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giovedì 27 maggio 2021

MARISA COSSU LEGGE: "DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA"


Marisa Cossu legge

DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA

di Nazario Pardini

 

Anche in questo volume, come in tutta la sua opera, Nazario Pardini si apre ai “ricordi” che segnano l’esistenza, per i dintorni della vita, della solitudine, dell’amore e della conoscenza, fino al confronto con Thanatos. Anche l’approdo su Lèucade non assume un carattere definitivo: da qui si riparte verso i luoghi, i tempi, i palpiti, i dintorni dell’esperienza vitale, attraverso un faticoso viaggio per laghi, fiumi, terre e mari, in un amorevole afflato verso la Natura. Quasi un viatico memoriale in un frattempo costellato da evocazioni sempre graffianti, cariche di pathos. Tornano i temi cari al Poeta, ad arare il vasto campo delle cose perdute, degli affetti, del pensiero intorno all’uomo e alle antinomie che ne segnano la presenza.  I luoghi, il tempo, l’amore, sono il corpo della scrittura pardiniana: in un’esposizione intensamente filosofica e magicamente lirica Il Poeta anima il mondo del vissuto di una suggestiva compenetrazione tra questi elementi fondamentali; li colma di atmosfere, suoni, immagini, colori, passione per la vita e la Natura mediante un processo di riappropriazione e restituzione della memoria. In questa interiore e umanistica esperienza il Nostro libera quel dio-dentro che ispira i mirabili versi e che, con voce antica, s’innesta in una oggettiva e attuale visione del mondo. Il lettore è preso dall’entusiasmo della lettura, vi scopre affinità con il proprio sentire, riceve la motivazione al godimento degli strumenti stilistici e dei contenuti svolti con irruente passione nel verso libero o negli endecasillabi e settenari. In continuità con le precedenti opere poetiche, spiccano i contrasti di cui il Pardini avverte l’ineluttabile e sofferta presenza, ma anche la sperata ricomposizione nell’anima poetica, il sesto senso.  Non si può certo dire che la poetica del Pardini sia ancorata a temi o a schemi del passato, anzi essa è espressione di una solida fede nella tradizione culturale alla luce di un’intensa carica di sensazioni, emozioni e riflessioni, che in una assoluta e magica atemporalità, si fa mezzo interpretativo dei fenomeni cari ad ogni essere umano. Così il Pardini fa sentire tutto il potere evocativo delle forme della parlata toscana, quella che sempre gli esplode dentro nei momenti topici della sua poesia. Il nuovo libro di Nazario Pardini consta di tre sezioni: “Ricordi che pungono”, “Dagli scaffali della biblioteca”, da cui origina il titolo, “Dieci poesie d’amore”. “Ricordi che pungono” sono quelli evocati dalle stanze fredde di una casa tra i campi, da una finestra che apre ad orizzonti stellati e incornicia la figura paterna intenta all’attesa del figlio, da un pioppo solitario; un focolare presso cui il giovane studente ripassa le lezioni, prossimo al trasferimento in città per proseguire gli studi: non una casa vuota e fredda come potrebbe accadere fuori da quei ricordi, ma un focolare, un luogo sacro carico di affetti famigliari, di nostalgia, di atmosfere percepibili con calore e intensità d’amore. Intorno e dentro alla casa pungono le immagini del padre, della madre, del fratello dei nipoti e dello zio che ebbe cura di lui come di un figlio. Anche gli oggetti respirano, interagiscono ed emozionano; entrano nel rapporto indissolubile con le persone, i luoghi, le atmosfere:

“… da una porta

se ne vanno pensieri alla ricerca

di nuove abitazioni. Resta vuota;

pochi mobili,

e un calendario su cui sono segnate

date di compleanni.”

