NARRABILANDIA FARA EDITORE
13 luglio 2021
Il cannocchiale
puntato sul buio
Racconta
una storia Zen che un monaco, il quale cominciava a dubitare dell’esistenza
materiale delle cose, fu convinto del contrario dal suo maestro spirituale che,
per dissuaderlo, lo colpì con forza sulla testa con la propria pipa di bambù. Il
discepolo si arrabbiò, però intuì subito sia che gli oggetti possiedono peso e
consistenza sia che le azioni ottengono effetti immediatamente percepibili,
certe volte dolorosi.
Dokuon, l’insegnante Zen, avrebbe potuto chiamarsi Edward Moore, il filosofo inglese
leader della corrente chiamata del senso comune. Ai sostenitori di un idealismo
radicale, Moore infatti obiettava che spettava a loro l’onere della
dimostrazione, e che comunque esisteva una prova semplice, sicura ed
inconfutabile, circa l’esistenza del mondo esterno che ciascun individuo poteva
comodamente verificare. Bastava appunto alzare la propria mano e dire «Ecco qui
una mano», poi sollevare l’altra aggiungendo «E ecco qui un’altra mano».
Lo stesso Borges, affascinato dalla filosofia di Berkeley secondo cui il mondo
è un atto mentale frutto della nostra immaginazione e del nostro pensiero, in
un testo suggestivo ed erudito, intitolato Nuova confutazione del tempo,
deve infine arrendersi all’evidenza irreversibile e drammatica del tempo e
della morte: «Il mondo», ammette, «disgraziatamente, è reale; io,
disgraziatamente, sono Borges».
Pochissimi pensatori mettono davvero in discussione la sussistenza di una
realtà fisica e materiale: non Platone, che la svilisce a copia imperfetta e
sbiadita delle idee che la modellano; né Schopenhauer, secondo cui l’uomo può
conoscere solo attraverso occhi che vedono un sole e mani che sentono il
contatto con la terra, non il sole e la terra come essenzialmente sono.
La realtà possiede diversi livelli e gradi, i più profondi di questi vanno
indagati con metodi più sottili rispetto a quelli che, con tanta spontaneità e
immediatezza, il senso comune offre e mette a disposizione. Il tavolo che
vediamo, tocchiamo e usiamo quotidianamente, senza prestargli particolare
attenzione, non è, ricorda Bertrand Russel, quello che appare e sembra, essendo
in verità composto da un insieme di cariche elettriche in movimento. Le teorie
dei quanti e della relatività ci hanno quasi abituati a soluzioni paradossali,
argomenti ostici, concetti impossibili e dimensioni intellettuali sconcertanti;
l’illimitatamente grande e l’infinitamente piccolo ci spingono al di là delle
nostre capacità logiche e riflessive. Chiarisce Heisenberg in Fisica e
filosofia che gli atomi e le particelle «formano un mondo di
possibilità e di potenzialità piuttosto che un mondo di cose e fatti».
Nella sua Autobiografia scientifica Albert Einstein scrive:
«Fuori c’era questo enorme mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri
umani, e che ci sta di fronte come un grande, eterno enigma, accessibile solo
parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero. La contemplazione
di questo mondo mi attirò come una liberazione». La sostanza delle cose (ciò
che sta sotto e le sostiene) e la loro essenza (ciò che resiste al trascorrere
del tempo e al mutare delle apparenze) sono solo in minima, infinitesima parte
esplorabili e conoscibili. Sulla sostanza ultima si possono azzardare ipotesi e
congetture; la conoscenza sfida i propri confini, si scontra con i propri
limiti e continuamente prende consapevolezza della propria ignoranza. Per
alcune filosofie orientali l’essenza non può essere pensata dall’intelletto, è
perenne, incontenibile flusso impossibile da irretire e imprigionare con rigide
categorie mentali; se ci proviamo rischiamo di fare la fine di questo
millepiedi: «Il millepiedi era felice, tranquillo; / Finché un rospo non disse
per scherzo: / “In che ordine procedono le tue zampe?” / Questo arrovellò a tal
punto la sua mente, / Che il millepiedi giacque perplesso in un fossato, /
Riflettendo su come muoversi». La conoscenza è soprattutto coscienza della
propria inadeguatezza, della propria incapacità a comprendere pienamente. Non
esiste un soggetto che conosce (l’uomo) e un oggetto conosciuto (il mondo), la
separazione non è così netta e distinta, perché l’uomo come essere biologico,
compresa la sua mente, fa parte di quel mondo, ne è condizionato. Mette in
guardia Konrad Lorenz: «Ancora oggi il realista guarda solo verso la realtà
esteriore senza rendersi conto di esserne lo specchio. Ancora oggi l’idealista
guarda solo nello specchio voltando le spalle alla realtà esteriore.
