L’INCANTO DELLA MEMORIA NEI
TESTI DI FRANCESCO TERRONE
E JUAN RAMÓN JIMÉNEZ
Angela Ambrosini, collaboratrice di Lèucade |
Crediamo
che sia proprio dal “piacere della memoria” (per usare il titolo di una sua
raccolta di versi), che scaturisca il timbro più deciso e decisivo della poesia
di Francesco Terrone. Una memoria che non si stempera in nostalgico abbandono o
in sospiri di decadentistica ascendenza, ma che si nutre con tenacia nel segno
tangibile e concreto del presente. “Ho fotografato / la tua / immagine / nella
mia anima / e l’ho lasciata vivere / nei ricordi / della mia vita” (Nei ricordi da Il tenero e fragile silenzio, 2013). Una breve, lapidaria lirica
che ci dà, a sua volta, come per la persona evocata, una fotografia
dell’ispirazione tematica dell’autore. Il ricordo dell’amata che vive in
con-presenza con l’oggi, nell’album dei ricordi, senza compiaciute estasi o
sterile nostalgia del tempo trascorso. A questa serena accettazione del passato
che non torna fa da supporto formale un incedere linguistico agile e scorrevole
nell’asciuttezza dell’aggettivazione e persino nel verticalismo tipografico in
cui si scindono i predicati del messaggio poetico: periodi incalzanti,
chiaramente suddivisi in soggetto, predicato e complemento, privi di orpelli e
decorativismi, affinché il tema proposto raggiunga senza dilemmi il fruitore
del testo. La lotta che il poeta ingaggia con l’elemento sensoriale per
tradurlo in equilibrio dell’intelletto (ovviamente inteso non come assenza di
emozioni, ma come universalità condivisibile delle stesse), arriva con veemenza
“a fondere e confondere / i battiti del (…) cuore / con i battiti /…/ della (…)
macchina da scrivere” (Battiti, pergamene
e parole da Pitagora, 2014).
L’esito
lirico felicemente sgombro da impalcature stilistico-formali e quindi, da
sospirosi rigurgiti e sentimentalismi che ne potrebbero appannare il chiarore
dei concetti, ha costituito il vertice espressivo nella parabola del grande
poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez, Premio Nobel 1956, padre e maestro, come
ebbe a dire il critico Valbuena Prat, di veri poeti e non di fragili epigoni
nel panorama della lirica spagnola moderna e contemporanea. Nella seconda fase
della sua produzione letteraria, quella universalmente definita della
“purezza”, la coscienza dell’inadeguatezza del linguaggio alle definizioni
dell’essere, spinge il poeta andaluso a una riflessione perenne sulla valenza e
le potenzialità stesse della parola, come nei celebri tre versi introduttivi
della raccolta Eternità del 1917: “Non
so con cosa dirlo, / poiché ancora non si è fatta / la mia parola”. Stesso dubbio pare assalire Terrone
nella percezione di “qualcosa d’immenso / che / non ha nome /non ha parola” (Dolci ricordi da Vibrazioni, 2011).
Nel
nostro poeta, la fusione con la bellezza della natura è spesso propiziata dal
ricordo che tuttavia, come dicevamo, riesce a fugare ogni nostalgia nella
visione rasserenante del futuro e della vita all’insegna delle “sue / innumerevoli
ed ambiziose / sfide” (Nel silenzio da
Vibrazioni).
L’incessante
ricerca d’infinito, di totalità dell’essere che pervade la poesia juanramoniana
a partire dai titoli di certe sue raccolte (si pensi a La stagione totale del 1946 o alla poc’anzi menzionata Eternità), permea ogni singolo verso del
poeta andaluso in un’insopprimibile spinta alla pienezza della vita: “Il tutto
che è il colmo del nulla, / quel tutto che basta a se stesso ed è servito / da
ciò che ancora è ambizione” (in L’autunnata, da La stagione totale).
