Gian Piero Stafanoni, collaboratore di Lèucade |
Mario D'Arcangelo, Ce fu nu monne.
Edizioni Cofine, Roma,
2021.
Sempre cara e incisiva nella penetrazione
dalle sue risonanze, dalle zone in ombra delle mancanze, delle sue antiche
richieste la poesia in dialetto che nel nostro paese nelle più diverse espressioni
continua a incalzare e a stupire a fronte di una impasse sempre più evidente di
una poesia in lingua evidentemente ferma alle logiche monologanti di un'epoca
compressa tra le sue negazioni. E ancora più caro forse il dire poetico nella
parola d'Abruzzo, terra da cui sono uscite tra le più valide espressioni della
poesia neodialettale, tra gli ultimi ancora Giuseppe Rosato, ancora Marcello
Marciani e ancora la dolce, dolcissima figura di Mario D'Arcangelo. Una parola
quella che esce da queste montagne, da queste marine e coste insieme aperte
agli interrogativi dei suoi più evocativi orizzonti e insieme nella ritrosia di
una custodia che la sa smarrita se non timorosa e offesa ai disconoscimenti del
moderno, che sa farsi paradigmatica, soventemente, progressivamente più che
esemplare di un mondo alla prova dei mutamenti drammatici e comunque epocali
che andiamo vivendo. Un mondo non più ordinato, fermo e quasi immutabile,
comunque riconoscibile e riferibile pur nelle complessità di logiche e dinamiche
per natura incalzanti ma spazi, frammentazioni di spazi, di circuiti di
esercizi a innalzare e poi a smentire condizioni, aspirazioni, esigenze di un
umano non più atto allo strumento critico di sé ma il più delle volte semplicemente
strumento, forse, delle sue spoliazioni. La poesia ha, avrebbe allora il merito
di rimemorare la vita là dove l'umano ha vita nell'espressione piena delle sue
aspirazioni, dalle sue espansioni come dalle sue ferite certo se dignità è
dapprima nel riconoscimento del valore e poi nell'evocazione suo racconto, suo
tragico o felice incantamento. Un ridisegnarci dai confini, dalle terre dunque che
ci hanno informato e formato nella sacralità continuamente rinominata ed ivi
rimessa di una creaturalità che comprehendoci continuamente ci ridice perché di
lì, da lei nella dialogicità dell'evocazione ci rimemora. È quello
che fa Mario D'Arcangelo, splendidamente, nella lingua della natia Casalincontrada
(Chieti), in un'opera instancabile e ricchissima che lo vede tra l'altro autore
di testi per canzoni e favole musicali per l'infanzia, oltre che paroliere di
musica sacra. Nello stordimento di giorni "sotto il segno inafferrabile di
un presente di senso incomprensibile", come bene rivela Nicola Fiorentino
nella prefazione a questo ultimo lavoro che già dal titolo sa risucchiare nella
spirale delle sue sparizioni, ecco lo scatto, la scossa sì dell'uomo prima che
del poeta a lasciarsi vestire ma non
investire dalle provocazioni a perdere della Storia, nella parola allora lo
sguardo a tu per tu con quel buio che quella parola come detto di vita sembra
voler cancellare. Così nella franchezza di una terra salda nelle sue
proposizioni ecco la voce, il grido atteso, vegliato dalle contrade e dai campi
ad imprimersi subito in tutta la forza emotiva e la logica della sua
intelligenza:"Ce fu nu monne, sacce mode i'/che la parole ere na
scretture/lu tempe ere sote/ e no suttile" ("ci fu un mondo, e io
conosco il modo/ che la parola era una scrittura,/il tempo era sodo e non sottile"). Il tempo della formica su cui
reggeva il mondo nell'aiuto a ricordare (e alla mente altri echi, altri mondi
di formiche e centauri nella polemica contro la permuta della Storia), nel segno
adesso di una cadenza in cui il tutto oscurandosi sgretola, assottiglia, dissomiglia
nell'arroganza, nell'albagia radici e lontananze; dal cielo segni appunto di
spazi che vanno accorciando ma non spiegando le distanze, già come in quella
Scrittura più alta a cui sempre questa parola si riferisce, la ciclicità del
tempo come interrotta tra le spine di un tormento che non ha senso. Chiaro però
sia bene dirlo che l'imprimatur del dettato che sa affondare negli abissi della
luce dispersa non ha il vacuo, e vano dunque, tratteggiamento, di un mondo
statico nella sclerosi di un freno a fronte di un presente che non può e non
vuole, per sua incapacità o per sua natura riconoscere ma l'interrogativo di un
mondo che senza guida, senza strumenti come accennato e sotto i colpi dei suoi
predatori cerca avanzando di ristabilirsi dalle fondamenta di ciò che d'umano,
ancora ed è bene ricordarlo sempre, lo implica rappresentandolo dalle urgenze.