L’atteggiamento conoscitivo di ambedue impedisce loro di vedere come lo
specchio ha un rovescio, una faccia non riflettente, che lo pone sullo stesso
piano degli elementi reali che esso riflette. L’apparato fisiologico, la cui
prestazione consiste nel conoscere il mondo reale, non è meno reale di quel
mondo stesso». Ribadiscono il concetto sia Edgar Morin sia Carlo Rovelli. Dice
il primo: «Ogni conoscenza, qualunque essa sia, presuppone una mente conoscente
le cui possibilità e i cui limiti sono quelli del cervello umano, e il cui
substrato logico, linguistico, informazionale proviene da una cultura»; e il
secondo ribadisce: «Noi, esseri umani, siamo prima di tutto il soggetto che
osserva questo mondo, gli autori, collettivamente, di questa fotografia della
realtà… Ma del mondo che vediamo siamo anche parte integrante, non siamo
osservatori esterni… La nostra prospettiva su di esso è dall’interno».
Di continuo tuttavia cerchiamo spiegazioni, ragioni, motivi, che permettano di
comprendere, capire ed afferrare il senso delle cose e dei fatti, la loro
sostanza più segreta. Non siamo mai sazi, consideriamo ogni scoperta una
parziale sconfitta, ogni balzo in avanti un passo indietro rispetto al
successivo. C’è sempre qualcosa che ci sfugge e che dobbiamo e vogliamo
rincorrere; però alla fine ci dobbiamo accontentare di squarci di verità che
come farmaci leniscono momentaneamente la nostra ansia di conoscenza: i nostri
occhi sono cannocchiali puntati sul buio. Un passo più in là rispetto al nostro
naso si estende un territorio misterioso e sterminato, un infinito enorme
labirinto inconoscibile che provoca smarrimento e scoraggiamento, ansia e
tensione. La lingua dell’universo, ci assicura confortandoci Galileo, si
esprime in caratteri matematici e forme geometriche: «la filosofia è scritta in
questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io
dico l’universo)… Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son
triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è
impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro laberinto». Newton (che nasce lo stesso anno in cui
Galileo muore, nel 1642) modera alquanto convinzioni ed entusiasmo: «Sembra che
io abbia scoperto qualcosa, perlomeno la gente lo crede. Ma io stesso mi sento
come un bambino che giocando in riva al mare si rallegra di trovare una
conchiglia qua e là, mentre di fronte si estende il mare, immenso, sconosciuto,
inosservato».
Aspiriamo a conoscere il mondo in tutta la sua estensione e profondità; subiamo
brucianti insuccessi e tuttavia non demordiamo. Ogni ostacolo è uno scoglio da
superare, ogni meta una tappa per un traguardo successivo. Basta un piccolo
risultato ed eccoci già pronti a ripartire, alla ricerca del segreto delle cose
e del nostro destino. Jaques Monod rammenta che «Tutte le religioni, quasi
tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni
dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la
propria contingenza». Ci sono dei momenti, degli istanti in cui proviamo la
sensazione di essere vicini alla verità: una intuizione come un lampo, una visione
magica di qualcosa di più profondo e di più nascosto. Come i bagliori delle
lucciole rimandano a una luce primigenia da cui sembrano originare, così le
nostre illuminazioni passeggere sembrano per un attimo collegarsi a una verità
più ampia e universale. Cerchiamo di afferrare quelle intuizioni e trattenerle,
ma di solito riottose sbiadiscono come al risveglio certi sogni che durante la
notte ci erano apparsi incredibilmente nitidi.
La poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996,
apprezza due paroline intinte nel dubbio, brevi ma con le ali, che vanno
ripetute come un mantra: «non so». Esiste una inquieta dialettica, anzi una
forte tensione, fra l’ansia di conoscere e la nostra ignoranza: vogliamo
ampliare i nostri orizzonti, compiere passi in avanti verso un’essenza, una
causa prima e ultima che perennemente ci sfugge e che però aspiriamo a
raggiungere illuminando il buio che inesorabile frena e fiacca i nostri sforzi.