(La mia casa, pag.22)

 

E ancora:

“Un giradischi sopra il comodino,

mio fratello a studiare,

mio padre di ritorno dalla terra,

mia madre sul fornello a spolverare

memorie di una vita;”

(“Ricordi che pungono, pag. 23)

 

Con chiaro verismo di linguaggio il Poeta entra nelle cose e ne permette la visione immediata, dà un’anima a ciò che potrebbe apparire immobile o disperso in nebbie indissolubili. Forse quei ricordi, i dolori, le ansie giovanili, tornano a far male. La stanchezza frappone un limite tra ciò che troppo fortemente punge ancora e il bisogno di quiete, di riposo. La necessità da dimenticare, soffrire di meno per le trame della vita che ha intessuto alle gioie e ai dolori, le memorie cui non si ha più la forza di rendere conto:

“Non ti ho portato, padre, fra le mura

che ti videro chiuso in sanatorio

perché non ho voluto rinnovare

quel dolore che per anni mi ha incastrato.

Ora la penna è stanca, non ha più

l’inchiostro sufficiente per descrivere

il triste stato di una solitudine …”

(“Miei cari”, pag.20)


Si affollano i ricordi della nipote Carla, molto amata, coccolata e ninnata, che ora si fa vedere poco perché avrà di certo la sua vita; con rinnovata gioia il Poeta riannoda i fili della sua grande e meravigliosa famiglia nei momenti di condivisione quotidiana e nelle festose riunioni. Una vena di nostalgia pervade ogni ricordo ma, come nuova linfa, affiora il pensiero dei nipoti di cui fu tato:

“Quando incontro il mio Sandro,

mi sembra di vedere mio fratello

che, drizzandomi lo sguardo negli occhi

mi parla

come se fosse lui, dentro di me,

ad esprimere il suo amore per il figlio.”

(A mio nipote Sandro, Pag. 32)

 

Il nostro “bibliotecario”, apre ora le porte della biblioteca, ci permette di accostarci ai Grandi della cui voce si è nutrito nei lunghi anni di studio, d’insegnamento e d’amore per la lettura: l’ingresso è ampio e maestoso, non vi sono titoli; le parole sono già state scritte, sono lì, allineate in teche nell’immobilità apparente del tempo storico - letterario. Con il realismo del presente, il Nostro è ancora in quei “dintorni”:

“Col libro in mano vedo

che oggi il cielo è sereno. Nel campo

le donne raccolgono gli spinaci,

mentre sul pero il merlo fischia allegro

la bella serenata alla natura”.

(I, pag.36)

 

E il Nostro si ritrova nel paese delle meraviglie tra i poeti e gli scrittori amati, studiati, e tra quelli inevitabilmente meno consultati. Il poeta è ancora nel presente con i libri sul prato. Ci sono Catullo, Manzoni e Leopardi. Come risuonano i versi, le parole, la singolare intonazione delle diverse declamazioni, la melodia ineguagliabile che da Lesbia, trascorre per Lucia fino a giungere a Silvia e all’“Infinito”! E sembra vero e improvviso lo scoppio del temporale che costringe tutti al ritiro:

“Si scatena il temporale.

Grandine e pioggia sopra i nostri capi.

Si dissolvono nel nulla

gli scrittori e resto solo”.

(III, pag.37)

 

 La Natura appare nel suo assetto meccanicistico, perde il volto buono, si allontana, “preoccupata di gestire/un insieme di ingranaggi che ti impigliano/nella rete fottuta del destino”. Eppure in tutta la sua opera il Pardini vive e lavora immerso nella Natura, uno dei temi più cari. Questo il mondo del Pardini, quello più segreto, il nutrimento della mente e del sentire nell’arco dell’esistenza, nei dintorni della solitudine, quando è più forte la presenza della poesia e delle voci che l’alimentano. Sia nella vita, sia nella complessa produzione letteraria, il Nostro non è un mero “bibliotecario”, un dotto letterato, un filosofo, ma il risultato personale e unico di una versatile, non comune, passione e sapienza umanistica. In lui è la grazia della poesia. Si accosta ai libri gelosamente custoditi. Baudelaire non vuol più essere disturbato. È evidente che il Nostro abbia sempre svolto “molte e prolungate conversazioni” con il poeta de “I fiori del male”; egli ha voglia di dedicarsi ad un’altra opera ed ora, ritiratosi nel suo “spleen” non prova una particolare disposizione d’anima verso il “bibliotecario”. Ed ecco i piccoli screzi dei nostri Padri: Platone non si presta ad essere secondo alla lettura di Baudelaire che sembra essere preferito, allontana subito il Poeta: noi tutti sappiamo che il Filosofo, considerava pessima la poesia, “uno dei doni del delirio” nel “Fedro”, fino a criticare Omero nel terzo libro di “Repubblica”. Naturalmente la condanna della Poesia va letta nella cornice di un discorso estetico nato da quello intorno alla politica. Anche Dante, assidua frequentazione del Nostro, lo allontana. Scrive il Pardini:

 Ma questa non è la mia biblioteca?

