Luciana Raggi, Variazioni Minime (Lithos, 2020)
Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Ogni gesto artistico, che sia poesia, pittura o altro, ha
il dono dell’immediatezza. Tutto inizia da uno stimolo non mediato. Ma se – ad
esempio - la giornata lavorativa inizia con la sveglia, nel mondo della
creatività artistica, che è quanto di più inutile possa esistere, si inizia con
un richiamo che viene dal profondo, una voce interiore che squarcia il velo del
raziocinio e che ci spinge a fare qualcosa che non ha senso né ha utilità.
Perché lo facciamo? Evidentemente non ho la risposta, ma è altrettanto evidente
che quel gesto che inizia da un richiamo della nostra voce più intima, ci rende
migliori. La poesia, come tutte le altre arti (aldilà degli aspetti tecnici), è
guidata da un mistero e, per questo, ha un suo lato esoterico accessibile solo
a chi quel richiamo non lo ignora.
La poesia è, innanzi tutto, un cammino interiore, ma è
anche un percorso iniziatico perché, a mano a mano che si va avanti nella sua e
nostra evoluzione, ci porta a superare le diverse tappe della vita, ci porta a
rompere i diversi gusci che proteggono i vari livelli percettivi che, nel corso
della nostra esistenza, scopriamo.
Per questo, quando si legge un libro di poesia (non una
raccolta di poesie, non una silloge poetica, ma un libro di poesia), occorre
assaporarne l’impianto, la struttura e la sinfonia che ne viene fuori.
La musica ci aiuta a capire meglio il concetto perché lì
abbiamo sonate, sinfonie, suites, concerti… tutte forme che presentano un
percorso.
Così è per Variazioni minime, che si presenta come un
concerto: primo movimento “tutto cambia”, secondo movimento “nomade fra le
parole” e terzo movimento “l’arte dell’incontro”. E qui mi piace ricordare Tagore
che diceva proprio “la vita è l’arte dell’incontro”.
Questi tre movimenti sono un processo evolutivo dove
abbiamo la prima parte con le minime variazioni che rendono ogni istante unico
nella sua apparente ripetitività e dove, mentre la vita si scopre “intrappolata
dalle attese”, ci si chiede se “ci sarà un risveglio”. La seconda parte
rappresenta una fase di purificazione e ricerca in cui vige un imperativo: “lava
le parole, togli le asperità, sbianca i pensieri”, traccia del lavoro al nero
dove, però, tutto si concretizza in un “quasi”, magistralmente espresso in
“nomade tra le parole dette e quella che mi tace dentro”. La terza parte gioca con
la vita che arriva finalmente a compimento, nell’incontro con “quel dio che
spesso si sottrae, l’ho sentito quel giorno in riva al mare”.
Leggere questo libro non è leggere una silloge, ma
scoprire un percorso. La sequenza, che spesso i poeti definiscono solo
intuitivamente, è un cammino che porta verso un dove. Guarda caso l’ultima
poesia è proprio dedicata a un dove: il paese di origine dell’autrice.
Quindi si conclude con il ritorno alle origini? Non necessariamente,
semmai arriva un momento in cui si capisce che l’origine ha un senso e non
poteva essere altro che quello che è stato. E lo si ama. Del resto, se noi
siamo quello che siamo è perché abbiamo iniziato da lì.
Si cresce leggendo questo libro? Certo: ogni gesto
inutile, come scrivere una poesia o – peggio - leggerla, ci fa crescere. Ma essendo
il libro un percorso di crescita, tra l’altro intessuto di quelle capacità
evocative che non raccontano il percorso, ma ne fanno sentire l’essenza
plasmandosi sulla pelle e nella mente del lettore, procedendo per passi, per
tappe, per livelli di iniziazione (appunto) o per rotture successive di gusci,
il brivido che percorre la schiena non è per le banali emozioni che cerchiamo
nella lettura, ma per lo specchio che si insinua tra le parole e che ci tira le
orecchie ricordandoci quali sono stati i gusci che abbiamo rotto e, ancora più
importante, dicendoci che molti sono ancora da rompere.
Versi semplici? No, semmai sono versi essenziali e mai superficiali. Non esiste, in quest’opera una sola parola inutile: ogni segno (punti, virgole, spazi, parole…) ha un suo spazio e non ne vuole un altro. E va letto e riletto non isolandolo dall’insieme, ma vivendolo nel suo insieme. E ad alta voce, una, due, dieci e più volte, come un Mantra perché, non dimentichiamolo, la poesia è suono, silenzio e respiro. Come diceva Daumal, la poesia è uno yoga della mente. E alla fine la superficie verrà scalfita dalla presa di coscienza, perché “a tinte forti si esprime sofferenza e fame” e perché “la notte era bella nel viatico dei sogni, ma dei colori del buio non ricorda nulla”.
Claudio Fiorentini
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