I più tenaci di noi sono dei Sisifo condannati alla pena dello smacco, alla
condanna riservata ai ribelli, ma sono anche umili portatori di una luce che
accende e brucia l’esistenza e flebilmente rischiara, come una modesta
fiammella, il mondo che li circonda. «La nostra conoscenza può solo essere
finita», scrive Karl Popper, «mentre la nostra ignoranza deve necessariamente
essere infinita», e ancora, «La tensione fra la nostra conoscenza e la nostra
ignoranza è decisiva per l’accrescimento della conoscenza». Chi crede che
l’uomo sia un’invenzione dell’universo per conoscersi, rischia di commettere
peccati di vanità e di superbia; nel suo processo conoscitivo l’uomo scopre e
apprende principalmente i propri limiti, di essere una parte infinitesima e
marginale di un cosmo che immensamente lo sovrasta
Pascal ha scolpito un pensiero definitivo e memorabile: «Perché, insomma, che
cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al
nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla
comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio
restano per lui inevitabilmente celati in un segreto imperscrutabile:
egualmente incapace di intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo
inghiotte. Che farà dunque se non scorgere qualche apparenza della zona mediana
delle cose, in un’eterna disperazione di conoscere il principio e il termine?
Tutte le cose sono uscite dal nulla e vanno fino all’infinito».
L’immensità ci sgomenta e annichilisce ma, afferma Ungaretti,
contemporaneamente ci infiamma ed esalta (“M’illumino / d’immenso”). La
Szymborska, nel Discorso tenuto in occasione del conferimento del
Premio Nobel, afferma: «Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo,
spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso,
amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali…, qualunque cosa
noi pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il biglietto
d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata da due date
categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo – esso è
stupefacente».
Se ci fosse offerta la possibilità di interrogare il cosmo chiedendo finalmente
qual è la sua essenza, il principio, la causa, il nucleo primordiale occultato
nei suoi inesplorabili meandri, viene il sospetto che risponderebbe “non lo
so”. Probabilmente neppure l’universo conosce fino in fondo e distintamente sé
stesso; forse il mistero non è il prodotto dell’ignoranza e dei limiti umani ma
la sostanza insondabile che anima, nutre e feconda il mondo. Un aforisma sibillino
di Karl Kraus dice: «… Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce».
Giancarlo Baroni
"Probabilmente neppure l’universo conosce fino in fondo e distintamente sé stesso; forse il mistero non è il prodotto dell’ignoranza e dei limiti umani ma la sostanza insondabile che anima, nutre e feconda il mondo." Un estratto di "Narrabilandia" di grande interesse, che mette in evidenza la difficoltà della comprensione. Giancarlo Baroni per visitare il mistero dell'universo chiama in causa filosofi scrittori e poeti, da Borges tristemente convinto che l'uomo nel mondo sia reale, a Pascal, che asserisce il contrario. Il viaggio tra i punti di vista rappresenta un'avventura di conoscenza, poco importa se si tratta di conoscenza negata. Se in Berkeley esse est percipi, l’essere delle cose è il loro essere percepite, è anche vero che la natura si pone come una dimensione che deve essere ascoltata, contemplata esteticamente, perché manifestazione in immagine del disegno divino. Il limite del filosofo è nel considerare la natura come tutta data, già creata perché conclusa e perfetta in sé. Pertanto il fare artistico compete evidentemente a Dio e non all’uomo. Borges asserisce, pur ammirato da Berkeley, che 'non si può prescindere dal tempo'. La nostra coscienza passa da uno stato all'altro e il tempo è in questa obiettiva successione. Afferma che si è costretti a vivere e che“l’unica cosa che esiste è ciò che noi sentiamo, Esistono solo le nostre percezioni, le nostre emozioni”. Come scrive il nostro Autore, Borges giunge con disperazione a questo assunto. E gli altri Artisti citati, come la Poetessa Szymborska, per la quale la fatica di scrivere nasce da un incessante 'non so', o il nostro Ungaretti annichilito ed esaltato dall'immensità dell'universo. Giancarlo baroni con "Il cannocchiale puntato sul buio" porta avanti una disamina che ci rende attori, comparse e atomi dell'universo e la chiusa sembra cerniera lampo di tanto lavoro, visto che il Nostro ricorre a Karl Kraus e all'ennesimo enigma: «… Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce». Non è casuale il riferimento a un Autore che era solito ripetere quanto si rendesse ostico ai lettori asserendo che ciò che esiste deve prima essere inventato, e che vale la pena di inventarlo... Barone traccia un sentiero verso il mistero della conoscenza e ci illumina sulle tenebre che continuano ad avvolgerci. Lo ringrazio per questa pagina di studio e di passione e lo saluto con ammirazione profonda.
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