Poesia come incommensurabile destino.
“E’ mio il dolore del mondo”[1]
Nascere
poeti in terra irpina!
Mettere
dei paletti al sentire umano e stabilire che i poeti sono “Irpini” o poeti e
basta?
Potrebbe
sembrare un interrogativo di poco conto. Eppure la Poesia irpina ha delle
fattezze sue che non sono solo il mito o la storia, né la famiglia e basta.
Sono
il ricordo della terra e dell’acqua che scorre nelle vene da stratificazioni
antiche di sorgenti levigate e rese basaltiche
dalla neve e dal freddo.
Partirei
col chiarire come mai questa terra che
balla, che non dona alcuna certezza, che è fatta di pietre e di odori ha poi impastato
con i suoi castagni, con i suoi valloni, con le sue fragole menti di grande
valore, uomini e donne di incredibile
coraggio e onestà, personalità creative, generose e amorevoli? [2]
Ritornando
ai poeti, poiché di questi che oggi vogliamo parlare, e raccontare
delle sorprese e dei doni che l’Irpinia
riserba ai suoi figli. Questa terra ha dato il natale, tra gli altri, al poeta Giuseppe Iuliano, nativo di Nusco,
capostipite per quei luoghi, punto di
riferimento per la generazione della nuova epoca di poeti,
là dove al massimo ci si aspettava una mediocre levatura, un chiaroscuro
di parole di fatti, di pause in sospensione
all’eco, troviamo invece la grande poesia che ci fa godere delle piccole cose
“Tantilla”[3],
dice il poeta, piccole cose, nascoste,
tra esse, si scorgono ”Un ramo
d’ulivo palmo di foglie/frutto e vanto della terra irpina/generosa come madre
di latte/stringe intesa e pegno di pace./Necessità a volte ci respinge./ E’
voce contro che restituisce/ fraternità e amore ad antica discordia./ Ha cuore
che cela tenebre e rabbia/vergogna, palpiti menzogna. / E’ anima nera che migra
dai monti. E disertrice di mare/invoca soccorso ed accoglienza./Ma qui s’affoca
senz’acqua /altra morte del Mediterraneo/ di un Sud carovana di nomadi/ che
attraversa deserti di coscienza/pozzi secchi a sorsi e brocche di sete.[4]Come
quando tra le foglie secche e il fango si trovano maroni, l’oro irpino che
nutre quei popoli, tra questi spazi segreti si rinvengono le essenze delicate che rendono
la vita possibile anche lì tra i lupi e
i cinghiali. Questa poesia è corpo, è costruita con elementi naturali, fusi
indissolubilmente all’anima. C’è una volontà che non conosce piegamenti che sa
cogliere le sconfitte. Voglio dire che questi versi lavati e purificati nelle
antiche sorgenti del Montagnone hanno da dire al mondo molte cose. Il mondo
archetipo dei padri “saraceni![5]”
è qui filato in valorosa sostanza, niente è trascorso invano. Gli stessi
terremoti che sono gli incubi di molti che abitano quella terra, i padri li sfidano, vi camminano sopra alle macerie del corpo e dell’anima
, sapendo che ci sarà sempre un post fata
resurgo : ricostruire per rinascere,
per ridare fiato alla creta, alle trombe
che oscillano lievi al triste vento. I suoi versi sono, a volte, ispidi,[6]
come il sibilo della vipera che ha perso la pelle, non danno conforto, ma ci
spalancano gli occhi sulla vita, non
sono preghiera, ma coraggio, amore per
chi resta dietro. Il mondo incrocio di
storie e strade/e dei loro intrecci sicuri o allo sbando/Impegna a confuse
diverse direzioni./Affanno patisce dubbie sfida superbia/Spesso l’odio/amore
esagerato/ spranga l’uscio o spalanca porti di tolleranza/Sospetti e
pregiudizio sono germi di rifiuto/negazione di solidarietà e morte solitaria.[7]
Non vi sembra che questi versi facciano da eco alle parole di Emilio Gadda :..che le inopinate catastrofi non sono mai la
conseguenza e l’effetto di un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono
come un vortice , un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo,
verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti….”
