Pagine

giovedì 23 settembre 2021

A. AMBROSINI: "L'INCANTO DELLA MEMORIA NEI TESTI DI FRANCESCO TERRONE E JUAN RAMON JIMENEZ"


L’INCANTO DELLA MEMORIA NEI

TESTI DI FRANCESCO TERRONE

E JUAN RAMÓN JIMÉNEZ

 

Angela Ambrosini,
collaboratrice di Lèucade

Crediamo che sia proprio dal “piacere della memoria” (per usare il titolo di una sua raccolta di versi), che scaturisca il timbro più deciso e decisivo della poesia di Francesco Terrone. Una memoria che non si stempera in nostalgico abbandono o in sospiri di decadentistica ascendenza, ma che si nutre con tenacia nel segno tangibile e concreto del presente. “Ho fotografato / la tua / immagine / nella mia anima / e l’ho lasciata vivere / nei ricordi / della mia vita” (Nei ricordi da Il tenero e fragile silenzio, 2013). Una breve, lapidaria lirica che ci dà, a sua volta, come per la persona evocata, una fotografia dell’ispirazione tematica dell’autore. Il ricordo dell’amata che vive in con-presenza con l’oggi, nell’album dei ricordi, senza compiaciute estasi o sterile nostalgia del tempo trascorso. A questa serena accettazione del passato che non torna fa da supporto formale un incedere linguistico agile e scorrevole nell’asciuttezza dell’aggettivazione e persino nel verticalismo tipografico in cui si scindono i predicati del messaggio poetico: periodi incalzanti, chiaramente suddivisi in soggetto, predicato e complemento, privi di orpelli e decorativismi, affinché il tema proposto raggiunga senza dilemmi il fruitore del testo. La lotta che il poeta ingaggia con l’elemento sensoriale per tradurlo in equilibrio dell’intelletto (ovviamente inteso non come assenza di emozioni, ma come universalità condivisibile delle stesse), arriva con veemenza “a fondere e confondere / i battiti del (…) cuore / con i battiti /…/ della (…) macchina da scrivere” (Battiti, pergamene e parole da Pitagora, 2014).

L’esito lirico felicemente sgombro da impalcature stilistico-formali e quindi, da sospirosi rigurgiti e sentimentalismi che ne potrebbero appannare il chiarore dei concetti, ha costituito il vertice espressivo nella parabola del grande poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez, Premio Nobel 1956, padre e maestro, come ebbe a dire il critico Valbuena Prat, di veri poeti e non di fragili epigoni nel panorama della lirica spagnola moderna e contemporanea. Nella seconda fase della sua produzione letteraria, quella universalmente definita della “purezza”, la coscienza dell’inadeguatezza del linguaggio alle definizioni dell’essere, spinge il poeta andaluso a una riflessione perenne sulla valenza e le potenzialità stesse della parola, come nei celebri tre versi introduttivi della raccolta Eternità del 1917: “Non so con cosa dirlo, / poiché ancora non si è fatta / la mia parola”. Stesso dubbio pare assalire Terrone nella percezione di “qualcosa d’immenso / che / non ha nome /non ha parola” (Dolci ricordi da Vibrazioni, 2011).

Nel nostro poeta, la fusione con la bellezza della natura è spesso propiziata dal ricordo che tuttavia, come dicevamo, riesce a fugare ogni nostalgia nella visione rasserenante del futuro e della vita all’insegna delle “sue / innumerevoli ed ambiziose / sfide” (Nel silenzio da Vibrazioni).

L’incessante ricerca d’infinito, di totalità dell’essere che pervade la poesia juanramoniana a partire dai titoli di certe sue raccolte (si pensi a La stagione totale del 1946 o alla poc’anzi menzionata Eternità), permea ogni singolo verso del poeta andaluso in un’insopprimibile spinta alla pienezza della vita: “Il tutto che è il colmo del nulla, / quel tutto che basta a se stesso ed è servito / da ciò che ancora è ambizione”  (in L’autunnata, da La stagione totale).