Neanche
l’amore (da Jiménez assimilato alla bellezza della poesia, al punto da chiosare
la raccolta Eternità, dedicata alla
moglie, con la frase Amore e poesia ogni
giorno), può sottrarsi a questa volontà di travalicare il presente o
addirittura l’assenza della persona amata, nell’ansia d’eternità, o meglio,
diremmo, di incancellabile permanenza. Così, in Eternità, il poeta di Moguer instaura un silente dialogo con la
donna amata “Vieni. Dammi la tua presenza
/…/ Vieni, vieni da me, che voglio darti vita / con la mia memoria, mentre
muoio!” (da Calice). Oppure
gioisce del ricordo dell’amore che non muore, nella raccolta Pietra e cielo, nella lirica intitolata,
appunto, Il ricordo: “Ricordo, amore
che non muore mai, / in un incanto quasi di sogno”. Parimenti, Terrone, pur “nel dolore per l’amara assenza” dell’amata, si scuote dal torpore del
ricordo riuscendo a vivificare con la sua propria esistenza l’assenza della
donna che in un dialogo immaginario si rivolge a lui promettendo “io ci sono /
perché tu ci sei. / Noi / ci saremo sempre! “.
È la mutua permanenza dell’essere, pur nell’assenza.
Altrove,
i due poeti si avvalgono dei segni e delle apparenze della natura, per invocare
i tratti dell’amata. Terrone: “ho chiesto al cielo, al mare / di prestarmi i
loro colori” e Jiménez: “Sei così
bella / tu, /…/ nel pomeriggio tacito d’acqua e di sole” (da La notte, in Eternità). E nei due estremi del giorno,
alba e tramonto, entrambi ravvisano il fuoco dell’amore. “Ho vissuto/ più albe
che tramonti, / perché le mie notti / sono state colorate / dalla tua presenza
/ che ha infuocato la mia vita”. Così
canta Terrone e, similmente, con queste parole, Juan Ramón traduce il fuoco dell’amore:
“Sei in me, che ho / nel petto l’aurora/ e sul dorso il ponente / - che mi
brucia e mi trapassa / di una stessa fiamma”.
(Da Pietra e cielo del 1919).
Una
poesia, quella di Francesco Terrone, fattasi respiro di vita e d’amore, nella
scelta deliberata di un percorso formale di depurata essenzialità all’insegna
della stessa concezione juanramoniana della semplicità come “prodotto finale” e
non come punto di partenza.
Una
poesia nella quale anche la memoria non è più ostacolo al libero fluire del
presente, ma “Voglia di raccontare il passato / per vivere il presente e il
futuro” (Battiti, pergamene e parole da
Pitagora).
Angela Ambrosini
La
traduzione italiana dei versi di Juan Ramón Jiménez è di Angela Ambrosini
Francesco
Terrone, Le valli del tempo, Guido
Miano Editore, Milano 2015, pp. 7-10 (collana “Analisi Poetica Sovranazionale
del terzo millennio”)
Angela Ambrosini, che conosco da molti anni, con le sue esegesi ha il potere di ipnotizzare. Devo confessare che ho letto affascinata la vicenda di Maria Cumani, moglie di Quasimodo e del loro amore tormentato. E ora sono calamitata dalla presentazione dei testi di Francesco Terrone e Juan Ramon Jimenez. Entrambi sembrano votati a 'un passato che non torna', per usare le parole dell'Ambrosini, ovvero a una nostalgia del perduto, che non ha nulla del decadentismo... traggo sempre dall'incantevole ermeneuta, e penso a Pasolini, letto quarant'anni dopo con "L'ora è confusa e noi come perduti la viviamo". L'Autore salernitano viene accostato all'Artista spagnolo, com'è spesso accaduto - basta pensare a Lorca , Neruda -, per le caratteristiche del linguaggio lirico, infatti la posizione di Juan Ramón Jiménez è senza dubbio di completo distacco dalla tradizione romantica: è un atto di ribellione. È valorizzazione di uno stato di coscienza di fronte ad uno stato d'incoscienza; è aspirazione ad un ordine supremo. Non è negazione di valori fantastici o sentimentali, è controllo di essi, valorizzazione estrema del contenuto nella forma. A suo avviso la poesia deve essere nuda: non può cedere a nessun compromesso con ciò che è fuori della sua essenzialità espressiva. Il poeta non deve illustrare ciò che sente ma solo esprimerlo. E Terrone, come dimostra l'esegeta, non la pensava diversamente. Inoltre inseguono entrambi le isole della memoria, ossimoricamente proiettate nel futuro. Bellissima pagina, che arricchisce e rende liberi. Ringrazio Angela Ambrosini e la abbraccio insieme al nostro Condottiero, Maestro di ricordi, che trascinano verso il domani.
RispondiEliminaGrazie vivissime, Maria, il tuo apprezzamento e le tue considerazioni sono per me fonte di grande emozione, ben conoscendo il valore culturale e poetico della tua formazione. Un abbraccio. Angela
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