Lirismo d’inverno
Lirismo d’inverno,
un bisbigliare di cespi,
quando prossima è
già la celere partenza;
sinistri accenti di
malinconici canti
che, al vespro,
enunciano abbandoni.
Immagini dei miei
sogni sepolti
nella tomba stessa
di un colpo fatale.
Carità veronica di
sconosciute regioni
dove a prezzo
d’etere si lascia la vita.
Guardando l’aurora
andrò via piangendo;
e mentre i miei
anni si andranno piegando,
curverà tralci il
mio solerte percorso.
Nel gelido crisma
di luna agognante,
con marchi d’acciaio
in terra indolente,
- ululando – i cani
scaveranno un addio.
Iniziando da questa
poesia testuale si può entrare fin da subito nel mare magnum della poetica
della Mazzuca. La forma si fa aderente ad un animo in continua ricerca della
verità, del sogno; le parole si fanno ardite, scorrevoli, senza tregua per una
confessione estemporanea e diretta. Si può senza dubbio affermare che la
poetessa è in piena sintonia con il suo animo che chiede una confessione
immediata, senza ripensamenti o dubbi. E la parola, il sintagma, il fonema si
fanno compagni di una emozione che affida loro il compito di reificare gli
impatti emotivi. Ci colpiscono da subito le impennate creative e le invenzioni
verbali della Mazzuca: “bisbigliare di cespi, sinistri accenti di
malinconici canti, enunciano abbandoni, sogni sepolti, colpo fatale, i miei
anni si andranno piegando, luna agognante, terra indolente, i cani scaveranno
un addio.”. Un linguaggio di grande iconicità visiva, dove le parole nelle
loro euritmiche iuncturae ci dànno il senso di uno spartito complesso ed armonioso. Ci colpisce anche il sentimento
di spleen o di malum vitae di cui la Mazzuca è preda.
Oltre i confini del pensiero, il
titolo, che, con grande impatto emotivo è teso a reificare sentimenti e
pensieri sulla vita, il suo travaglio; su tutto ciò che comporta riflessione e
emozione, illusione e delusione che sono i cardini portanti del nostro
esistere. E “La vita è un’attesa
continua e, per riprendere una celebre frase di Victor Hugo, «Rêver, c’est le
bonheur; attendre, c’est la vie», «Sognare è la felicità; aspettare
è la vita» (Le Feuilles d’automne). Sì, tutta la vita è una attesa di un qualcosa che non arriva mai, una
leopardiana verità che lascia l’animo amaro. Aspettiamo sempre ciò che tarda,
che non dà piena soddisfazione, forse perché il tempo dell’attesa è stato
troppo lungo.
Ibi omnia sunt: il sogno, la realtà, le
memorie, i propositi, l’amore, la sconfitta e la rinascita. Proprio tutto della
vita e dei suoi segreti nascondigli. La poetessa compie un viaggio, una
traversata, in mari a volte in bonaccia
altre burrascosi, pieni di scogli e di trabucchi, in cui è facile perdersi o
sfasciare la barca prima di giungere all’isola
agognata, all’isola della quietudine. Navigare il sogno della poetessa, andare, viaggiare,
senza tregua, forse per ovviare alle sottrazioni della quotidianità. Andare
oltre i confini dei nostri orizzonti, oltre le colline, i mari, alla ricerca di
un bene dimenticato, di figure e volti che sono scomparsi lasciandoci dei vuoti
che fanno male. Forse è la memoria che può sopperire a tale sottrazione,
riportando alla luce fatti e storie che tanto ci rappresentano. D’altronde la
vita è un percorso breve e articolato, durante il quale ci lasciamo alla spalle
episodi che parevano indistruttibili. Ora che tornano alla mente ci commuovono e ci lasciano un cuore
gonfio di saudade, di nostalgia, di riflessione, anche, sulla durata di una
esistenza che fugge lasciandoci incapaci di reagire a tanta voracità: “… E se almeno sapessi
che potrà tornare;/ se sapessi in quale domani verrà a riportarmi/ le vesti
pulite, quella mia lavandaia dell’anima!/ In quale domani varcherà la porta
appagata/e felice di dimostrarmi che può/- e come non potrebbe! –/sbiancare