La sua
poesia sa di riserbo, è stringata,
ripida come le “coste” del SS Salvatore. Il poeta è credente, ma il suo
Dio è un maestro di silenzio e di pazienza.:
Sfinito, il corpotrafitto che dissangua/asperge e concima le zolle riarse/terra
di nessun raccolto/…. Spira di agonia.[8]
Non c’è surrealismo nei suoi versi,
anche l’inconscio non occupa molti spazi, c’è, invece quello che io chiamo un “nichilismo cristiano” [9]:
quel sentirsi piccoli piccoli e discutere, alla pari, con la volontà di Dio. Egli è un seguace fedele
di Cristo, di San Michele (il santo di tutti paesi di montagna, dei paesi
poveri , abbarbicati che sono nati per la fatica)porta fiero la sua takuba. Sa
essere leale, chiaro, onesto con i suoi amici. Ha i contatti e la stima di molti scrittori italiani. Da Nusco fa sentire
la sua voce, sa che la poesia è il
migliore dei mondi possibili. Crede fermamente nella forza di coesione e di
pace che essa possiede. Di fronte a una crisi di civiltà che non ha lasciato
scampo a nessuno, neanche per quei paesi scolpiti da duro lavoro, egli chiede
che siano rispettati i diritti di tutti, non solo della sua Irpinia, ma di
tutto il Sud, sempre più abbandonato e depredato. C ’è un filo che dà una “tramatura”
singolare, forte alla sua poesia, quasi
eterna: è lo spirito politico, del quale
egli è convinto e che credo abbia segnato non poco la sua vita, fin dalla prima
giovinezza. Ebbene, la poesia è civiltà e dunque perché non affidare ad essa
compiti di svolta, di crescita dell’umanità,
credo che i suoi versi non siano solo amara polemica per ciò che è stato
disfatto o non è stato fatto, ma tutt’altro, come i grandi padri dell’Irpinia e i grandi poeti e scrittori della Letteratura
Italiana come Verga, Manzoni,
Carducci, Quasimodo, si pone con occhi bene aperti di fronte alla
realtà, una realtà mai mitizzata, ed elabora le sue strategie di salvezza. E
questo non è poco cosa! La sua poesia dunque è fortemente radicata nei luoghi dove il poeta è vissuto e vive, gli stessi strumenti
musicali vanno dagli animali, alla terra, agli odori, alla neve e all’acqua, un concerto che non conosce dubbi: E’ ancora sibilo di serpente nascosto:/Urlo di
terra-spasimostrazio-/ trascina nel vortice sotterranei presepi/e ferisce i
Santi e le cento chiese… che striscia nelle viscere e le rivolta/[10]
Le macerie costituiscono l’atto di dolore della
poesia di Giuseppe Iuliano. Su quelle pietre hanno pianto e piangono donne e
uomini in lutto Quel demonio che squarcia le viscere non muore, dà terrore[11].[12]
I passi non sono facili, debellare il dolore è una lotta tenace, il poeta si
attacca come sanguisuga e non molla: La
morte parola sempre viva/scura nera come le vesti degli uomini/era rassegnata
metafora/angoscia agonia maledizione:/ Nessun libro di scuola/era memoria di
Aquilonia/conta di morte e sorte/all’affanno di terra ai suoi ansimi.[13]
Iuliano sa descrivere e cantare tutto questo.
La fitta sequenza del dolore della storia la troviamo anche nelle opere in
prosa nel tentativo di porre dei punti
fermi, come a volerci ricordare ciò che è stato e che i morti non vanno
dimenticati. Nelle opere in prosa si esplica più che mai un progetto per il
futuro, un agognare la pace, un costruire la pace. Lo scrittore di Bisaccia Franco Erminio, anch’egli interessante poeta irpino, impegnato civilmente, risponde, senza
infingimenti, alla domanda che gli viene rivolta sul come si viva da quelle parti: “Penso che si viva male e che
si tenta a pensare che si viva malissimo. Penso anche che a furia di
rappresentarci come vittime non riusciamo nemmeno più a cogliere la lietezza
quando arriva. Penso ad esempio alla notizia recente che il governo ha escluso
l’ipotesi di collocare qui ( a Bisaccia)una grande discarica. Non ci sono
state particolari manifestazioni di sollievo”.
Io concordo con queste riflessioni: come in
qualsiasi altro luogo della terra l’inedia, questa malattia più terribile del
covid, attacca molte comunità, compito dello studioso è scuotere gli animi,
agire come un vento di terra, togliere il respiro, ma vivere alfine. La corona di spine non impedisce
al poeta di amare, di soccorrere, di progettare,
di protestare ad altissima voce, di curare le crivellazioni subite.
Certo c’è da dire fino a che punto gli altri comprendano !
Che sia anche
questa la condanna del poeta, vivere da
solo con il suo dolore e consegnarlo
alle pagine dei libri?
Chi sono oggi
gli interlocutori della Poesia?
Carmen
Moscariello
[1] Sciami e formiche (dal sottotitolo)
[2]Giovanni Palatucci, riconosciuto Beato dalla chiesa e Giusto dagli ebrei. Salvò con lo zio migliaia di ebrei ed è morto nel campo di concentramento di Dakau
[3] “Tantilla” di G. Iuliano, prefazione di Aldo Masullo
[4]Tantilla,, La mia arca, pg 12
[5] Il riferimento è al poeta Rocco Scotellaro.
[6] Via Crucis, prefazione di Bartolomeo Sorge
[7] Pg 13, Via Crucis.
[8] Come un vecchio salmo, pg 7
[9] Consentitemi l’assurdo!
[10]
“Duemilasedici, pg.12Sciami e formiche
[11] Sciami e formiche
[13] Sciami e formichye , Mileenovecentotrenta, pg7
Mi complimento con Carmen Moscariello per questo suo post in cui la poesia viene a vivere di nuovo attraverso l'Irpinia, per mezzo del "ricordo della terra e dell’acqua che scorre nelle vene da stratificazioni antiche di sorgenti levigate e rese basaltiche dalla neve e dal freddo.".
RispondiEliminaE' da lì, e non certo dai salotti e dalle 'vetrine' addobbate, che si deve ripartire se si vuole ascoltarne l'inconfondibile respiro. Grazie!
Sandro Angelucci