Neanche l’amore (da Jiménez assimilato alla bellezza della poesia, al punto da chiosare la raccolta Eternità, dedicata alla moglie, con la frase Amore e poesia ogni giorno), può sottrarsi a questa volontà di travalicare il presente o addirittura l’assenza della persona amata, nell’ansia d’eternità, o meglio, diremmo, di incancellabile permanenza. Così, in Eternità, il poeta di Moguer instaura un silente dialogo con la donna amata “Vieni. Dammi la tua presenza /…/ Vieni, vieni da me, che voglio darti vita / con la mia memoria, mentre muoio!” (da Calice). Oppure gioisce del ricordo dell’amore che non muore, nella raccolta Pietra e cielo, nella lirica intitolata, appunto, Il ricordo: “Ricordo, amore che non muore mai, / in un incanto quasi di sogno”. Parimenti, Terrone, pur “nel dolore per l’amara assenza dell’amata, si scuote dal torpore del ricordo riuscendo a vivificare con la sua propria esistenza l’assenza della donna che in un dialogo immaginario si rivolge a lui promettendo “io ci sono / perché tu ci sei. / Noi / ci saremo sempre! “. È la mutua permanenza dell’essere, pur nell’assenza.

Altrove, i due poeti si avvalgono dei segni e delle apparenze della natura, per invocare i tratti dell’amata. Terrone: “ho chiesto al cielo, al mare / di prestarmi i loro colori e Jiménez: “Sei così bella / tu, /…/ nel pomeriggio tacito d’acqua e di sole(da La notte, in Eternità). E nei due estremi del giorno, alba e tramonto, entrambi ravvisano il fuoco dell’amore. “Ho vissuto/ più albe che tramonti, / perché le mie notti / sono state colorate / dalla tua presenza / che ha infuocato la mia vita”. Così canta Terrone e, similmente, con queste parole, Juan Ramón traduce il fuoco dell’amore: “Sei in me, che ho / nel petto l’aurora/ e sul dorso il ponente / - che mi brucia e mi trapassa / di una stessa fiamma”. (Da Pietra e cielo del 1919).

Una poesia, quella di Francesco Terrone, fattasi respiro di vita e d’amore, nella scelta deliberata di un percorso formale di depurata essenzialità all’insegna della stessa concezione juanramoniana della semplicità come “prodotto finale” e non come punto di partenza.

Una poesia nella quale anche la memoria non è più ostacolo al libero fluire del presente, ma “Voglia di raccontare il passato / per vivere il presente e il futuro” (Battiti, pergamene e parole da Pitagora).

 

Angela Ambrosini

 

La traduzione italiana dei versi di Juan Ramón Jiménez è di Angela Ambrosini


Francesco Terrone, Le valli del tempo, Guido Miano Editore, Milano 2015, pp. 7-10 (collana “Analisi Poetica Sovranazionale del terzo millennio”)

 

2 commenti:

  1. Angela Ambrosini, che conosco da molti anni, con le sue esegesi ha il potere di ipnotizzare. Devo confessare che ho letto affascinata la vicenda di Maria Cumani, moglie di Quasimodo e del loro amore tormentato. E ora sono calamitata dalla presentazione dei testi di Francesco Terrone e Juan Ramon Jimenez. Entrambi sembrano votati a 'un passato che non torna', per usare le parole dell'Ambrosini, ovvero a una nostalgia del perduto, che non ha nulla del decadentismo... traggo sempre dall'incantevole ermeneuta, e penso a Pasolini, letto quarant'anni dopo con "L'ora è confusa e noi come perduti la viviamo". L'Autore salernitano viene accostato all'Artista spagnolo, com'è spesso accaduto - basta pensare a Lorca , Neruda -, per le caratteristiche del linguaggio lirico, infatti la posizione di Juan Ramón Jiménez è senza dubbio di completo distacco dalla tradizione romantica: è un atto di ribellione. È valorizzazione di uno stato di coscienza di fronte ad uno stato d'incoscienza; è aspirazione ad un ordine supremo. Non è negazione di valori fantastici o sentimentali, è controllo di essi, valorizzazione estrema del contenuto nella forma. A suo avviso la poesia deve essere nuda: non può cedere a nessun compromesso con ciò che è fuori della sua essenzialità espressiva. Il poeta non deve illustrare ciò che sente ma solo esprimerlo. E Terrone, come dimostra l'esegeta, non la pensava diversamente. Inoltre inseguono entrambi le isole della memoria, ossimoricamente proiettate nel futuro. Bellissima pagina, che arricchisce e rende liberi. Ringrazio Angela Ambrosini e la abbraccio insieme al nostro Condottiero, Maestro di ricordi, che trascinano verso il domani.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie vivissime, Maria, il tuo apprezzamento e le tue considerazioni sono per me fonte di grande emozione, ben conoscendo il valore culturale e poetico della tua formazione. Un abbraccio. Angela

      Elimina