e spianare tutti i miei caos.” (In quale domani?). Sì, tornano a memoria episodi che
pungono e ci fanno soffrire per non avere fatto o detto a suo tempo frasi che
avrebbero alleggerito il cuore: Settembre In quella notte di settembre/
fosti così buono per me…fino a dolermi!/Io
ignoro il resto; a quel fine non dovevi essere paziente, non dovevi./Quella
notte gemesti nel vedermi chiusa,/ forte e addolorata./ Io ignoro il resto; a
quel fine non so perché/ fui infelice…tanto
infelice!/ In quella soave notte di settembre/
guardandoti compresi tutta l’essenza di Dio/ …e ti fui amabile!/E fu ancora una
notte di settembre/ che da una vettura…”. Ma c’è sempre l’amore, gli affetti, il calore, la vicinanza che
frenano il nostro ardire, riportando pace e serenità, come scrive Van Gogh al fratello Theo, “I
mulini non ci sono più, ma il vento è sempre lo stesso. Quel vento che ci rende
umani, consapevoli del fatto di esistere in un mondo in cui le persone care coi
loro affetti ci rendono felici di vivere in questo spazio ristretto. Se è vero
che “la poesia è qualcosa di oscuro che fa luminosa la vita (Pasolini)”,
è “un viaggio nell’ignoto (Majakovskij)” e “non è poesia se non
racchiude un segreto (Ungaretti)”, è pure vero che ci libera da patemi
che abbiamo dentro e che non vediamo l’ora di
esternare, perché, come scrive T. S. Eliot in East Coker,
nel secondo dei Quattro Quartetti: “C’è un tempo per la sera sotto la luce
stellare, un tempo per la sera sotto la lampada accesa, (…) L’amore è ancora
più di se stesso quando qui ed ora perde d’importanza.”: E qui l’amore sembra dominare la scena,
un amore totale, plurale, per tutto ciò che riguarda la Nostra: l’uomo, la
natura, gli affetti, i cari, le memorie,
anche, che riportano giorni e ore di un passato lontano, di primavere che
parlano di vita: “…In questa notte piovosa,/ già lontana da entrambi
…sobbalzo…/sono due porte che si aprono e si chiudono/due porte che al vento
vanno e vengono/ombra a ombra.” (Ombra a ombra). Forse chissà anche dopo la
morte: “Sono sola al mondo/ e non c’è un’altra me,/sei solo al mondo/ e non c’è
un altro te,/in noi c’è un amore unico, amico mio caro,/fino alla morte, fino
alla fine.// E poi ancora dopo la morte.”. Tanta spiritualità si fa portatrice
di un messaggio che ci coinvolge e ci dà la voglia di vivere con in cuore una
fine che non è mai fine. Anche la vicinanza a Dio, allo spirito contemplativo,
ad un credo di forte impatto esistenziale fa di questa silloge un sano affondo
spirituale, che rende ancora più escatologico il mondo della Mazzuca: Ascolto: “Ascolto, ma non so se ciò che
sento/è silenzio o Dio. Ascolto, senza sapere/se sto udendo risuonare il vuoto
delle piane/o la coscienza accorta che nei confini/ dell'universo mi decifra e
imprime./ A stento so che cammino/come chi è ammirato, amato e conosciuto/ e
per questo in ogni gesto appongo/solennità e rischio.”.
Un credo che trova
la sua consistenza nell’amore per la Natura, che si fa concretizzazione di
forti stati emotivi. Ogni suo angolo è
vissuto come bellezza divina, come voluto dal Cielo, per cui tutto è
metaforico, tutto è simbolico, tutto è cristallizzazione di emozioni nei tratti
del Creato:
Il tuo nome
Mi lasciasti
infuocata di carezze
in un luogo senza
domani;
ora spoglia di
emozioni
vestita solo della
tua mancanza
ti regalo il mio
silenzio
pugno di vento che
sibila il tuo nome.
Una silloge
complessa, articolata, proteiforme che divisa in tre sezioni (LA
VOCE DELLO SPECCHIO, TEMPUS FUGIT, I GORGHI DELL’ANIMA) ci dà una completa
visione del rapporto dell’essere con le diverse fenomenologie della realtà:
Natura, Dio, esistenzialismo,
eros, e vita.
Nazario
Pardini
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