Guido Miano, Lamento dell’emigrante, Miano Editore, 2017
(presente
nella sezione ANTOLOGIA ESSENZIALE DELLA CRITICA, pp. 128-131)
Angela Ambrosini, collaboratrice di Lèucade |
“Morde lo sguardo il filo della lama, / la
baldanza felina cede e smaga / percorsa da brividi, demente; /... / ‘Ora depongo
l’elmo e a spada. / Ma non mi piego in un letto di rose, /affondo scarni
artigli nella piaga’ ” (Guerriero ferito).
Un linguaggio petroso, duttile, fortemente
evocativo: parole come pietre conficcate nel verso a stimolare nel lettore un
atto mentale, più che una visualizzazione concreta del significato. Quali che
siano infatti i riferimenti, spesso pittorici, al vasto universo della natura,
invocato altresì con una nomenclatura solida e puntigliosa, il significato
sottinteso predomina sulla plasticità del significante che a sua volta si
dissolve in una musicalità rarefatta e quasi generatrice di nuovi significati.
Ingegnose e in sordina riecheggiano rime (“E’ l’acerbo colore di vinaccia / che
distende, già fidente di marzo, / orizzonti di peltro senza traccia”, in Nebbia), assonanze (“ Si leva ancora un
grumo d’aria insonne, / rischiara i volti e il cielo, / la nebbia poi risale
informe”, ibidem),
allitterazioni (“di cui il caso ha
crivellato il cuore”, in Tempo), paronomasie
(“nella rete che sovrana mi sovrasta”, ibidem),
a delineare un ritmo avvolgente ma impalpabile, mai invadente, su cui si snoda
in penombra una filosofia in dialogo con scene di un universo ora domestico
(“Sulla cresta ignuda del cardo / la terra incide teneri germogli”, in Sciarada), ora venato di classiche
vibrazioni (“Deponi l’elmo alato e lo scudo, / .../ da specchi curvi acefala
Sfinge / impone un altro gioco .../, in La
Sfinge) e che qua e là svela una dialettica amara sulla civiltà moderna
(“l’alambicco scarno del progresso”, in Tempo),
pur senza compiaciute, polverose dannazioni retoriche. D’altro canto, il
linguaggio corposo e a volte visionario, sicuramente ereditato anche dalla
tradizione siciliana, non può che scostarsi, sia per solida cultura personale
che per la pluridecennale militanza nella Casa Editrice di famiglia, da ogni
forma di tenue effusione lirica. Se mai è l’ascesi della parola (di questo
“monolitico /.../ verbo”, in Il verso)
a diventare “quasi litania perenne” (Ibidem)
per farsi cifra di un dettato poetico quasi mistico che Guido Miano
amorevolmente rincorre anche nei “brogliacci” delle poesie lasciategli dal
fratello Alessandro (vedasi la poesia a lui dedicata, Attese), dalla più autorevole critica definito “Poeta
dell’Assoluto”.
Stessa sete di trascendenza trapela dai
versi di Guido (“Solo in cielo emergiamo a chiari lidi”, in Il cervo) che, rivolgendosi alla memoria
del fratello riflette “Da comignoli d’ombra poi sprigioni / al cielo alti
cerchi d’aurore”, in Attese).
Non a caso Mario Luzi, fraternamente attento
al messaggio poetico di Guido, gli dedicò la sua Cosmografia improvvisa, ispiratagli dal passaggio della cometa di
Halley. Nella lirica Luzi mette a confronto la rapida, effimera parabola
dell’umanità, quel “suo rigore già di salma”, con “la purità dell’essere” di
quella “numinosa sfera”.
Altrove
Guido Miano, a voler similmente ribadire l’incrollabile fiducia nella
dimensione trascendentale, annuncia che “la Luce annullerà i tramonti” (in Hombre) o, pungolato dal timore
umanissimo del dubbio, incalza, rivolto al cielo “C’è uno spiraglio almeno
d’ombra lieve / nell’orizzonte tuo vasto / che conduce a quella meta?” (in Tempo). Ma è solo un’incrinatura nel
brulicante scenario di una fede che riscatta da qualsiasi fallace
interpretazione del reale, visto anche nel segreto ordito di un eterno ritorno:
“se dall’alto ti chiama il cielo / non spergiurare l’eco, / è lui il maestro /
dell’antico Tempio della storia. / Forse sapremo ancora / dov’è l’incanto della
preghiera” (in Preghiera).
Lungi da una scrittura ornamentale di vacua elegia, purtroppo troppo spesso propinata dallo smaccato consumismo intimista di molti circuiti letterari, la poesia di Guido Miano (e non potrebbe essere altrimenti, dato il ruolo editoriale che ricopre da molti anni e di scrittore) induce a interrogazioni di forte pregnanza meditativa, tali da poter far nostra la riflessione di Giovanni Paolo II: “Sono proprio i poeti che hanno composto le più belle preghiere”. Angela Ambrosini
Poetessa e critico letterario
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