivive suoni di campane./ Pesanti giacche vellutate ed austeri
pantaloni scuri/ mi parlano con affetto di ciò che sono stato/ e con orgoglio
ascolto avvincenti racconti/ pur rinchiusi nei ripostigli della mente/ Accosto
dolcemente un’anta scricchiolante:/ penso al molto camminato ed imparato/ dopo
aver rivisitato memoria e volti/ tra odore acre dei sacchetti di naftalina” (Ripostigli, vv.1-10 e 17-25).
Tale
disposizione mentale costituisce la
fonte di quel lirismo del ricordo
(“Un cortile e palazzi a ringhiera:/ vecchia Milano dove studente/ stavo sui
libri per qualche ora./ Dopo anni d’assenza e taciti rimpianti/ d’improvviso è
tornata tra altre mura/ la voce d’un pendolo a scandire il tempo”( Pendolo a muro, vv.4-9), che è altresì
condizione di quella naïveté culturale a cui il poeta affida con convinzione la custodia di un
mondo di valori autentici e
irrinunciabili: “E s’affollano alla
memoria lontani giorni/ in aule scolastiche grigie e severe/ luoghi del passato
ch’erano un mondo,/ il nostro piccolo
cosmo naïf ”(ivi, vv.10-13, corsivi
miei); e ancora: “Sogna di rivedere
espressivi volti/ figure incedere con passi solenni/ nell’eleganza di pantaloni
vellutati/ cappelli di feltro, giacche di fustagno./ Sogna di risentire accesi
racconti/ leggendari per rivisitare
forti emozioni/ brividi che creano momenti di sogno ”(Angoli crepuscolari,
vv.9-16, corsivi miei).
Gli è che la
“poetica delle cose” in Concardi coesiste con una visione della realtà
caratterizzata da forti contrasti, con una posizione sensibile alle polarità antitetiche, all’aspra tensione che
anima e travaglia l’esistenza degli uomini, sovente bilicata fra speranza e delusione, libertà e costrizione, bellezza e squallore, gioia e dolore, sogno di purezza
e integrità ed esperienza dolorosa di
situazioni di avvilente frantumazione
(“Biechi frantumi di giorni si
affastellano/ su abbattuti tronchi secolari silenti/ nelle disperate sere della dimenticanza” (Foglie ingiallite, vv.23-25, corsivi miei), aspirazione all’eternità e all’infinito e amaro senso dei limiti
spazio-temporali cartesianamente misurati :
“Forse chi se ne va vagabondo/ in remote terre e l’anima in mano/ erra
da sé (…) per prendere a calci il diavoletto di Cartesio che sempre lo tormenta”
(Stagioni malandrine, vv.1-3 e 5-6).
Il poeta, che
svolge il suo discorso lirico in prima persona e non esita a ridimensionare il
rigore razionalistico di Kant (“Durante quei viaggi profondi nell’io/ una volta
vidi il metodico Kant/ proferire parole d’amore mai scritte” (Segreti d’anima, vv.21-23), predilige la
prospettiva filosofica e antropologica di Blaise Pascal, del quale apprezza la
definizione dell’uomo quale “roseau pensant” (“canna che pensa”: “Io sosto come
canna pensante/ tra scapigliati
giostrai facce da zingaro”(Tempo zingaro,
vv.9-10, cors. mio, come dopo); “Non
viviamo da canne pensanti,/ poiché
abbiamo coscienze bucate”( Ombre bucate,
vv.22-23).
Quest’ultimo, che
unisce alla fragilità fisica della canna la forza e la dignità superiori del
pensiero, è condannato alla solitudine
dalla società contemporanea contrassegnata dallo sviluppo dei grandi
agglomerati urbani, omologanti e spersonalizzanti, luoghi negativamente
consacrati all’indifferenza e all’aridità spirituali.
Cito dal
componimento appena sopra menzionato, ove l’autore abbozza uno scenario
descrittivo che pare rinviare a un classico della sociologia americana, La folla solitaria (1950) di David
Riesman (1909-2002):
“Più siamo calca
amorfa e indistinta/ e meno viviamo prossimità e vicinanze./ Solitudini in nevrotiche dimore
cittadine/ non sono leggende metropolitane:/ bruciano senza pietà su corpi
sgangherati/ gridano forte sul collo dei tanti./ Tram ormai deserti
sferragliano/ per le ultime corse della sera./ Nei templi della mondanità si
stordiscono/ a frotte, vanamente, per non capirsi”( vv.8-17, cors. mio).
La vita appartata
e solitaria può però rappresentare – per inevitabile correlazione antitetica – una risorsa, poiché è in
grado di favorire la concentrazione meditativa (“Me ne stavo volentieri con me
stesso,/ intento a capire chi ero nel mistero infinito./ Mi facevo gomitolo di
lana arrotolata, tacito/ in cesti di solitudine
contemplativa ” (Corte dei sogni,
vv.14-17, cors. mio), l’elaborazione artistica, l’incontro con Dio.
D’altronde per Concardi è indubbio che la poesia – da sempre fornita di un “terzo occhio” (“Il terzo occhio è quella vera luce/ che ti fa vedere profondità/ che altri non vedono./ Ha in sé raffinate sensibilità/ per mostrarti abissi della psiche/ vertiginose vette dell’infinito” (Il terzo occhio, vv.1-6) -, e la fede religiosa assicurano al cammino umano preziosi ammaestramenti morali e una mèta ideale sicura: “Gemme e cammei brillano tenacemente/ nelle nostre vite se un’arte pura/ crea meraviglie dopo odi e guerre” (Gemme e cammei, vv. 13-15) ; “Volti veri e sinceri da ricordare/ volti inquietanti da dimenticare./ Volti finti come maschere seducenti (…) Senza dubbio, tuttavia, più volte/ ho incontrato fortemente un volto diverso:/ quello del Nazareno, umano e divino” (Volti d’oblio, vv.6-8 e 16-18)
Floriano Romboli
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