Così eticità e religiosità del vivere vanno di pari passo, intrecciandosi,
coinvolgendosi, provocandosi in quella forza espansiva di un'espressione ora
panica ora urgentemente concreta che ha la sua verità di remissione nell'umiltà
del dire basso, dal basso, di una fede, sgomenta, come di avi, e in quel tono
di ninna nanna che ora pare di scorgere ancora ogni tanto a sera, a cercarci
presso le case nel saluto ("E a le scretture m'arevote, quande/all'are de
lu 'ddòsele parlive/ a lu prufete, 'ncime a l'alture"- "E alle
scritture mi rivolgo, quando/sull'aia dell'ascolto parlavi/ai profeti, in cima
alle alture"). Perché l'uomo è nel coraggio, D'Arcangelo ne è consapevole,
e col poeta lo sa bene che l'essere non è nel nascondimento ma nella sua
fuoriuscita, di qui allora la rinominazione dei luoghi dove l'uomo è stato
messo, nel perché e con chi è stato messo, che è ciò che poi è stato
dimenticato e ci va uccidendo. Così l'umile parlata del suo borgo diventa
"la lingua che dice i dolori e le speranze del mondo" (ancora
Fiorentino) dalla bocca di un cantore che sa donarsi al buio nell'accettazione
nella provvidenza di una meraviglia ancora viva, e bruciante nel proprio
riconoscimento e nella propria insufficienza, e che ha nei bambini, e nelle
giovani generazioni cui il mondo va derubando l'incidenza, nel passaggio, la
sua prima direzione. Là nell'affondo tra le piane e le valli della vita e
dell'esistenza stessa, tra memorie e presenze ancora attive il potere e il
dovere della parola nello sguardo ancora stupefatto di un canto alla riscoperta
di sé e del mondo per capire se di nuovo "pò cresce/aunite a la vite,
sencere, la pîte" (" può
crescere/insieme alla vita, sincera, la pietà"), motore di una salvezza
che solo di qui adesso sembra possibile nel riconoscimento della fragilità
comune, là dove, nati da un soffio "de leto e de cretone" ("di
limo e creta"), ancora l'astore domina le sue vittime e "il padrone
della passatella" ("lu patrone de la passatelle") perso non ha
"il vizio e il piacere/ di mandare a secco il sotto" (lu vizie e lu
piacere/da fà olme lu sotte"). La
sezione conclusiva allora ("Mo scì"- "Adesso sì") ci regala
a fronte di un tempo di ipocondria e di morte (che guarda "rrete a le
porte,/de botte e senza refiatà"-" dietro le porte,/di colpo e senza
respiro") l'intensità di una spinta che il canto vuole fuori dai confini,
il dolore esposto sotto un più aperto cielo, l'uomo nella sua speranza a
risuonare nella spina insieme alle sue
piccole stelle, costellazione e figura
di ciò che gli è caro, lo fa caro a sé e agli altri nel condiviso limite della
sua condizione "p'abbruscià de sblandore/nu refiate d'amore/addè regne la
pîte/ pe nu
munne sturdite" ("per bruciare di splendore/un respiro d'amore/dove
regna la pietà/ per un mondo stordito").
Dunque ancora la pietà come chiave, come modalità di proposizione e
resistenza, di salvezza allora nell'invito fraterno a coltivare i segni che
pure dal buio risalgono a dirci l'infinita possibilità della semina. Un testo
allora che in conclusione anche per questo, per la sua voce d'ogni giorno in
espansione ed amore d'alba, di veglia di stagioni in ritorno di consolazione e
speranza, con forza andiamo a segnalare confidando nella fede di una parola
profondamente radicata nell'uomo.
Carissimo Gian Piero, porti avanti la tua meritevole e superba lotta per la difesa dei dialetti e, nello specifico dell'idioma a te tanto caro, quello abruzzese. Presenti l'Opera di Mario D'Arcangelo, di Chieti, e nella tua esegesi puntualizzi che: "Un ridisegnarci dai confini, dalle terre dunque che ci hanno informato e formato nella sacralità continuamente rinominata ed ivi rimessa di una creaturalità che comprehendoci continuamente ci ridice perché di lì, da lei nella dialogicità dell'evocazione ci rimemora." L'Autore nel dittato poetico è legato alla sacralità delle radici, ci ricorda, attraverso il tuo dire, che ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alla sua terra. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo. Quindi non è vero che l’unica cosa che conta è dove uno riesce ad arrivare, è vero il contrario: importa solo da dove uno proviene.Bellissimo in tale contesto ciò che esprimi riguardo al Poeta: "l'intensità di una spinta che il canto vuole fuori dai confini, il dolore esposto sotto un più aperto cielo, l'uomo nella sua speranza a risuonare nella spina insieme alle sue piccole stelle."Le radici non sono vincolanti. Lo dimostra la tua storia, Gian Piero, la mia. Si può nutrire la gioia di farle conoscere altrove, di creare talee e sentirsi parte del fango da cui siamo stati tratti e di altre terre. Un messaggio di grande importanza soprattutto in questo momento storico che vede solo separazioni. Ringrazio te, amico mio e l'Autore, che non ho la gioia di conoscere, e mi permetto di stringervi entrambi!
RispondiEliminaMaria cara grazie, la terra ci racconta.. rendiamole onore in quel che possiamo..un abbraccio forte, e un saluto caro al nostro Nazario che ci consente di condividerci..
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