Perché mai vi svegliate,

rifiutandomi di entrare

nelle pagine dei testi

che a suo tempo acquistai

bramoso di cultura?”

(VIII, pag.42)

 

Da troppo tempo il Poeta non si immerge in quelle pagine! E quante “frecciatine” si scambiano ora quei Grandi, stanchi dell’isolamento nel silenzio degli scaffali, rancorosi per la prolungata solitudine. Più che voci alimentate dal subconscio letterario, i Maestri del passato rivendicano il sortilegio di essere vivi e di poter versare ancora nel canto squarci significativi della propria vita. Sono passioni e amori veri, lacrime, sogni, giudizi, considerazioni: nel sottofondo, una colonna sonora sospirosa, distaccata, dove trova posto il Nostro per rimemorare i pensieri e i fatti della giovinezza; sono immersioni totalizzanti nel cuore delle opere predilette e non a caso citate spesso con suggestivi stralci. Catullo canta ancora l’amore per Lesbia, deriso dai compagni che ricordano i tradimenti della donna. Ed ecco presentarsi da uno scaffale impolverato un quaderno i cui fogli stropicciati attendono di essere riempiti di poesia per inserirsi tra quei libri con i versi di una fiaba che da tanto tempo ambisce essere scritta. Il Pardini vi stende una narrazione dolce e nostalgica che tratteggia la vita e le relazioni all’interno di una famiglia, la sua, certamente, per l’affetto con cui ne parla. La fiaba contiene gioie e dolori, scelte faticose, personaggi legati da amore perenne, ma costretti a separarsi, vuoi dalla morte, vuoi dalla vita. Una suggestiva metafora della propria esperienza, dalla quale emergono ricordi sempre attivi sul piano emotivo e creativo:

“Ed io presi la mano e lo sfogliai,

ed iniziai così la bella fiaba

di un re e una regina che non vollero

sedersi sopra il trono, ma pazienti

si dettero al lavoro per i campi”.

(X, pag.46)

 

Il Poeta si colloca finalmente tra i libri che tanto ha amato, con quella fiaba che inorgoglisce il vecchio quaderno e ricava per sé uno spazio ideale in cui inquadrare la propria poetica tra D’Annunzio, Montale, Ungaretti e Saba; ma il viaggio è carico di presenze e l’umiltà del Nostro più volte lo costringe a ritirarsi da alcuni amatissimi scaffali. Ma è D’Annunzio che colpisce per quel suo gesto di accompagnare il canto con il movimento della mano, immerso nella musica. E ancora Nazario Pardini evoca la nostalgia di Saba per la sua Trieste e il dolore per la perdita della sua Lina: “Sono chiuso qui dentro e vorrei tanto/tornare al porto al grido degli uccelli/assiepati sopra i pescherecci”. Poi ancora, l’ansia esistenziale di Pavese, l’inquietitudine a vivere la vita che ancora rabbuia la stanza di Torino in cui compì il gesto estremo, gli aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri dove Cardarelli custodisce in eterno il proprio canto. Il chiacchiericcio dei poeti deve però arrendersi alla forza di una voce sgraziata che eleva dalle pagine tristi della guerra versi incisivi e indimenticabili da “Allegria” e dal “Sentimento del tempo”, i versi immortali alla Madre: è Ungaretti. Intanto Francesco Pastonchi esce con garbo dalle pagine fresche del suo Endecasillabi e chiede al poeta di recarsi sulla tomba della madre per leggerle i versi de “La mia fiaba”. È un momento di grande commozione che si manifesta negli occhi umidi di pianto. Si concretizzano altri poeti: Bertolucci e Giuseppina Cosco, stanchi di restare tra pagine ingiallite, Giorgio Caproni con il ricordo di Livorno, della madre e della donna amata; si odono i sospiri di Sibilla Aleramo e Dino Campana: “Sento che sorrido, intenerita, c’è pudore e c’è grazia puerile in questo che mi investe, sola, tremore improvviso … (Sibilla Aleramo)”. È questo uno dei tanti brani citati da Nazario Pardini a testimonianza dell’assorbimento del poeta nel clima delle emozioni che vengono svelate e condivise. Ma non si trova qui soltanto tristezza, rimpianto e vite vissute tra pene e dolori. Vi sono anche i quaranta sonetti romaneschi scritti da Carlo Alberto Salustri, il grande Trilussa, con i versi che fanno sorridere tutti i poeti della biblioteca. “Dalle fronde dei salici”, lì appeso con la sua lira, Quasimodo canta la guerra, la morte di Milano violentata dalla barbarie, la solitudine esistenziale dell’uomo. Dopo aver incontrato Sergio Solmi, il Nostro esce dalla biblioteca, contento del suo turno, per leggere “Dieci poesie d’amore”. Dalla porta socchiusa viene quel caldo suono ispiratore della dolce lettura:

“Mi è passato d’accanto il tuo sorriso

appoggiato alla spalla di un torrente

che lieve scorreva verso il mare”.

(Con la rete da pèsca, pag.93)

 

È un passaggio emozionante della narrazione in cui il Poeta si pone come ascoltatore e voce dei Grandi che lo hanno preceduto, e l’amore assume un ruolo centrale qui come nella poetica del Pardini.  Tratto riconoscibile e originale il sovrapporsi in lievi sfumature visive e sonore dell’insieme dei sentimenti immersi nel paesaggio e mossi dal senso della giovanile visione amorosa. L’amore è necessaria condizione umana, bellezza irripetibile, non soltanto un ricordo ma senso di tenerezza, passione, forza vitale, tempo di facili entusiasmi e di facili illusioni. Si nutre di spiritualità e carnale realismo, la fanciulla amata nello splendore della giovinezza sulla riva del mare, del lago o nella musica pucciniana, in trame di luce. In un contesto diverso, la stessa donna appare priva dell’aura che tanti sogni aveva alimentato: il tempo le ha rubato la grazia vissuta e ora appare stanca e sciupata, alle prese con i quotidiani problemi della vita. La caducità delle illusioni fa pensare a quei ricordi pungenti che ancora trafiggono l’anima del Pardini:

“Ma mi è sfuggita di mano e fra le braccia

mi son trovato il vuoto. La memoria,

pietosa della mia solitudine,

l’ha rimpiazzato

col profumo di pesca delle sue sciolte chiome”.

(Il ricordo di Delia, pag.96)

 

I ritorni sono sempre carichi di passione: le cose, le strade, lo spirito del vissuto sono necessariamente percossi dalla percezione nitida e dolente dei mutamenti personali e generali. Gli stati d’animo volti al futuro, l’allegria e la giovinezza, sono stagioni ormai chiuse. Mentre il poeta parla con Delia, il tempo ha già compiuto il suo giro: il sole si oscura, il mare si agita e ribolle, ogni cosa ha un inizio ed una fine. Che cosa resta? Dove può essersi rifugiata la luce della giovinezza se non nella memoria? È forse nell’azzurrità di uno sguardo tornato per incanto, il segreto che risarcisce la memoria persa, l’amore che si trasforma come il cielo? E dove si è eclissata “l’anima dei giorni miei” ora lontana dal Borgo Stretto, dalle vie familiari, dalle vetrine in cui si rifletteva l’immagine della beata giovinezza! “Ora è tardi, mia carissima Delia”, sembra dire il cielo carico di nubi grigie. Non muore l’amore, la consapevolezza dell’averlo vissuto, conservato nello scrigno dei doni preziosi, averne coltivato l’idea come essenza dell’esistente, idea che necessariamente riguarda un fatto spirituale arricchito da sensazioni mai dimenticate. Amore per il padre, per la vita, amore che giustifica il dolore e la perdita, li rende accettabili nella musica di una canzone che mai finirà e ancora rallegra l’anima del Poeta. Resiste e si rinforza nel Nostro quel desiderio di conoscenza che lo ha guidato sin qui e che continuerà ad ispirare il suo viaggio poetico dentro e fuori di sé. 

