NOTA DI COMMENTO SU “EPILLIO”, DIALOGO DI NAZARIO PARDINI
Luciano Domenighini, collaboratore di Lèucade |
Due figure emblematiche, un filosofo e un gesuita, ossia un
religioso colto e “ragionatore”, dialogano sul tema del suicidio in questo
“Epillio” di Nazario Pardini riprendendo idealmente il leopardiano “Dialogo di
Plotino e Porfirio” delle Operette Morali. Leopardi vi aleggia anche nelle
citazioni del “Bruto Minore” e dell’ “Ultimo canto di Saffo”, ma molte sono le
fonti e le figure letterarie inerenti al tema che il poeta toscano aduna nel
suo breve ma intenso dialogo.
“Ma tanto più serena è l’esistenza, se si vede la fine in
grembo al Creatore”. Con queste illuminanti parole il gesuita Don
Vincenzo introduce la figura del Manzoni, ”colui che predicò nel grande
libro la mano del divino”, l’autore forse più vicino alla sensibilità e
alla cultura di Nazario Pardini.
Partendo dal testo apocrifo del “papiro di Berlino”, tutto
l’immaginario della sua formazione letteraria, un’ideale compagine di letterati
( Lucrezio, Leopardi, Goethe, Foscolo, Manzoni, Virginia Wolf, Shelley,
Tolstoj, Rilke, Pavese…), di filosofi ( Epicuro,Platone, Aristotele, Tommaso e
Agostino,Hume, Beccaria, Kant, gli esistenzialisti…), di uomini di scienza (
Freud, Esquirol,Blondel, gli alienisti,…) e le religioni e le culture d’Occidente
e d’Oriente, sono citate e convocate a testimoniare sulla “vexata quaestio”.
Non si tratta di una congerie disordinata e neppure di una
mera elencazione di nomi: il dialogo, nel suo insieme, risulta piuttosto come una
sorta di caleidoscopio filosofico, dove i bagliori di ogni posizione ideologica
si succedono e si riflettono, venendo a contatto e interagendo fra loro.
Fra le rivisitazioni
letterarie forse manca quella, conturbante e penetrante, del monologo
dell’Amleto scespiriano, così carica com’è di quella indeterminatezza, di
quella vaghezza che è propria della poesia.
Nell’ultima parte Pardini, abbandonando gli ambiti
dell’immaginario iconografico letterario, irrompe a sorpresa nella cronaca
politica della recente storia nazionale, citando per nome alcune delle vittime
suicide della cosiddetta “tangentopoli”, per chiudere con la commemorazione, polemica
e visionaria, del rappresentante emblematico di quel “dies irae” giudiziario,
di quella stagione sanzionatoria e apocalittica che molti ingenui salutarono
come un’alba di giustizia: Bettino Craxi, morto esule in terra africana.
Cosa sia mai dunque il senso del suicidio, la rinuncia
volontaria all’immenso dono della vita?
Idea o atto? Libertà o costrizione? Opportunità o condanna?
Santità di martire o peccato di empio? Coraggio o viltà? Dissennatezza o affermazione
ultima della volontà? Cieca disperazione o dignità suprema? Eroica ribellione
alle persecuzioni della sorte o perdizione miserabile e senza appello?
Ponendo questi dilemmi e argomentando su di essi, i due
dialoganti passano in rassegna i testimoni delle epoche e delle culture della
storia dell’uomo.
Col suo “modus scribendi” sobrio ed epigrafico,
aristotelico, quasi compilativo, squisitamente colloquiale, alieno com’è da
enfasi ed iperboli, in quest’opera straordinaria che si richiama al modello
leopardiano, Pardini dispiega e illumina un panorama culturale grandioso e
stimolante.
Questo dialogo non appare come una dissertazione
trattatistica e comunque, a ben vedere, resta sul terreno dell’aporia e non
vuol dare risposte definitive.
Appare piuttosto, per l’inclito e per l’incolto, come una
chiamata a riflettere. ad approfondire, un invito a prendere coscienza riguardo
a un tema cruciale del pensiero umano .
Un lievito culturale, un’occasione da non perdere.
Luciano Domenighini
1 gennaio 2021
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