Marisa Cossu

 

 

6 commenti:

  1. Carissima Marisa, con la tua analisi di grande valore significativo e dai contenuti umani profondi, hai sapientemente posto in evidenza l’arte della parola/immagine del suo Autore che si concretizza nella metaforica interpretazione del mistero che accarezza il fluire del divenire.
    Con dovizia di particolari, la tua esegesi ha fortemente trasmesso il puro pensiero filosofico del Nostro che rende il lettore partecipe delle emozioni attraverso le immagini del suo vissuto aperto ai ricordi, alla ricerca di luoghi, tempi, palpiti, amore, suoni, colori intrisi di nostalgia passioni che tracimano come torrente in piena e assurgono a viatico di infinite sensazioni della memoria.
    Dolcissima Marisa, con il tuo commento fai emergere la forza evocativa straordinaria di delicate atmosfere fuggite dal passato del Nostro nella ricerca di un domani incognito e di un altrove altrettanto misterioso al di là del nulla.
    Che altro dire di questa recensione sbocciata dalla tua consueta sensibilità se non grazie a te che hai saputo farne dono a Nazario ed a tutti noi che siamo grati di approdare al suo scoglio.
    Un affettuoso pensiero.
    Lino D’Amico

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    1. Carissimo Lino, solo oggi sono riuscita a ripristinare il mio link. Avevo scritto due volte un commento di ringraziamento alla tua puntuale e accurata nota che mi onora. Sei un caro amico e ottimo poeta. Le tue parole e i tuoi versi parlano al cuore. A presto cn un fraterno abbraccio.
      Marisa Cossu

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  2. Marisa mia, ti sei cimentata con la consueta professionalità e con intense vibrazioni dell'anima nell'esegesi di una delle Opere del Maestro più cara a molti di noi. Sei salpata dal molo dei ricordi e hai affrontato la narrazione centrale, di rara originalità e bellezza, con i Grandi della letteratura che saltano fuori dai tomi inseriti negli scaffali della biblioteca e riprendono vita per discorrere con il nostro Nazario. Asserisci che si tratta di "un passaggio emozionante della narrazione in cui il Poeta si pone come ascoltatore e voce dei Grandi che lo hanno preceduto, e l’amore assume un ruolo centrale qui come nella poetica del Pardini". E sei nel giusto, nell'essenza dell'Opera e della poetica del Nocchiero. Le dieci poesie d'amore sono legate a quest'asserzione e spalancano orizzonti di luce, di volo, di ulteriore viaggio. Nella tua lettura, amica preziosa, sottolinei l'ulissismo che caratterizza il Nostro nell'accezione di perenne sete di Conoscenza e sei superlativa. Non mi aspettavo nulla di meno da una Donna e un'Artista come te. I complimenti sono riduttivi. Abbraccio forte forte te e l'Autore di questo capolavoro esternandovi ancora e sempre la mia ammirazione!

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    1. Carissima Maria,
      sei fantastica. Trovi sempre una parola gentile e mi fai sentire il tuo affetto che va oltre la poesia e la passione letteraria che ci accomuna. Ti ringrazio per il graditissimo commento. Non è stato semplice entrare in quella biblioteca: troppo alta la cultura del Maestro! Un libro eccezionale che ha rivelato altre sfumature della poetica del Nostro. Grazie, cara e con te, saluto con affetto il nostro illustre ospite.
      Marisa Cossu

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  3. Un saggio vero e proprio che fa onore al nostro Poeta
    Claudia Piccinno

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    1. Carissima amica,
      quella biblioteca é piena di tesori da esplorare, rimemorare e mettere in luce con le tante stimolazioni che il nostro grande Nazario ci offre. Sono contenta del tuo apprezzamento. ti stimo moltissimo. grazie e un abbraccio
      Marisa Cossu

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